QUALE CINEMA PER QUALE PUBBLICO

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Dentro una crisi così profonda e radicale come quella che viviamo, siamo sicuri che l’unico sguardo possibile sia quello rivolto al passato? Una lettura tradizionale e non reazionaria di questo tempo e dell’arte in esso necessaria.

Dalla riflessione corrente sull’arte resta sempre fuori colui che dell’arte beneficia: il pubblico. La crisi dell’arte tutta e della sua espressione più tipicamente moderna, il cinema, è parte della crisi epocale nella quale viviamo, crisi in verità “terminale”. Crisi che pertanto avvolge tutta intera questa umanità e tutte le strutture dell’impianto sociale fin dalle sue fondamenta. E ogni crisi comporta un’assunzione di responsabilità e una scelta verso una nuova direzione da prendere.

È bene quindi esprimere ancora, seppur in estrema sintesi, quello che è il quadro di riferimento nel quale si inserisce il nostro discorso. Questa specialissima umanità è chiamata vivere il crollo, fragoroso e per certi aspetti terribile, di “un mondo”. Non di talune ideologie o paradigmi sociali ed economici, ma proprio la fine di una civiltà, e anche di più. La Sapienza tradizionale, a cui siamo stati introdotti oltre venti anni fa, conferma quello che i nostri occhi sensibili già vedono, se sgomberati dalla paura. Tutto si sta sfaldando e non è risanabile dall’interno. Eppure, tutto questo è allo stesso tempo provvidenziale, se sappiamo coglierne il significato profondo.

Inutile quindi il tedioso e sterile guardare solo a modelli del passato. Questo è ciò che fanno gli ingenui reazionari. Altrettanto inutile e pericoloso è l’acefalo gettarsi in avanti dei rivoluzionari, verso un presunto futuro, che altro non è che un oscuro baratro. L’unica e superiore via è quella della Tradizione che recupera certo tutti gli Eterni Principi, ma volgendoli e declinandoli verso il Nuovo Inizio. Operazione in sé difficilissima, che caratterizza i veri sapienti. Noi, lungo la nostra strada, abbiamo avuto l’immeritata Grazia di essere ammaestrati da uno di costoro.

Venendo quindi all’arte, e nello specifico al cinema, esso non può che essere cinema che coglie il senso della Fine per preparare gli uomini al Nuovo Inizio.

Caratteristica essenziale, è che deve essere un cinema spirituale. Non banalmente un cinema che tratta “temi religiosi” o che presume di essere messaggero di “valori”. Questi indecenti tentativi a cui abbiamo purtroppo assistito negli anni, non sono altro che un voler esprimere qualcosa di “vecchio” (ma non affatto di tradizionale, ovvero di eterno) dentro l’unica forma che “questo tempo” concede. Non possono dunque che essere tentativi maldestri che mancano completamente il bersaglio.

Un cinema spirituale è un cinema “conforme all’anima”. Tale da elevarla verso le realtà superiori. La scelta di un’altra veste formale è quindi obbligata. Occorre allontanarsi dalla sciatta idea che ha dominato la settima arte per oltre un secolo – di essere solo il modo contemporaneo di raccontare storie, ovvero una sorta di letteratura per immagini – per accostarsi di più alla forma della poesia. Questa disegna quadri, visioni e le assonanze fra parola e parola, fra verso e verso sono appunto immaginifiche. Così dunque deve fare il cinema, prendendo come riferimenti le figure più coraggiose che la sua storia conosce. Autori come Mizoguchi, Bergman, Sokurov, Malick e più di ogni altro Tarkovskij, tanto per citarne alcuni, ci indicano che un’altra idea di cinema è non solo possibile, ma è la più vera, la più fruttuosa.

La costruzione lineare dell’intreccio, i dialoghi appiattiti sulla quotidianità, o all’opposto, pateticamente ad effetto; l’utilizzo della musica e dell’universo sonoro esclusivamente per sottolineare quanto già detto dalla scena, per enfatizzare emozioni “a comando” rappresentano bene quanto vada abbandonato perché espressione del più tipico senso di immanenza che caratterizza questo mondo.

Tutto per noi deve essere immediatamente comprensibile, di impatto. Deve “funzionare”. Lasciando così fuori la parte essenziale: il non detto, il non esprimibile, l’oltre, il Mistero. Resta fuori la Vita che altro non è che Il viaggio di un’anima verso la divinizzazione. I Padri della Chiesa usavano ripetutamente quest’espressione di cui noi oggi non comprendiamo minimamente il significato.

Dopo questa sintetica esposizione potremmo già domandarci se vi sia un pubblico pronto a ricevere e comprendere una tale arte. La risposta crediamo sia scontata e non la scriveremo.

Ci pare senz’altro che vi sia una piccola fetta di pubblico che crede di sapere bene cosa non vuole, e allo stesso tempo di sapere di cosa ha realmente bisogno. In verità, forse sa che cosa vorrebbe, ma è assai diverso dal sapere di cosa ha realmente bisogno l’anima, anche per quanto riguarda l’arte, in questo tempo specialissimo.

C’è però un altro aspetto che oggi chiama in causa il pubblico in maniera diretta. Un aspetto ancora più lasciato in ombra. Può un cinema come quello che abbiamo sopra brevemente descritto esistere e proliferare seguendo e rispettando i circuiti istituzionali che la società attuale ha predefinito? Possono crescere e maturare nuovi cineasti capaci di dare forma a questo cinema dentro le vecchie scuole e accademie? O tale “nuovo cinema” può invece esistere solo fuori dai binari precostituiti, muovendosi negli interstizi di questa società morente? Ed è proprio qui che entra in gioco quello che finora abbiamo denominato semplicemente pubblico. Ma che forse è chiamato ad essere molto di più.

Quando un’era volge al termine, ogni uomo che si desta dal sonno comprende di essere chiamato a collaborare alla costruzione di un nuovo edificio di cui per il momento si possono solo immaginare i confini e gli spazi. Ogni uomo, perché questa chiamata è universale e nessun braccio e nessuna mente possono essere lasciati a riposo. E così, mentre schiva le macerie che rischiano di travolgerlo, egli si adopera con energia, intelletto e risorse economiche per costruire i germi di una “piccola società” nella società. E occorre iniziare tale opera prima di tutto dai regni dell’immateriale: educazione, cultura e arte ovviamente.

Il pubblico allora diviene quell’infaticabile “operaio della vigna” che si adopera per costruire e promuovere nuove scuole che formino registi e professionisti del cinema finalmente liberi. Che si adopera a sostenere economicamente progetti artistici, rispondendo alla necessaria chiamata ad un mecenatismo adeguato ai nostri tempi. Perché forse il più forte laccio alla vera creazione artistica, al suo naturale slancio spirituale sono i finanziamenti pubblici e tutta l’immane trafila di commissioni e market che ad oggi sono l’unico e solo canale per la produzione di un film. Che si adopera a diffondere e promuovere le opere già realizzate creando così una rete virtuosa di proiezioni “semiclandestine” e di festival indipendenti. E altro ancora che qui lasciamo all’immaginazione e alla creatività del lettore.

Giunti allora verso la conclusione possiamo domandarci con ancora maggiore insistenza: esiste questo genere di pubblico? Ed è solo un’illusione quella da noi descritta?

Come detto più volte, la realtà parla da sé e le scienze sacre lo confermano: che lo accettiamo o no, noi siamo in quel punto di transizione fra un’era e la successiva. E saremo sottoposti a sempre maggiori scosse e turbolenze, perché l’atterraggio sui nuovi lidi non sarà affatto agevole. Se si accetta questo, se perlomeno lo si intuisce, allora quanto abbiamo scritto qui in estrema sintesi, apparirà chiarissimo e inaggirabile. In caso contrario, resteranno parole incomprensibili, suggestioni di un visionario.

Ma per comprendere, bisogna rompere la cornice di questo mondo, dove si trovano tutte le nostre convinzioni, anche quelle che crediamo buone. Occorre entrare in crisi. Molte volte si è parlato di cambiamento, ma questa parola è inadatta e troppo debole per descrivere ciò a cui noi tutti siamo chiamati. Bisogna piuttosto parlare di una “nuova conversione” nel senso proprio di metanoia, ovvero di una trasformazione radicale della nostra mentalità. È l’inizio di un cammino nel quale ci si rende disponibili ad essere formati, perché è come entrare in un territorio di cui non si hanno ancora le coordinate.

I Segni parlano, i “folli” ne suggeriscono il senso. Sta a noi decidere se continuare a conservare ciò che siamo, infilandoci al sicuro in uno degli schieramenti già preconfezionati, o lasciare che la Voce che dall’Alto chiama ci trafigga la carne e la mente per farci cadere in ginocchio. E poi trasformarci in operosi costruttori di Vita. E quindi anche di Arte. Questo è il tempo dei folli e delle voci profetiche. Non dobbiamo averne paura.

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