DUE GUERRE

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Guerra guerreggiata e guerra cognitiva sono due aspetti della guerra ibrida in corso, che non sempre sembrano in connessione tra loro. Ma la grande partita a scacchi che si sta giocando ridisegnerà il mondo ed i suoi equilibri di potenza. Ogni mossa falsa può contribuire a far cambiare tempi e modi dello scacco matto.

La percezione occidentale del conflitto

Apparentemente, sono in atto due guerre: una guerreggiata che si combatte sul campo di battaglia, l’altra cognitiva, destinata alle menti di ogni angolo del mondo. In un contesto in cui tutti i soggetti convengono sul fatto che quella in atto è a tutti gli effetti una guerra ibrida e che, quindi, queste due guerre sono in realtà solo due facce della stessa medaglia, potrà forse suonare strano leggere che esistono due guerre distinte.
È interessante notare che l’Occidente parla di guerra dell’informazione e lo fa nella convinzione che la stia vincendo (il direttore della CIA William Burns si è rivolto al Senato degli Stati Uniti dichiarando che “la Russia sta perdendo la guerra dell’informazione sull’Ucraina”). Sul versante opposto, Andrei Ilnitsky, un importante stratega consigliere del Ministero della Difesa russo, parla invece di guerra cognitiva (mental’naya voina). Ad un primo sguardo, può sembrare che dicano la stessa cosa, solo con termini diversi, ma non è esattamente così.

Burns pone infatti il focus sul come tale battaglia viene portata avanti, che è appunto – e ben lo sappiamo – un esercizio totalizzante di propaganda: censura delle fonti nemiche, criminalizzazione del dissenso, costruzione di una narrativa distorta. Dal canto suo, Ilnitsky si focalizza invece sul cosa, sull’obiettivo che si vuole conseguire, ovvero la capacità di distinguere e comprendere.
Ma, ben più importante, è qualcosa che ancora sfugge a questa, pur diversa, lettura. Ed è la dimensione spaziale. Il conflitto in atto, infatti, non è una questione che riguarda soltanto i diretti contendenti; è una prova di forza, il cui valore (ed il cui esito) non stabilisce meramente i rapporti tra gli schieramenti ostili, ma tra questi ed il mondo intero. Se, dunque, il campo di battaglia della guerra guerreggiata è limitato all’est europeo, quello della guerra cognitiva non ha limiti.

Come in ogni conflitto, c’è ovviamente un intreccio tra le due guerre. La propaganda serve fondamentalmente ad ottenere il sostegno (politico, materiale, morale) alle proprie forze in campo. Ed è quindi rivolta essenzialmente al proprio fronte interno. Ma serve anche a creare un clima internazionale ostile all’avversario. Se guardiamo a questi due aspetti, l’affermazione di Burns risulta totalmente fallace.
Per quanto riguarda il fronte interno occidentale (USA, Europa, Ucraina), nonostante un uso spregiudicatamente violento della propaganda, risulta abbastanza evidente che il sostegno alla guerra (ed a chi l’alimenta e la vuole) è a dir poco scarso. La popolarità dei leader occidentali è pressoché ovunque assai bassa, a partire da quella di Biden. Viceversa, per quanto il fronte interno russo non sia ovviamente graniticamente compatto, è altrettanto evidente che il sostegno alla guerra, ed ancor più alla leadership, è molto più alto che in Occidente.
Quanto alla dimensione internazionale, l’accelerazione di innumerevoli processi di smottamento geopolitico rende plasticamente evidente che la guerra cognitiva occidentale ha fallito.

Come ho avuto modo di sostenere precedentemente, uno dei grandi problemi con cui deve fare i conti l’Occidente, in questo frangente storico, è la propria straordinaria supponenza. È ovviamente qualcosa che ha a che vedere con la storia, con la narrazione storica che l’Occidente si è costruito nei secoli e di cui il suprematismo americano non è che l’ultima manifestazione.
Nonostante un certo dilagare di pensiero autocritico (sul colonialismo, sul razzismo ad esso connesso ecc.), si tratta comunque di una manifestazione di superiorità (se lo diciamo noi che il colonialismo è cattivo, allora è così…), che peraltro lascia inalterati i reali rapporti presenti tra Occidente e resto del mondo. La frase di Borrell sul giardino e la giungla, voce dal sen sfuggita, è chiaramente paradigmatica del pensiero profondo delle classi dirigenti occidentali.
Questo enorme problema cognitivo si traduce non soltanto nella convinzione della propria superiorità – morale, politica, tecnologica – ma, conseguentemente, anche in una pericolosa distorsione percettiva.

Nell’ultimo mese, in Russia è cresciuta la percentuale di chi crede che le operazioni militari in Ucraina stiano procedendo con successo: a giugno era del 54%, a a luglio del 60%. Il 26% pensa invece il contrario. (Fonte: Sondaggio Levada Center)

Durante la golden age del dominio occidentale, ed ancor più dopo la caduta dell’URSS, il cuore dell’Occidente – ovvero l’impero statunitense – ha esercitato il suo potere globale attraverso una proiezione militare mai vista nella storia, attraverso un esercizio ricattatorio dell’economia e della finanza e, non ultimo, attraverso il soft power della sua gigantesca industria della comunicazione (1). Attraverso quest’ultimo, ha diffuso la propria filosofia di vita, il proprio modello culturale e politico, facendone  – appunto – il modello cui tendere, universalmente.
Lo scoppio del conflitto ucraino – che è assai più di una delle tante guerre occidentali, ma un passaggio cruciale della storia – ha cambiato radicalmente le cose. E, poiché la posta in gioco è elevatissima, si è reso necessario passare dal soft power all’harsh power: censura delle fonti nemiche, criminalizzazione del dissenso, costruzione di una narrativa distorta.
Ma questa operazione era possibile soltanto all’interno dell’Occidente. E la sua leadership non si è resa conto né di questo scarto, né delle sue conseguenze.

In un certo senso, è come se l’Occidente, avvertendo la minaccia del proprio declino, avesse indossato l’armatura approntandosi alla guerra. Ma l’armatura non è solo uno strumento di difesa: è anche qualcosa che condiziona la postura – non solo fisica – di chi la indossa; e la visuale attraverso la celata dell’elmo risulta limitata.
Fuor di metafora, la scelta bellicista dell’Occidente, il suo rinchiudersi in una prospettiva militare (la NATO-armatura), con la conseguente militarizzazione di ogni ambito civile (l’UE, l’universo mediatico ecc.), hanno dato vita e forma alla sua stessa distorsione percettiva. Il cui apice si raggiunge nel momento in cui la narrazione propagandistica – elaborata in funzione del consenso interno – si insinua nella percezione delle leadership, mischiandosi e confondendosi con la realtà fattuale.
Questa percezione falsata crea un pericoloso meccanismo di autoinganno, i cui minacciosi riflessi riverberano sulla condotta della guerra, e possono tradursi non soltanto in un tracollo dell’occidente stesso, ma in una disastrosa deriva che dilata la guerra nel tempo e nello spazio.

Tra tali riflessi possiamo sicuramente annoverare quelli che spingono a mettere in atto disegni tattici e strategici privi di fondamento reale. Tale, ad esempio, è stata la convinzione di poter mettere in ginocchio la Russia in breve tempo e, quindi, di non aver completamente considerato che – qualora questa ipotesi si fosse rivelata infondata – sarebbe stato necessario essere in grado di reggere uno scontro prolungato. La realtà dei fatti si è incaricata di distruggere questa convinzione, con il risultato che la Russia vede crescere rapidamente la propria produzione industriale militare (oltre a poter contare su sterminati arsenali sovietici), mentre l’Occidente ha esaurito le sue disponibilità ed è in forte affanno.
Lo stesso vale per le pressioni acui sono stati e sono sottoposti gli ucraini affinché sferrassero un’offensiva in grado di cambiare il quadro generale, nonostante fosse ben nota la schiacciante superiorità difensiva russa e la mancanza dei presupposti tattici per il successo (artiglieria insufficiente, assenza di copertura aerea). Pressioni dovute ad esigenze politiche occidentali e cinicamente indifferenti al massacro degli ucraini, ma anche determinate dalla (solita) convinzione che armi e tattiche occidentali avrebbero assicurato il successo di per sé.

La grande scacchiera

Ma è l’intero sguardo occidentale al conflitto, ad essere falsato. Sia in ordine alle aspettative che in ordine alla valutazione complessiva della situazione sul campo.
Al di là degli esiti disastrosi degli ultimi due momenti rilevanti della guerra (caduta di Bakhmut, 50 giorni di controffensiva), permane l’idea dello stallo, ovvero che la spinta di entrambe le forze sul campo di battaglia sia in esaurimento, e che vi sia un sostanziale bilanciamento, tale da determinare appunto una condizione di stasi sostanziale. Idea sulla cui base da tempo si accarezza l’idea del congelamento coreano, ovvero la trasformazione dello stallo bellico in sospensione delle ostilità.
Ma, ancora una volta, siamo anche qui in presenza di una distorsione percettiva. Si potrebbe quasi dire di una sovrapposizione della propria immaginazione sulla realtà. Realtà che infatti ci dice non esserci alcuno stallo, e che – conseguentemente – non vi è spazio per alcun congelamento.

All’origine di questa percezione di stasi, c’è da un lato un portato culturale, che ha appunto a che vedere col nostro immaginario (la guerra come movimento), e dall’altro una visione decisamente antica della guerra stessa, come se fosse incentrata sulle conquiste territoriali (o, per usare un’espressione dell’ex-diplomatico indiano M.K. Bhadrakumar (2), su “Westphalian principle” (3)). Ma tutto questo non ha nulla a che vedere con ciò che sta realmente accadendo in Ucraina.
Innanzitutto, il fatto che la linea del fronte non abbia subito mutamenti radicali negli ultimi mesi, non significa che vi sia un equilibrio delle forze. Questa lettura, infatti, adotta una chiave interpretativa basata sulle variazioni chilometriche, ignorando quelle assai più sostanziali.
Una lettura complessiva non può non tener conto del fatto che le perdite (umane e materiali) di parte ucraina sono spaventose, così come del fatto che questa è sotto attacco non soltanto lungo la linea di contatto, ma sull’intero paese.
Inoltre, a limitare l’iniziativa offensiva russa non è tanto una questione di equilibrio della forze (che non esiste, sotto alcun profilo), quanto una scelta strategica: non offrire agli ucraini il vantaggio derivante da una grande offensiva (che implicherebbe grandi perdite), e sfruttare appieno la totale superiorità aerea.

Contrariamente alla narrazione corrente nel NATOstan occidentale, non c’è dunque alcuno stallo nei combattimenti. Questo misunderstanding rischia però di riverberarsi anche su un possibile percorso che cerchi una via d’uscita al conflitto. Va da sé, infatti, che non è possibile avviare un qualsiasi negoziato, se una delle due parti ignora sia l’effettiva situazione sul campo, sia gli obiettivi della controparte. Perché ovviamente se si guarda alla guerra in corso come una mera questione territoriale, ne discende che gli interessi russi possano essere abbastanza soddisfatti da quanto già ottenuto, e ciò può quindi essere posto a base di un negoziato.
Al tempo stesso, e per converso, la medesima chiave di lettura può indurre a ritenere che lo stallo sia dovuto all’incapacità russa di fare di più, e che quindi sia in realtà ancora possibile ribaltare la situazione in favore di Kiev, attraverso un intervento diretto della legione baltico-polacca (effettivamente in via di costituzione). Questa è ovviamente l’ipotesi prediletta dalle frange ultrà dei neocon statunitensi.

Sostanzialmente dismessa, per quanto malvolentieri, l’ipotesi della vittoria ucraina, e di fronte alla necessità di porre fine al conflitto prima che l’esaurimento delle risorse belliche occidentali superi il livello di guardia, per le leadership occidentali – o per meglio dire, per quelle anglosassoni, le uniche che contano – la questione si pone nei termini di riduzione del danno. Come uscire dal cul de sac, salvando il salvabile – ovvero, in ultima analisi, la faccia.
Le uniche due opzioni attualmente prese in considerazione sono, appunto, quella (irrealistica) del congelamento coreano, e quella del rilancio bellico, attraverso l’intervento diretto polacco.
Questa ipotesi è ovviamente vista come il fumo negli occhi a Mosca, in quanto avvicina pericolosamente il rischio di un confronto diretto con la NATO. Se pure inizialmente questa legione si limitasse a presidiare l’Ucraina occidentale, ovviamente quel territorio (formalmente ucraino, ma sotto controllo di truppe NATO, aviazione e sistemi di difesa antiaerea compresi) diventerebbe una retrovia intoccabile, di fatto sottratta alla possibilità di essere colpita dalle forze aerospaziali russa. A meno che queste non accettassero il rischio che Varsavia o Vilnius si appellino all’art.5 dell’Alleanza Atlantica.

E che tutto sommato questa sia ritenuta la scelta più probabile, sembrerebbe confermato sia dallo spostamento della PMC Wagner in Bielorussia, sia dal vertice pubblico tra Lukashenko e Putin, sia dalle dichiarazioni rilasciate dai due.
Che in effetti, al di là della concordia di facciata, potrebbero però avere visioni diverse in materia. Se infatti per Minsk un rafforzamento baltico-polacco più ampiamente vicino ai propri confini viene percepito come minaccioso, per Mosca l’ipotesi di uno smembramento ulteriore dell’Ucraina potrebbe alla fin fine non essere il peggiore dei mali. Qualora la presenza militare polacca non sfociasse infatti in conflitto aperto e diretto, un’ulteriore divisione del paese non sarebbe solo negativa. Potrebbe infatti diventare la base realistica per una ipotesi negoziale, che veda la regione occidentale della Galizia inglobata de facto nella Polonia (quindi nella NATO), ma che lascerebbe tutti i territori tra qui ed il Donbass (ad est) e la riva sinistra del Dniepr (a sud), come stato ucraino sovrano e neutrale.
Venticinque anni dopo, si sta insomma ancora giocando la partita descritta (ed in fondo aperta) da Zbigniew Brzeziński nel suo “The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives”, ma le possibili mosse sulla scacchiera si fanno sempre meno, e quindi sempre più nervose.


1 – Dell’importanza di questo fattore sembra essersi resa conto anche Mosca, che dalla fine dell’era sovietica (e quindi della esportazione del comunismo) non si era mai posto il problema. Al recente Russia-Africa Economic and Humanitarian Forum di San Pietroburgo, invece, si sono fatti passi da gigante in tal senso. Nel suo discorso ai partecipanti, Putin ha sostenuto che la Russia e l’Africa dovrebbero creare uno spazio informativo comune, e che “si sta già lavorando per aprire uffici dei principali media russi in Africa: L’agenzia di stampa TASS, Rossiya Segodnya [gruppo mediatico che comprende RIA Novosti e Sputnik], il canale televisivo RT, l’emittente radiotelevisiva di Stato russa, Rossiyskaya Gazeta [giornale]. Dichiarazione accolta con favore dai convenuti; Gregoire Ndjaka, capo dell’Unione africana delle radiodiffusioni (AUB), ha infatti dichiarato che “siamo aperti alla cooperazione con tutti i media russi. Siamo pronti ad accoglierli in Africa”. Tra l’altro, nel Forum è stato detto che la Russia prevede di aprire filiali delle sue principali università nei Paesi africani.
2 – Cfr. “Glimpses of an endgame in Ukraine”, M.K. Bhadrakumar, Indian Punchline
3 – Il riferimento è alla Pace di Westfalia (1648), che pose fine alla Guerra dei Trent’anni ed a quella tra Spagna e province dei Paesi Bassi. Il senso è che i principi ispiratori dei tre trattati stipulati in quella occasione si fondavano, a conti fatti, su una profonda ridefinizione dei confini tra gli stati. Cfr. Pace di WestfaliaWikipedia

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