DOPO BAKHMUT

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Dopo otto mesi cade la città che Zelensky ha voluto erigere a simbolo della resistenza ucraina. Ma, al di là dal valore simbolico, non rappresenta in alcun modo un passo verso la fine del conflitto. Altre battaglie ci attendono, sul campo e fuori. Nell’intreccio tra strategie politiche e militari, nel loro reciproco condizionarsi, si trovano sia le possibilità di pace che quelle di una terribile escalation. Con sullo sfondo il pericolo che scatti, improvvidamente, la ‘sindrome di Pearl Harbour’.

Non è un punto di svolta

Purtroppo, la propaganda atlantista è così massiccia, pervasiva e totalizzante che diventa abbastanza difficile sfuggirvi, sia pure indirettamente. Benché sia ormai sempre meno credibile, persa com’è nel disperato sforzo di tenere insieme le più varie balle spaziali con la dura realtà, le sue tossine penetrano comunque nello spazio pubblico. Così, mesi e mesi di martellante propaganda sulla battaglia di Bakhmut – prima dipinta come importantissima, tanto da non poter essere assolutamente persa, per poi diventare insignificante una volta perduta – hanno comunque finito col sedimentare l’idea che il controllo di questa città fosse in qualche modo decisivo per l’andamento della guerra. Così non è.
Ovviamente, la conquista della città è militarmente importante, sia perché spinge più ad ovest la linea del fronte nel Donetsk, avvicinandola all’ultima linea difensiva fortificata di Kiev (Sloviansk-Kramatorsk), sia perché ha consentito di assestare un altro colpo durissimo alle forze armate ucraine: 72.000 caduti e circa 200.000 feriti. Considerato che, al momento dell’entrata delle truppe russe nel paese, l’esercito di Kiev contava 230.000 uomini, significa che la battaglia per la conquista di Bakhmut rappresenta, da sola, il terzo esercito distrutto in 15 mesi di conflitto.

Né, d’altra parte, va sottovalutata l’importanza simbolica – destinata a ripercuotersi profondamente sia nel morale delle truppe e del paese, sia sulla determinazione della NATO a sostenerlo. Ma sotto il profilo strategico non segna un cambiamento decisivo. Le forze armate russe hanno a questo punto davanti ancora almeno tre/quattro problemi da risolvere, prima di poter considerare d’aver raggiunto un punto di svolta strategico.
Innanzi tutto, c’è appunto da affrontare la linea Sloviansk-Kramatorsk. Si tratta della linea meglio fortificata, tra quelle predisposte dall’esercito ucraino in questi nove anni, ed ha proprio nelle due città i suoi punti di forza. Considerato che per prendere Bakhmut le forze russe hanno impiegato otto mesi, pagando anche un prezzo in perdite umane non indifferente (per quanto inferiore a quello nemico), ciò significa che superare questa linea, e conquistare le città su cui si articola, potrebbe richiedere anche più di un anno.
A meno che i russi non decidano di cambiare drasticamente tattica, e di procedere direttamente con massicci bombardamenti a tappeto; o che riescano ad aggirarla, come fecero i tedeschi con la Maginot.

Un altro nodo importante da sciogliere è la conquista di Avdiïvka, la cittadina a pochi chilometri da Donetsk, da cui gli ucraini bombardano quotidianamente le città dell’oblast passate ai russi. Anche qui, la battaglia infuria da tempo, la progressione russa c’è, ma la resistenza delle forze di Kiev è tenace. La riconquista della città è importante, non solo per poter allontanare le artiglierie ucraine, ma anche per completare la liberazione della regione.
Quello della distanza di tiro è tra l’altro uno dei problemi che devono fronteggiare i russi. La fornitura di sistemi d’arma NATO a sempre maggiore gittata implica la necessità di allontanare sempre più la linea di combattimento dagli obiettivi sensibili, soprattutto le linee di rifornimento e le basi militari della Crimea. Questo genere di sistemi d’arma, infatti, non ha tanto la capacità di rovesciare le sorti sul campo di battaglia in favore degli ucraini, anche per la quantità in cui viene fornito e per il modo in cui viene utilizzato; ma sicuramente funziona come incentivo al prolungamento delle ostilità, costringendo la Russia a spostare sempre più in là il proprio orizzonte strategico.

C’è infine la questione del settore nord-orientale, dove la linea di confine tra i due paesi è quella prebellica, e che dopo il ritiro delle forze che erano penetrate in Ucraina il 24 febbraio 2022, è rimasto (prevedibilmente) permeabile. Anche se sinora l’attività militare ucraina è rimasta abbastanza contenuta, la – ancorché suicida – incursione dei giorni scorsi, da parte di una unità DRG supportata da un centinaio di volontari russi e bielorussi, testimonia una pericolosa fragilità di quella linea.
Sebbene la NATO abbia sinora esercitato la sua influenza per tenere a freno le tentazioni di Zelensky (che avrebbe voluto occupare stabilmente un pezzo di territorio russo), non è detto che domani questa opzione venga invece considerata accettabile. Il rischio è che si ripeta, in forma diversa, quel che accadde nell’estate 2022, quando una delle due offensive ucraine – quella appunto nel nord dell’oblast di Lugansk – ricacciò indietro i russi di un centinaio di chilometri, perché la linea del fronte era tenuta dalla Rosgvardia. Non si capisce per quale motivo i russi non si assicurino una fascia della profondità di almeno qualche chilometro, a protezione del confine.

Le incognite

La guerra è, per definizione, una faccenda mai del tutto prevedibile e certamente fluida, soggetta a variazioni determinate dai fattori più diversi.
Uno degli elementi particolari di questo conflitto è la difficoltà di individuare, in modo chiaro e circostanziato, se non proprio tutti gli obiettivi strategici che si pongono le parti, almeno quelli che da ambo i lati sono ritenuti irrinunciabili. Ovviamente, se prendessimo in considerazione l’Ucraina come un soggetto autonomo, in grado di determinare liberamente e pienamente i propri goal, sarebbe abbastanza semplice identificare almeno quelli di una parte; ma, sfortunatamente per Kiev, l’autonomia politico-militare dell’Ucraina è prossima allo zero. Le decisioni fondamentali si prendono a Washington, con qualche margine di condizionamento da parte di Londra. Ma lo scarto tra gli obiettivi conclamati della NATO e le reali possibilità sul terreno è talmente vasto che è impossibile prenderli sul serio. Cosa che, del resto, sembrano non fare persino i vari attori dello scenario politico statunitense.

Sul versante degli Stati Uniti, quindi, potremmo semplificare dicendo che c’è una idea di massima (imporre il maggior danno possibile alla Russia), che si traduce poi nell’adattare le tattiche alle possibilità reali sul campo.
Per quanto riguarda invece i russi, anche qui al di là degli obiettivi ufficiali, non è del tutto chiaro quale sia il disegno complessivo. In particolare, non si riesce a comprendere se intendano vincere sul piano militare – e quindi puntare ad una sostanziale resa incondizionata – o se invece siano possibilisti riguardo ad un negoziato – che presuppone necessariamente una di mediazione.
Più specificamente, se intendono (o meno) liberare per intero gli oblast annessi alla Federazione Russa, il che implica la riconquista di Kherson e la presa della città di Zaporižžja. Se intendono (o meno) prendere Odessa. Se prevedono di cedere/rinunciare a pezzi di territori liberati, in un ipotetico negoziato, ed eventualmente quali.

Queste incognite rendono più complesso anche interpretare/prevedere le mosse dello stato maggiore russo, perché rendono – forse anche giustamente – più opachi gli obiettivi strategici e, quindi, le scelte tattiche che ne conseguono.
Quello che è però prevedibile con sufficiente sicurezza, è che le prossime iniziative concentreranno lo sforzo nelle aree del Donetsk ancora occupate dagli ucraini. Quindi, il prossimo obiettivo strategico dovrebbe essere lo sfondamento della linea difensiva sull’asse Sloviansk-Kramatorsk. Se, come detto, non ci saranno variazioni sostanziali nella condotta di guerra, presumibilmente tale sforzo si svilupperà in due/tre step.
Il primo passo, sarà probabilmente chiudere in una sacca il saliente ucraino di Seversk, già parzialmente circondato da sud e da nord, e che deve essere eliminato per poter manovrare nella parte settentrionale di quel settore. Più o meno contemporaneamente, verrà investita Chasiv Jar, a sud-ovest di Bakhmut.
Una volta sgomberata la strada verso la linea fortificata, con la consueta tattica russa verranno attaccate le piazzeforti di Sloviansk e Kramatorsk, con l’intento di bloccarvi le forze ucraine, e possibilmente di attirare qui ulteriori rinforzi.
A tale scopo è probabile che venga nuovamente utilizzata la PMC Wagner, che per la fine di giugno dovrebbe essere nuovamente operativa – dopo un doveroso periodo di sosta, per rimpiazzare le perdite, addestrare ed integrare i nuovi arrivi, e recuperare le forze.

A coronamento della manovra, dovrebbe svilupparsi la spinta sulla ali, cercando di aggirare la linea sia da sud che da nord. A sud, l’ala sinistra dovrebbe puntare su Družkivka, per poi risalire verso Kramatorsk, mentre da nord l’ala destra punterebbe su Lyman, per poi scendere verso Sloviansk. Qui il terreno presenta ampie foreste, ed alcuni bacini idrici, il che potrebbe rallentare l’avanzata, ma certamente sarebbe più agevole della conquista casa per casa delle città.
Questo, ovviamente, già di per sé è un compito che richiederà mesi per essere portato a termine. C’è poi la grande incognita della ormai mitica offensiva ucraina. A questo punto, è persino difficile stabilire se prenderà avvio o meno, anche se tutto sembra indicare che, in tal caso, la direttrice sarebbe quella verso sud a partire da Zaporižžja, cercando di tagliare il collegamento terrestre tra il Donbass da un lato, e la Crimea (e l’oblast di Kherson) dall’altro.
Nell’ultimo mese i russi hanno intensificato di molto gli attacchi aerei e missilistici contro le retrovie ucraine, colpendole molto duramente. E questo, oltre alle pesantissime perdite nella difesa di Bakhmut, pesa ovviamente sulle possibilità di sviluppare una manovra offensiva efficace.

Di sicuro, Kiev dispone di almeno una decina di brigate addestrate nei paesi NATO, per almeno 30.000 uomini, più alcune migliaia di mercenari. E, ovviamente, non sono stati ancora utilizzati in combattimento tutti i carri armati ed i corazzati forniti dalla NATO negli ultimi mesi, per un numero complessivo di alcune centinaia. Tutto questo potrebbe potenzialmente costituire la punta dello schieramento offensivo, mentre almeno altri 40/50.000 uomini ne costituirebbero la massa critica.
Punto debole rimane la scarsità (relativa) di proiettili d’artiglieria, ed il dominio dell’aria da parte russa. Su questa direttrice d’attacco, inoltre, gli ucraini incontrerebbero una linea fortificata in profondità, predisposta dai russi in questi mesi.
In ogni caso, è evidente che un’offensiva da parte ucraina costringerebbe a frenare l’avanzata russa, distogliendo almeno una parte delle truppe.

Oltre la prima linea

Se osserviamo la situazione generale del conflitto da una prospettiva più ampia di quella del campo di battaglia, possiamo osservare come alcuni elementi si vadano delineando con una certa chiarezza.
Intanto, sul fronte interno degli Stati Uniti, il partito della vittoria è ormai sostanzialmente sconfitto; la questione non è più come/quando Kiev vincerà, ma come/quando tirar via le castagne dal fuoco. A tal proposito, possiamo identificare due costanti, nei vari ragionamenti che si fanno in merito nell’oligarchia statunitense: lo sdoganamento dell’idea di cedere territori alla Russia, e quella di scaricare sugli alleati europei l’onere maggiore del sostegno all’Ucraina.
Per quanto riguarda la prima questione, è significativo notare come questa ipotesi veda la luce in sostanziale coincidenza con il pieno svelamento del piano di pace cinese, che prevede appunto il riconoscimento dello status quo – ovvero, i quattro oblast più la Crimea come parte della Federazione Russa. Il fatto stesso che Pechino abbia avanzato la sua proposta in questi termini, indica chiaramente che ritiene siano maturate le condizioni per farlo.

Del resto, sul piano internazionale, benché il campo occidentale (USA/NATO/altri alleati nel Pacifico) sia ancora molto forte e saldo, è di fatto isolato a livello globale. Anche a prescindere dai paesi con cui c’è una aperta ostilità (Russia, Cina, Iran e Corea del Nord), il resto del mondo – la sua grande maggioranza – pur non essendo anti-occidentale non è comunque disposto a seguire la NATO nella sua crociata anti-russa, e si dimostra sempre più insofferente rispetto all’aggressività ed all’arroganza dell’occidente, di cui inoltre diffida in modo crescente.
Mentre, di converso, crescono i buoni rapporti con la Russia e la Cina.
Sotto questo punto di vista, gli ultimi tempi sono stati densi di avvenimenti negativi, per l’occidente stesso. Il successo della mediazione cinese tra Arabia Saudita ed Iran, e quello della mediazione russa tra Turchia e Siria. La riammissione di quest’ultima nella Lega Araba. La corsa all’adesione ai BRICS+ di 20/30 nuovi paesi. Il crescente malumore di alcuni paesi europei rispetto alle politiche atlantiste dell’UE (Ungheria, Bulgaria, Grecia…). Da ultimo, la certamente sgradita riconferma di Erdogan.

Tutto questo, se per un verso costituisce un insieme di fattori che potrebbero condurre ad uno stop delle attività belliche, come preludio ad una più complessiva (e complessa) trattativa, dall’altro potrebbe rivelarsi foriero di esiti negativi.
Molto dipende dalla effettiva disponibilità, da parte degli USA, di accettare quella che sostanzialmente sarebbe una sconfitta, la quale a sua volta avrebbe ripercussioni negative tali, da riflettersi via via – per cerchi concentrici – sulle ambizioni egemoniche di Washington. E, ovviamente, anche dal fatto che gli ucraini accettino supinamente o meno il destino loro riservato.
Posto che assai difficilmente si arriverà ad un cessate il fuoco nel corso del 2023, perché tutti cercheranno di avvantaggiarsi al massimo possibile, proprio in vista di un successivo, possibile negoziato, e che quindi il conflitto potrebbe – tra una cosa ed un’altra – protrarsi anche per tutto l’anno a venire, in questi mesi potrebbero intervenire fatti nuovi, tali da imporre (secondo il punto di vista) una brusca frenata alla possibilità di mediazione, o persino una accelerazione verso una pericolosa escalation.

Ci sono naturalmente le variabili di origine militare (un imprevisto successo, anche parziale, degli ucraini, oppure un loro collasso). Ci sono quelle di ordine politico (un regime change a Kiev è inevitabile, per arrivare a negoziati, ma è imprevedibile quello che potrebbe innescare). Ci sono quelle di ordine internazionale (mentre gli USA diminuiscono il proprio impegno, e si concentrano sulle elezioni del 2024, i malumori interni all’UE potrebbero aumentare, mentre Pechino moltiplicherebbe le pressioni sulle capitali europee).
Va inoltre considerata l’ipotesi che, contrariamente a quanto immaginato, negli Stati Uniti prevalgano quanti vogliono fortemente la sconfitta della Russia, e che quindi il conflitto riprenda fiato. La cosa più preoccupante, a mio avviso, resta comunque l’idea – ben radicata negli ambienti della leadership statunitense – che Mosca non farà ricorso alle armi nucleari, a meno che non sia soggetta ad un attacco di tal genere.

Questa convinzione, in parte alimentata anche dalla Russia, contrasta con quella che io definisco sindrome di Pearl Harbour. Quando nel Giappone imperiale si diffuse la convinzione che lo scontro con gli USA era ineluttabile, si resero altresì conto che l’unico modo di vincere la guerra era assestare un colpo micidiale alla flotta statunitense, perché la guerra si sarebbe combattuta essenzialmente nel Pacifico, e la Marina vi avrebbe rivestito un ruolo decisivo. Da qui, l’attacco del 7 dicembre 1941 alla base navale delle Hawai.
Ugualmente, se Mosca dovesse sentirsi minacciata seriamente nei suoi interessi vitali (la Crimea, tanto per dire), anche non attraverso l’uso di armi nucleari, ha già dimostrato di saper rompere gli indugi e passare all’attacco. È esattamente ciò che ha fatto – e per molto meno – il 24 febbraio 2022. Se, quindi, la situazione dovesse evolvere in un senso tale che la Russia si percepisse a rischio di subire un colpo strategico, potrebbe non esitare nel ricorrere ad un first strike nucleare contro la NATO.
E gli obiettivi sarebbero in Europa.

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1 thought on “DOPO BAKHMUT

  1. Io credo sarà importante vedere che verrà fuori dal vertice brics o comunque dall’azione diplomatica Russa verso tutta una serie di attori che l’occidente non può continuare a trascurare. Identificare adesso obbiettivi che vadano oltre la liberazione del donbass non credo convenga alla russia. Che comunque combatte prevalentemente non per un generico ampliamento territoriale ma per risolvere problemi di sicurezza strategica. Qualcosa che in ogni cancelleria con due esperti semiseri percepisce e comprende
    . Alla favola dell’improvvisa pazzia di Putin ci credono solo le nonne e i nonni che guardano la Palombelli e quelli che credono di essere “migliori” perché guardano formigli. La trattativa che al momento non si vede potrebbe venire anche fuori e credo che i russi abbiano interesse a dimostrare che loro sono comunque interessati e che è la nato con atteggiamenti irrealistici ( piano zelenskj ,si fa per dire)non lo è. Francamente io non credo che i cinesi se si muovono in quella direzione siano così lontani dai desiderata russi. E se il piano cinese iniziasse ad essere ritenuto plausibile da un mondo brics allargato e da qualche soggetto interno alla nato sia pur ragioni diverse? Cosa succederebbe? Oltretutto se le notizie sui patriot sono abbastanza realistiche diventerà sempre più difficile difendersi e gli Usa rischiano di bruciare la credibilità della propria sopravvalutata industria bellica. Se davvero si sono fumati in un mese il 20% dei patriot prodotti è credibile che continuino a fornirli come non ci fosse un domani? Io credo che anche questo incida sulla difficoltà di capire quali siano gli obbiettivi russi che in effetti, al netto di quello di garantire la propria sicurezza che è evidente, possono sembrare un po’poco chiari.
    Sulla possibile escalation Ovviamente non possiamo sapere ma io credo che se la Russia si rendesse conto di essere di fronte al pozzo di San Patrizio delle armi ,che tutte le linee rosse vengono irrise, che sistemi sempre più performanti saranno forniti come se non ci fosse un domani, bè iO credo che la Russia attaccherebbe ! Non credo Lo farebbe stile Pearl Harbor Credo che Prima colpirebbe il globalhawk. Se gli Usa capissero l’antifona Potrebbe Bastare .Se reagissero alLora francamente nOn so ma io un attacco preventivo sui principali nodi logistici nato sugli aereoporti militari e contro le grandi navi io davvero nOn lO escluderei. del Resto è sempre stato putiN a dire “nella strada ,se capisci che non puoi evitare lo Scontro attacca per primo”. E io le parole di Putin in genere le prendo molto sul serio. Del resto se a Washington sono convinti che Putin non userà mai l’atomica a Mosca potrebbero essere convinti che gli Usa non rischierebbero Boston per qualche base nato. l’Europa impoverita e con compra risorse in cui l’unica cosa che si vuol produrre sono le armi e per il resto austerità forse non interessa nemmeno come cliente! Non c’è cosa peggiore di credere di sapere cosa sceglierà un altro Perché comunque sia resta sempre una scommessa.

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