QUEL MARE DI CUI CI DOBBIAMO RIAPPROPRIARE
Nel bellissimo film di Massimo Selis, “Passi sul mare”, ritroviamo un’intensa ricerca sui tre anni che abbiamo vissuto all’insegna dell’emergenza. Le chiusure, i confinamenti, gli obblighi, i lasciapassare, e poi le relazioni frantumate e le manipolazioni mediatiche, le tragedie e le follie, raccontate da persone comuni che hanno deciso di assumersi il peso delle loro verità e di inaugurare strade nuove.
Raccontare gli anni della cosiddetta pandemia è difficile ma terribilmente necessario. Passato – per ora – il violento diluvio di sproloqui che ha inondato le nostre vite, resta un campo di macerie da bonificare, un vorticare di significati intenzionalmente distorti che attendono di essere ripristinati. Resta un enorme bacino di ragioni inespresse da liberare, un tessuto di storie piccole che devono essere re-intrecciate, di immagini da riordinare in sequenze finalmente coerenti.
Questo è appunto l’orizzonte davanti a cui si pone Massimo Selis, regista sardo e fondatore della casa di produzione Phausania Film, nel suo “Passi sul mare”. Un’opera in cui ogni fotogramma è pensato e pesato per restituire il solco di una narrazione autentica, di una parola faticata. In cui non c’è spazio per virtuosismi narcisistici, sovraccarichi enfatici o quant’altro un cinema sempre più ruffiano ci abbia abituato a digerire. C’è posto invece per quella sobrietà che lascia brillare ogni dettaglio e restituisce tutta intera la ricerca di senso sui tre anni che abbiamo vissuto. A partire dalla voce di persone comuni che hanno saputo resistere agli avatar-narratori dell’emergenza a senso unico: qui, infatti, ad auto-narrarsi sono loro, senza alcuna certezza che non sia quella di un vissuto profondamente meditato. Entriamo dunque nella casa di Linda, ex allenatrice di pallacanestro e donna dalla grande tensione introspettiva. Insieme a lei conosciamo suo marito, parrucchiere in pensione, e la giovane figlia. Tutti e tre non vaccinati per scelta, a costo di dolorose rotture. Alle loro storie un sapiente montaggio intreccia quella di Zoe, spirito schietto e ribelle, militante indipendentista cresciuta nel cuore della Sardegna, viva grazie alle tanto vilipese cure domiciliari. E scampata al gorgo del collasso sanitario in cui, purtroppo, ha perso la vita suo fratello, portato via su un’ambulanza e spirato – dopo una lunghissima attesa – appena approdato alla sospirata struttura.
Da loro nasce il rovesciamento del falso racconto delle versioni ufficiali. Contro l’epica dell’iniezione che trasforma masse di anonimi in salvatori del mondo, e contro la costruzione posticcia di un “new normal” fatto di protesi deumanizzanti o relazioni da remoto, riaffiora un eroismo senza retorica – quello di chi sa scegliere, assumendosi il peso delle proprie verità anche senza il resto del mondo – raccontato fra mura domestiche dove si ripetono gli atti e le scene di sempre, o in mezzo al verde della campagna o sulla riva del mare. Negli spazi da alcuni ritrovati, da altri sempre abitati. La voce della televisione, distante e metallica, qui è un sottofondo disturbante, subito estinto da parole che fioriscono nel silenzio, fluiscono secondo ritmiche non meccaniche. E spiegano la forza di ragioni altre con il lessico della quotidianità, dove finalmente a ogni significante risponde il suo significato, o dove l’assurdo a cui milioni di persone si sono assuefatte può riprendere le sue reali forme grottesche: il paludamento degli operatori sanitari scesi da un’ambulanza diventa un’uniforme da “sbarco sulla luna” e gli esercizi per verificare a distanza lo stato di salute del malato sono quelli dell’asino “che viene fatto girare intorno alla macina” come dicono il marito di Zoe e un suo amico. Le distanze forzate, il mormorio malevolo dei paesani, i licenziamenti, l’irrazionalità dei protocolli, le fratture coi familiari, l’accesso ai bar tramite carta verde tornano nella più trasparente concretezza, a restituire ciò che più di tutto la propaganda teme: la nudità dei fatti senza le manipolazioni o i secondi livelli del discorso artificiale (sarà Linda a ravvisare nel montaggio dei telegiornali ripetute stranezze pericolosamente somiglianti a interruzioni di schema, cavallo di battaglia della PNL e di analoghe tecniche persuasive).
Tuttavia – ed è questa una delle più brillanti intuizioni del film – l’auto-racconto dei protagonisti non si cristallizza in quei tre anni pur cruciali, ma dà loro un prima e un dopo, li contestualizza nel più complesso percorso di vita di chi narra, e li riempie di senso incorporandoli in una memoria quasi genealogica. Quella di Linda che comincia ricordando la straordinaria forza di sua madre, ad esempio, o quella di Zoe che invece parte da un lontano, afoso pomeriggio di lavoro al termine del quale si presentano per la prima volta problemi respiratori destinati a cronicizzarsi. Le ragioni altre di cui dicevamo, insomma, sono incomprensibili se non viste come il portato di un vissuto: non è l’atto a produrre la persona – come vorrebbero la retorica dell’eroismo vaccinale o la logica del cittadino obbediente – ma è la persona, con tutte le esperienze che l’hanno costruita, a determinare la possibilità di una scelta differente. Non è il camminare sulle acque (da cui il bellissimo titolo del film) a produrre la fede: è esattamente l’inverso. Così è come se sottilmente l’obiettivo si spostasse sullo spettatore, e non su ciò che ha fatto ma su ciò che è o che vuol essere: questo è il sentiero che dal passato si apre alla possibilità di un futuro. Se i protagonisti del film sono stati anzitutto protagonisti delle vite che raccontano, è perché hanno imparato a leggerle per intero attraverso lenti personali: i “segni che sono ovunque” – per usare l’espressione di una delle protagoniste – indicano strade riconoscibili solo da chi ha imparato a vedere con i propri occhi.
E sono strade che riequilibrano il mondo, istituiscono nessi impensati, reinterpretano l’apparente banalità del quotidiano, reinsediano gli uomini nei loro luoghi. La casa, dicevamo, rivissuta come rifugio intimo e non come carcere, ma soprattutto l’esterno, ossia gli spazi tanto a lungo vietati. Noi che abbiamo vissuto la follia pandemica non dimenticheremo mai le scene – rilanciate continuamente dai media come parte di quell’orrendo ordito spettacolare – di droni che presidiano spiagge deserte per assicurarsi che nessuno si avvicini, o di atleti rincorsi dai carabinieri come fossero pericolosi evasori perché osavano correre in solitudine sulla riva. Non dimenticheremo il mare eletto assurdamente a emblema della zona rossa, e proprio perciò potremo riscoprire nel mare che contrappunta il racconto del film quell’idea di libertà a cui la logica del confinamento voleva sottrarre il nostro immaginario. Tutto si risemantizza nei passi sulla sabbia di una delle ultime scene del film, dove dai margini ricompaiono – quasi fossero i resti di un’epoca remota, disseppelliti per uno scherzo del vento – i segni degli antichi divieti. “Non sembra vero” dicono Linda e suo marito. Ma una verità c’è, e deve essere ritrovata. Zoe dirà la sua, proprio in conclusione, ricordando commossa la tragica scomparsa di suo fratello: “In paese dicono che è morto di covid, ma Marcello non è morto di covid. Io lo dico sempre: Marcello è stato ammazzato. Marcello doveva essere qui con noi”. Ancora una volta la chiave è nella parola: nel dire sempre. Nel dire che la storia poteva (e potrebbe) essere un’altra: ancora una volta nelle parole che fioriscono dal silenzio e talora lo squarciano si apre una strada. E la fine di un film – che anche per questo merita di essere assaporato fino in fondo – può promettere la speranza di un inizio nuovo.
Tutte le immagini sono tratte dal film.