LA NATO TRA AUTISMO E DISIMPEGNO
Di fronte all’ormai evidente impossibilità di recuperare anche solo in parte i territori persi dall’Ucraina, la NATO cerca disperatamente una via d’uscita che non la demolisca politicamente. Ma, intrappolata nella propria propaganda, sembra preda di una sorta di autismo che le impedisce di vedere/accettare la realtà strategica – sia quella del conflitto, sia quella dell’emergente multipolarismo. La conseguenza è un pericoloso impasse, che trascinerà la guerra almeno sino al prossimo anno.
La trappola dello storytelling
Quando – dopo otto anni di guerra civile – il conflitto ucraino è finalmente divampato in guerra aperta con la Russia, l’obiettivo statunitense era quello di schiacciare Mosca attraverso una guerra ibrida, la cui durata si stimava in meno di un anno. E, ovviamente, parte di questa guerra era una mobilitazione senza precedenti dell’apparato propagandistico e mediatico anglo-americano. Tenendo presente che il sistema dei media, praticamente a livello globale, ma certamente nei paesi occidentali, è totalmente in mano ad un ristretto numero di produttori/distributori di notizie (tutti di paesi NATO), e che questi sono a loro volta controllati – in modo diretto o indiretto – dalle agenzie di intelligence britanniche e statunitensi, è facile comprendere come ciò fosse logico oltre che necessario.
Ovviamente, anche la guerra mediatica è stata concepita e messa in atto sulla base del disegno complessivo, che come detto aveva un orizzonte temporale relativamente breve. La funzione della propaganda era relativamente semplice: non soltanto fornire un senso al conflitto, ma costruire una narrazione fondata su due pilastri: la demonizzazione del nemico e la certezza della vittoria.
Questi due elementi fondanti della narrazione bellica occidentale sono strettamente e funzionalmente connessi, in quanto – se dai per scontata la sconfitta nemica – la sua virulenta demonizzazione diventa non solo utile, ma possibile. Il presupposto, infatti, è che se l’avversario sarà schiacciato ed umiliato, dipingerlo come un mostro legittimerà ulteriormente tale approccio; e, per converso, essendo esclusa a priori l’eventualità del negoziato, non sarà in alcun modo di ostacolo.
È in fondo la medesima logica per la quale il governo Zelensky fece approvare una legge che vietava ogni trattativa con la Russia (finché alla presidenza di questa vi fosse Putin).
Il problema di questa postura è che se poi le cose vanno diversamente dal previsto, ci si ritrova incastrati nei propri presupposti; in parole povere, la trattativa (con Putin) dovrà farla un governo diverso, o quello attuale, ma dopo aver smentito se stesso.
Avendo fatto del conflitto ucraino una proxy war, la NATO si trova oggi in una duplice trappola, costruita dai propri stessi errori. In primo luogo, la guerra si è rivelata non solo tutt’altro che breve, ma anche assai sanguinosa e dispendiosa, cosa che ha messo a dura prova l’intero sistema militare-industriale dell’Alleanza Atlantica e la pone oggi dinanzi alla impossibilità di mantenere nel tempo un tale livello di sostegno economico e militare.
In secondo luogo, avendo martellato per un anno e mezzo sui due suddetti pilastri (“Putin = Hitler”, “L’Ucraina vincerà”), dinanzi all’evidenza che la vittoria ucraina è letteralmente impossibile, non può facilmente operare una conversione a 180° e, oltre a dover accettare la sconfitta, dover anche trattare con Hitler…
Il gigantesco problema in cui si dibatte oggi la NATO è, quindi, fondamentalmente trovare una exit strategy praticabile. Ma, ancora una volta, a renderlo assai complicato è proprio l’auto-narrazione in cui persiste la leadership atlantica.
Se guardiamo ad esempio agli USA, che rimangono il fulcro di ogni decisione reale, osserviamo che la estrema polarizzazione che si è determinata (Biden vs Trump, democratici contro repubblicani) fa sì che i due elettorati tendano a far proprie le posizioni dei leader, a prescindere dalle convinzioni personali. Così abbiamo l’elettorato pro-Trump prevalentemente critico verso il prosieguo del sostegno a Kiev, mentre quello democratico è fortemente schierato a favore. Il risultato è che Biden, ormai lanciato nella campagna presidenziale per il secondo mandato, non può facilmente rovesciare la propria posizione in merito per non rischiare di perdere le elezioni. Il suo elettorato, infatti, è stato spinto ad irrigidirsi sul sostegno incondizionato (proprio dalla propaganda Democrat), e non glielo perdonerebbe.
L’amministrazione Biden, ed al suo interno soprattutto i neocon, era talmente sicura che tutto sarebbe andato come previsto, da non predisporre neanche una vera e propria strategia complessiva atta a conseguire gli obiettivi prefissi, figuriamoci poi dal pensare ad un possibile piano B.
La NATO, insomma, è rimasta prigioniera della sua stessa “retorica iperbolica”, come l’ha acutamente definita Branko Marcetic [1] su ‘Responsible Statecraft’ [2], la quale ha fatto sì che l’opinione pubblica fosse “indotta a pensare che l’esito della guerra non riguardi solo Kiev e la sua riconquista del territorio perduto, ma abbia una posta in gioco esistenziale, per la sicurezza degli Stati Uniti, per l’intero ordine globale e persino per la stessa democrazia” [3].
L’estrema radicalizzazione del discorso pubblico sulla guerra, insomma, determina un effetto boomerang, agendo non solo come strumento motivazionale per le opinioni pubbliche occidentali, ma di rimando anche sulle sue leadership, che sono in qualche misura costrette ad attenersi alla propria narrazione del conflitto.
E questa trappola agisce su due livelli, corrispondenti appunto ai due pilastri della guerra mediatica.
Cercando una via d’uscita
Il primo livello è quello determinato dalla demonizzazione del nemico, che rende impossibile recedere da un confronto delineato come apocalittico, così come rende impossibile scendere a patti col nuovo Hitler.
Ma non meno complesso è quello del secondo livello, legato alla retorica della ineluttabile vittoria dei buoni. Una volta che tale vittoria appare impossibile, si pone da un lato la necessità di trovare le responsabilità di tale rovescio, e dall’altro quella di come affrontare la sconfitta. Perché, ovviamente, una guerra non è una partita di Champions League, non può finire in pareggio. O vinci o perdi. Dunque se la guerra viene vinta dalla Russia, è la NATO ad uscirne sconfitta. Una prospettiva inaccettabile, per Washington, tanto più in un momento di estrema fragilità del dominio globale – quando persino un paese africano come il Niger si permette di sbattere la porta in faccia alla Nuland…
Questa situazione, sommandosi ovviamente ad una serie di altri fattori, determina l’incertezza con cui a Washington affrontano queste problematiche. Fondamentalmente, per il momento sembra prevalere l’idea di rinviare le scelte – il che, a sua volta, significa tenere in piedi la guerra ancora per un tempo indeterminato.
Naturalmente, nel frattempo negli states si discute, più o meno apertamente, su come venir fuori dalla trappola. Da mesi, sui maggiori quotidiani statunitensi, ci si confronta su questi temi, sia analizzando più obiettivamente la situazione sul campo, sia interrogandosi sulle possibili vie d’uscita. Il limite più grosso a queste riflessioni, purtroppo, rimane una sorta di autismo politico in cui sembrano a loro volta intrappolate, e di cui il recente summit di Jedda è una perfetta rappresentazione. Tutto il confronto su queste problematiche, infatti, avviene ignorando totalmente l’esistenza della controparte; gli interessi strategici e politici russi, gli sviluppi concreti della guerra, in pratica il fatto stesso che qualunque trattativa debba contemplare la partecipazione della Russia, sono costantemente rimossi. La NATO, di fatto già sconfitta sul terreno, continua a ragionare come se la Russia fosse un soggetto inane, che può solo accettare le eventuali profferte dell’Alleanza.
Vediamo così che, ad esempio, sul tema delle responsabilità nella sconfitta, è già cominciato uno squallido scaricabarile, con gli ambienti NATO che ne attribuiscono la colpa agli ucraini, accusati sostanzialmente di essere incapaci di applicare le dottrine militari indicate dagli strateghi dell’Alleanza, e di un uso sbagliato dei mezzi forniti, mentre gli ucraini a loro volta accusano la NATO di forniture scarse e tardive, e di proporre tattiche inadatte ed impossibili da applicare. Si tratta ovviamente di un triste gioco delle parti, in cui ciascuno cerca di salvare la faccia rispetto alle proprie opinioni pubbliche, laddove la realtà è che sono entrambe ed egualmente corresponsabili. La Grande Controffensiva ucraina, su cui la macchina mediatica ha lavorato per mesi, e che è stata pianificata di concerto dagli stati maggiori NATO ed ucraino, è stata l’estremo tentativo politico-militare di modificare l’andamento del conflitto, non tanto con l’illusorio intento di una impossibile riconquista territoriale, ma più modestamente con quello di acquisire un minimo di vantaggio su cui far leva. Ma così non è andata.
Nella Matrix immaginifica in cui galleggiano le leadership NATO, sinora sembra prevalere l’ipotesi del congelamento coreano, ovvero una sorta di fermo immagine del film della guerra che dovrebbe bloccare lo status quo. Il presupposto su cui si basa questa ipotesi è che il conflitto si trovi in una fase di stallo immodificabile, e che quindi uno stop sarebbe vantaggioso per entrambe i contendenti. Su quanto questa ipotesi sia irrealistica, sotto il profilo strategico, ho già scritto precedentemente [4]; essa infatti non corrisponde in alcun modo agli interessi russi. Ma c’è di più. Se di stallo si può parlare, questo vale solo ed esclusivamente per la proxy war ucraina, mentre la situazione sul campo racconta tutt’altra storia.
In due mesi e mezzo, la controffensiva ucraina si è di fatto impantanata, e per di più dopo aver pagato (ancora una volta, dopo Bakhmut) un altissimo prezzo di sangue [5]. Al contrario, le forze armate russe sono all’offensiva in due settori significativi. A nord-est, sono avanzate di alcuni chilometri in profondità, avvicinandosi fortemente alla città di Kupyansk, che rischia seriamente di diventare il prossimo tritacarne, tanto che gli ucraini l’hanno già evacuata dai civili, oltre quelli di una trentina di insediamenti vicini.
Questa pressione offensiva è importante non solo sul piano militare, per gli sviluppi che potrebbero seguire la caduta della città su un ampio settore del fronte, ma perché si sta sviluppando nell’oblast di Kharkov, che non fa parte dei quattro annessi alla Federazione Russa.
Ciò indica chiaramente che sicuramente la Russia non potrà considerare di fermare le operazioni militari sintanto che non avrà realizzato una fascia protettiva ad ovest dei quattro oblast. Solo allora, forse, sarebbe possibile un congelamento della situazione.
Inoltre, ormai ininterrottamente da settimane le forze aerospaziali colpiscono ogni notte in tutta l’Ucraina, avendo a bersaglio infrastrutture portuali, impianti industriali, depositi di munizioni e centri di comando. Tutto ciò attesta indubitabilmente che non vi è alcuno stallo generalizzato, ma che il conflitto vede una pressione costante da parte russa, anche se questa non produce (per il momento) vaste variazioni lungo la linea del fronte.
Farewell, Ukraine
Una variante più avanzata di questa ipotesi è stata ipotizzata da Stian Jensen [6], il capo di gabinetto del segretario generale della NATO, salvo poi smentirla rapidamente. In questa variante, si ipotizzerebbe uno scambio: i territori liberati dai russi sarebbero riconosciuti come parte della Federazione Russa, che a sua volta accetterebbe l’ingresso dell’Ucraina nella NATO.
Anche se Jensen, dopo la dura reazione del portavoce del ministero degli Esteri ucraino Oleg Nikolenko, si è parzialmente rimangiato ciò che aveva detto, appare evidente che anche questa ipotesi è stata formulata in ambito NATO. Che sia trapelata per una ingenuità di Jensen, o per sondare il terreno, è di secondaria importanza. Ciò che conta è che, rispetto all’ipotesi coreana, si fa un ulteriore passo avanti, ma sempre senza tenere conto degli interessi russi.
Se, infatti, l’altra ipotesi è sostanzialmente una sorta di Minsk III, che servirebbe agli ucraini ed alla NATO per rimettersi in piedi e prepararsi ad una nuova guerra, questa prevederebbe invece una stabilizzazione formalizzata.
Il punto debole di questo scambio è che non solo Mosca non accetterebbe mai un ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica – in fondo, questa è la ragione principale per cui è entrata in guerra – ma che l’offerta è irrisoria: l’occidente infatti metterebbe sul piatto qualcosa che la Russia ha già, e che non rischia di perdere.
Siamo quindi ancora nell’ambito dell’autismo politico occidentale.
Un po’ per necessità materiale, un po’ per convenienza politica, la NATO sarà pertanto spinta ad un progressivo disimpegno. Continuerà a fornire aiuti, ormai soprattutto pacchetti di alto valore simbolico (ed economico…), come missili a lungo raggio e caccia F-16, ma del tutto irrilevanti, incapaci di fornire un apporto decisivo alla capacità operativa delle forze armate ucraine, sia per la quantità sia perché ciò di cui avrebbe bisogno Kiev è ben altro [7].
Anche, ma non solo, in conseguenza di ciò, si allenterà il coordinamento strategico tra i comandi NATO e quelli ucraini, con i primi sempre più scettici rispetto alle capacità dei secondi, e questi sempre più diffidenti verso i sostenitori atlantici.
L’esigenza primaria di Washington, e quindi della NATO, tanto più con l’avvicinarsi della campagna per le presidenziali in USA, è insomma quella di procedere ad uno sganciamento soft, scaricandone la responsabilità sugli ucraini; già la narrazione comincia a svoltare verso il plot “abbiamo fatto tutto il possibile, ma non sono capaci…”, che potrebbe preludere – in caso di necessità – anche ad una sostituzione (più o meno indolore) di Zelensky, per poi procedere verso una conclusione gradita.
Il problema, naturalmente, è trovarne una, e che sia anche praticabile, ovvero che finalmente prenda in considerazione la Russia non come una entità astratta, ma come una realtà portatrice di interessi, e che deve fare i conti sia con gli equilibri interni che con i costi affrontati. Ma questo, al momento, appare assai difficile.
Certo, mal che vada, c’è sempre la soluzione afghana. Mollare tutto e tutti, avvolgere la bandiera e tornare a casa.
Ciò che possiamo attenderci, dunque, è si un congelamento, ma delle capacità offensive ucraine, e del sostegno significativo occidentale. Kiev sarà costretta ad adottare una strategia difensiva, rinunciando a velleità di riconquista, e sfruttando così il vantaggio derivante da una condotta operativa che minimizza le perdite. I russi, dal canto loro, riprenderanno la spinta offensiva, ma senza abbandonare la linea di condotta che, a sua volta, cerca di minimizzare le perdite. Continueranno gli attacchi dall’aria, e la distruzione sistematica delle infrastrutture logistiche e militari. Arriverà l’inverno, e i danni alle strutture energetiche ed elettriche si faranno sentire sulla popolazione ucraina, ormai stremata da un numero enorme di morti e feriti e dalla distruzione dell’economia. A meno di un tracollo improvviso [8], la guerra si trascinerà verso il 2024, in attesa che il match Biden-Trump si risolva.
In Europa, intanto, la crisi continuerà a mordere, e per le leadership vassalle sarà sempre più difficile tenere insieme capre e cavoli. Il mondo scivola verso il multipolarismo, e noi scivoliamo verso il baratro. Prima o poi, dovremo fare i conti con una verità assai semplice: “nous avons besoin des Russes et ils ont besoin de nous” [9].
1 – Marcetic è un membro della redazione del magazine di sinistra Jacobin, ed ha collaborato con varie testate statunitensi.
2 – “Can Washington pivot from its maximalist aims in Ukraine?”, Branko Marcetic, Responsible Statecraft
3 – Ibidem
4 – Cfr. “Due guerre”, Giubbe Rosse News
5 – Come riassume bene l’analista statunitense Daniel L. Davis, “la fredda e dura verità nella guerra tra Russia e Ucraina oggi è che l’ultima offensiva dell’Ucraina è fallita, e nessuna quantità di giri di parole cambierà l’esito”. Cfr. “The Hard Reality: Ukraine’s Last-Gasp Offensive Has Failed”, Daniel L. Davis, 19fortyfive.com
6 – Cfr. “Guerra in Ucraina/Territori a Mosca in cambio dell’accesso alla Nato”, Giulia Lecis, Quotidiano Sociale
7 – Cfr. “Collasso”, Giubbe Rosse News
8 – Ibidem
9 – Nicolas Sarkozy, intervista a Le Figaro
Non pagano mai. Quanto si è parlato dell’afganistan: pochi giorni, poche settimane. Poi tutto dimenticato. I russi dovrebbero fare un organismo che condanni le stragi e il non rispetto delle norme internazionali così saranno le Nulan a non poter lasciare il loro paese per non essere incarcerate
complimenti per l’articolo, la lucidità e la minuziositá della analisi.
È sempre un piacere leggervi.
Cordiali saluti,
Sergio
Temo che la guerra finirà con l’arrivo dei Russi ad Odessa ed a Kiev e con la spartizione di ciò che resterà di quel povero paese tra Polonia ed Ungheria. Gli Usa, in caso di vittoria di Trump, come già successo, avvolgeranno la bandiera e torneranno a casa, senza alcun problema. I problemi saranno solo per gli ucraini, con un economia distrutta, una statualita inesistente, centinaia di migliaia di morti e feriti ed un paese da ricostruire. Per forza di cose, dovranno farlo con l’aiuto dei Russi.