FINCHÉ C’È GUERRA C’È SPERANZA

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La guerra non è solo uno strumento per l’esercizio di un potere egemonico, o più semplicemente per un proseguimento della politica con altri mezzi, ma è anche un affare. Uno dei maggiori, in termini di fatturato ma anche di estensione. Un affare che, a sua volta, diventa strumento di proiezione strategica, in un intreccio terribile tra morte e denaro. In un certo senso, si può dire che il mercato internazionale delle armi sia in effetti un altro fronte del conflitto globale.

Fin dai tempi di Eisenhower la saldatura tra l’enorme apparato militare e l’industria bellica, che ha costituito un blocco di interessi fenomenale, ha rappresentato un potere significativo all’interno degli Stati Uniti. Con il passare degli anni, questo blocco di potere si è via via sempre più integrato perfettamente, sia con il più ampio sistema di potere profondo (deep state), sia con le strategie di dominio imperialista degli USA, che hanno costantemente visto nella forza militare il principale strumento per esercitarlo. Ovviamente, il complesso militare-industriale, così come lo aveva definito Eisenhower, è funzionale al dominio americano in un triplice senso.

Innanzi tutto, come è chiaro, perché avere una potenza militare sovrastante e proiettata globalmente (850 basi nel mondo…), consente di avere un formidabile strumento intimidatorio e, all’occorrenza, punitivo. Secondariamente, perché è un volano, costantemente in azione, per l’economia degli Stati Uniti. Ed infine perché è uno strumento di assoggettamento coloniale, che attraverso la vendita dei sistemi d’arma statunitensi crea un rapporto di dipendenza da parte dei paesi acquirenti. Tenendo presente questi tre aspetti, si comprende facilmente come la guerra sia una componente fondamentale della politica estera degli USA e come questa funzioni in modo molteplice.

Nell’ambito del riacutizzarsi delle crisi internazionali – che pur collocandosi in un quadro generale in cui sono gli Stati Uniti a soffiare venti di guerra, si dipanano in modo non necessariamente voluto e controllato da questi – ovviamente la centralità del complesso militare-industriale riemerge con forza. Come è noto, in questa fase abbiamo fondamentalmente tre focolai che alimentano il mercato delle armi: il conflitto ucraino, il conflitto israelo-palestinese e la crisi di Taiwan. Quest’ultima, in effetti, ben si presta a fare da esempio esplicativo di come procede la strategia bellicista degli Stati Uniti e di come essa produca i suoi effetti.

Come tutti dovrebbero sapere (ma, a causa delle mistificazioni propagandistiche occidentali, pochi sanno o rammentano), l’isola di Taiwan è parte della Cina continentale, non soltanto sotto il profilo geografico, ma anche in base al diritto internazionale. La repubblica di Taipei, infatti, è riconosciuta come stato autonomo ed indipendente solo da pochissimi altri paesi. Né l’ONU, presso cui non è rappresentata, né paradossalmente gli stessi USA la riconoscono come tale. Al contrario, gli USA riconoscono che essa fa parte della Repubblica Popolare Cinese.

Pechino, peraltro, come già è avvenuto per Hong Kong, non ha alcuna volontà né interesse a riprendersi con la forza quel suo territorio. Cosa che, infatti, finora non ha mai fatto. Del resto, perché dovrebbe? Sull’isola vivono cinesi, cioè la stessa popolazione continentale. E, soprattutto, un’a ‘operazione militare per riconquistare l’isola costituirebbe una vera e propria guerra civile e finirebbe per distruggere l’industria taiwanese (assai importante, particolarmente nel settore elettronico e dei microchip).

Ma, poiché gli USA vedono nella Cina una potenza in grado di soppiantarli, devono assolutamente frenarne la crescita, creandole continuamente problemi. Hanno quindi cominciato, senza alcuna evidenza in tal senso, a fomentare la leadership taiwanese rispetto ad una presunta minaccia militare della RPC. Leadership che, ovviamente, ha tutto l’interesse a restare al potere sull’isola. Si è così arrivati all’assurdo per cui una minaccia inventata viene percepita come reale. E Taiwan comincia a riarmarsi (comprando dagli USA). La Cina è consapevole delle intenzioni sempre più ostili degli Stati Uniti, pertanto è costretta a sua volta ad investire in riarmo. Il riarmo della Cina, a sua volta, viene rivenduto dagli USA agli altri alleati dell’area come la minaccia cinese, con l’obiettivo di spingerli a loro volta a riarmarsi. Superfluo aggiungere che riarmo significa essenzialmente acquistare dagli Stati Uniti, favorirne l’industria bellica e rafforzare la dipendenza da Washington.

Nella fase attuale, comunque, i focolai attivi sono quello ucraino e quello mediorientale.

Per quanto riguarda il primo, è evidente che dei tre aspetti utili connaturati ad una crisi militare solo due hanno funzionato. Si è, infatti, rimesso in moto il meccanismo della produzione industriale bellica e sono cresciute le richieste di forniture da parte di paesi terzi. Il terzo aspetto, invece, ossia la capacità di esercitare il potere militare sul campo, ha palesemente fallito. Non solo: l’errore nel calcolo strategico americano si riflette anche sugli aspetti che hanno funzionato. La guerra ucraina, infatti, si è rivelata insostenibilmente lunga e vorace; la sua capacità di divorare materiale bellico è stata ed è talmente vasta e veloce da consumare rapidamente le scorte della NATO, ed ha messo in crisi lo stesso apparato industriale, che si è rivelato incapace di rispondere adeguatamente (in termini quantitativi e di tempo) alle esigenze del conflitto.

E questo, naturalmente, si riflette sulle capacità operative sul campo di battaglia. Ma, più in generale, la guerra ucraina ha messo in crisi , sia pure da una prospettiva positiva, l’intera filiera bellica. Gli appaltatori militari americani già lottano per tenere il passo con le richieste di rifornimenti da parte dell’Ucraina, e per aiutare altri alleati degli Stati Uniti in Europa, come la Polonia, a rafforzare le proprie difese. Mentre ordini per miliardi di dollari da parte degli alleati asiatici sono in attesa di essere evasi. Insomma, la macchina industriale è in affanno, per eccesso di domanda.
Ciononostante, secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, lo scorso anno la spesa militare mondiale – in armi, personale e altri costi – ha raggiunto i 2,2 trilioni di dollari, il livello più alto almeno dalla fine della Guerra Fredda. In base ai dati, lo scorso anno gli Stati Uniti controllavano circa il 45% delle esportazioni mondiali di armi, quasi cinque volte di più di qualsiasi altra nazione [1].

L’aumento esponenziale della domanda, che l’industria americana ed occidentale non riesce ad esaurire, ha chiaramente determinato la nascita di nuovi produttori capaci di competere – sia pure limitatamente – come la Turchia e la Corea del Sud, ma anche l’Iran, sul mercato mondiale. Mentre le prime due, ad esempio, sono presenti nel settore dei veicoli corazzati e delle artiglierie semoventi (la Turchia anche in quello degli UAV), l’Iran ha una solida fama nel settore dei droni leggeri d’attacco, ed in quello dei missili. Il recente termine dell’embargo sulla vendita di questi ultimi, aprirà certamente a Teheran fette di mercato assai interessanti.
Naturalmente, anche se le guerre sono di fatto un formidabile acceleratore del mercato, anche una semplice situazione di crisi esercita un effetto trainante.

La Polonia, ad esempio, un po’ per effetto della crisi alle sue frontiere orientali, un po’ per le ambizioni politiche in ambito NATO, si sta riarmando velocemente, attingendo sia a Washington che a Seul. L’Armenia stipula contratti di fornitura con la Francia, mentre l’Azerbaijan acquista dalla Turchia. E poi l’India, che pur essendo tradizionalmente legata alla produzione russa cerca adesso di diversificare (esattamente come l’Indonesia); il Pakistan, da sempre cliente americano, e l’Arabia Saudita, che è già il più grande acquirente di armi statunitensi (i suoi acquisti dal 1950 ammontano a 164 miliardi di dollari), e gli emirati del Golfo… E adesso, col riesplodere della crisi in Palestina, Israele che torna in prima fila (pur disponendo di una propria industria), e di riflesso tutti i paesi arabi dell’area…
E, come già detto, ogni vendita di sistemi d’arma porta con sé una forma di dipendenza dal venditore, poiché richiede uno stretto coordinamento con le forze armate del paese venditore, e contratti a lungo termine per la manutenzione e gli aggiornamenti, che aiutano a costruire legami.

Il forte aumento della domanda, tra l’altro, aiuta il sistema industriale (soprattutto statunitense) che è stato messo in difficoltà dalla guerra in Ucraina. Recuperare i ritardi, aumentare la produzione e reindirizzarla verso i sistemi d’arma più richiesti, infatti, richiede tempo e soprattutto investimenti, e quindi certezza di realizzare un utile che li giustifichi. Oggi il complesso industriale bellico degli USA è in ritardo a volte persino di anni, rispetto ai tempi di consegna previsti, perché appunto la proxy war con la Russia ha assunto caratteristiche impreviste e, nonostante il quadro internazionale prometta sviluppi positivi, necessiterà ancora di qualche anno prima di mettersi a regime rispetto alla domanda.

Gli ordini in essere degli appaltatori statunitensi necessiteranno anni per essere soddisfatti. La Lockheed, il più grande appaltatore militare del mondo, negli ultimi due anni ha ottenuto contratti di vendita per 50 miliardi di dollari, solo per i suoi aerei da caccia F-35, chiudendo accordi con Svizzera, Finlandia, Germania, Grecia, Repubblica Ceca, Canada e Corea. Accordi su forniture militari da parte degli Stati Uniti, negli ultimi tre anni, sono stati contrattati con Vietnam, Filippine, Singapore, Corea del Sud, Australia e Giappone. La sola Taiwan ha ordini ancora inevasi per un valore pari a 19 miliardi di dollari.

Ancora una volta, quindi, la guerra si rivela – tra le altre cose – un affare colossale. In questo momento però, almeno per quanto riguarda il blocco occidentale USA-NATO (che rappresenta una gran fetta della produzione mondiale, ma anche una bella fetta del mercato), il problema maggiore è adeguare la capacità produttiva alla domanda, tenendo conto che, in alcune aree del pianeta, non si tratta semplicemente di affari, ma c’è un riflesso immediato sulla politica estera, sulla capacità diplomatica, e più di ogni altra cosa sulla capacità di esercitare la propria potenza militare.
Questa è una delle ragioni (non la principale, ma nemmeno secondaria) per cui Washington cerca di evitare che il conflitto israelo-palestinese si trasformi in un devastante conflitto regionale, in cui – ancora una volta – sarebbe l’occidente a trovarsi in difficoltà dal punto di vista della capacità produttiva.
Perché per il sistema capitalistico anglo-americano la guerra è un affare, finché non diventa un cattivo affare…


[1] Per una interessante panoramica su questi aspetti del commercio internazionale di armi, cfr. “Middle East War Adds to Surge in International Arms Sales”, dnyuz.com

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