FARE CINEMA OGGI. PERCHÉ E PER CHI

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Qualche giorno fa il regista Xavier Dolan, in un’intervista ha dichiarato: «Non ho più la forza o la voglia di impegnarmi per due anni in progetti che nessuno vede». Ma questo non è un articolo su di lui, di cui non apprezziamo la visione dell’arte. È un articolo che vuole chiamare in causa noi. Noi, cosa vogliamo che sia visto? A cosa diamo valore? A chi tributiamo riconoscimento? Una riflessione sulla necessità e urgenza di ripensare completamente il cinema.

Qualche giorno fa il regista Xavier Dolan, in un’intervista ha dichiarato: «Non ho più la forza o la voglia di impegnarmi per due anni in progetti che nessuno vede». Ma questo non è un articolo su di lui, di cui non apprezziamo la visione dell’arte. È un articolo che vuole chiamare in causa noi. Noi, cosa vogliamo che sia visto? A cosa diamo valore? A chi tributiamo riconoscimento? Una riflessione sulla necessità e urgenza di ripensare completamente il cinema.

Qualche giorno fa il regista Xavier Dolan ha rilasciato un’intervista al quotidiano spagnolo El Pais in occasione dell’uscita di una sua miniserie in cui sembrerebbe annunciare il suo prematuro ritiro dal cinema. «Non ho più la forza o la voglia di impegnarmi per due anni in progetti che nessuno vede. Ci metto tantissima passione e poi ne esco profondamente deluso. So di essere un bravo regista, ma tutto questo mi porta a credere che non sia così». E più avanti ha aggiunto: «Non capisco quale sia il senso di mettersi a raccontare storie mentre tutto il resto attorno a noi cade a pezzi. L’arte è inutile e dedicarsi al cinema una perdita di tempo». In realtà, a poche ore dall’uscita dell’articolo il regista ha rettificato questa sua ultima dichiarazione dicendo che «a volte le parole sono prese fuori dal contesto e le cose si perdono nella traduzione».

Chiariamo subito e in maniera decisa che questo nostro articolo non vuole parlare del giovane regista canadese, che non apprezziamo per le sue idee, né artisticamente, pur riconoscendogli un certo talento. Vogliamo al contrario usare le sue dichiarazioni per suggerire una riflessione che conduca ad altre sponde ben lontane dalle intenzioni del regista stesso. Insomma, quelle frasi sono per noi un semplice espediente letterario per provare a ragionare su come e perché continuare a fare cinema e a cosa ciascuno di noi è chiamato in questo “tempo eccezionale” che viviamo.

Dolan parla di film «che nessuno vede». In questa frase vi sono due figure, anche se una non viene espressa. Da una parte vi è l’artista, in cui alberga – anche nei migliori – quel tanto di vanità, dell’essere riconosciuti, apprezzati e poi ricordati. Ma in un artista sincero e di grande talento vi è anche la consapevolezza di avere qualcosa di urgente da dire all’umanità. Quasi una responsabilità “profetica”. Perché in fondo è questa la missione affidata ai grandi geni dell’arte. E non è certo un caso che molti fra loro non abbiano trovato particolari onori in vita. Perché la grandezza, la vera grandezza, viene spesso riconosciuta con colpevole ritardo. Se dunque l’artista ritiene che ciò che ha da esprimere sia importante, desidera che il suo messaggio artistico arrivi a più persone possibili, ad ogni latitudine, proprio perché “universale”. La grande arte è esperienza totalizzante che eleva l’anima. È dialogo intimo fra l’artista e lo spettatore, in cui però interviene anche un terzo operatore. Quel qualcosa di superiore, di divino che ha ispirato l’artista e che supera sempre la soglia della sua consapevolezza. Se così non fosse non sarebbe per l’appunto vera arte. E di questo dialogo spirituale vi è massimo bisogno oggi.

E così veniamo al secondo attore richiamato nella frase: il popolo, che nel nostro specifico possiamo identificare come il pubblico. Al di là della difficoltà a distribuire certe pellicole ad una vasta platea, della sempre minore importanza che hanno le sale cinematografiche nell’insieme dell’offerta di visione, bisogna domandarsi cosa cerchi il pubblico. Se davvero cerca ancora qualcosa. E vogliamo qui restringere il discorso a quella parte della società che si ritiene “sana”, immune dalle manipolazioni e dalle sempre nuove ideologie create dal potere. Perché poco serve continuare a identificare tutto il male fuori dal nostro recinto, se non siamo mai capaci di autocritica, di una riflessione che coinvolga prima di tutto noi.

René Guénon, quasi un secolo fa, identificava questo tempo come il Regno della Quantità. E il precipitare in tale abisso si fa sempre più veloce: motus in fine velocior. Davvero solo gli sciocchi o i ciechi non possono avvedersi che lo schianto è ormai prossimo. Un artista – ma non facciamo forse così con chiunque? – viene giudicato dal suo successo. Di critica, di pubblico, di fama. Ognuno sceglie quale successo conta di più. E il discorso vale anche se il “successo” è quello che gli viene tributato solo dalla nostra piccolissima conventicola, dentro al nostro recinto dove siedono solo i “buoni” che hanno detto “no” alle ideologie del mondo. Con lo stesso metro si giudicano le opere. Un progetto è degno di attenzione e supporto soltanto nella misura in cui può raggiungere molte persone, se quindi può avere un effetto “reale”, “visibile”.

Questo è per l’appunto il falso mito della quantità, emblema della nostra era. Falso mito da cui discende per conseguenza il falso mito della vittoria. E così via, in una sequela di falsi miti che qui non abbiamo il tempo di elencare. La quantità è caduta nell’illusione del molteplice, è abbassamento al solo piano materiale. Esiste e ha valore solo ciò che è visibile, o sperimentabile con i sensi esteriori, solo ciò che quindi è misurabile: da qui infatti anche l’idolatria moderna per le scienze empiriche. È il trionfo del materialismo, anche laddove esso tenti di camuffarsi con una verniciata di religiosità che oscilla tra il sentimentalismo e il legalismo farisaico. Come ricorda anche S. Tommaso, infatti, il numero è sempre dalla parte della materia. E al falso mito della quantità noi sottoponiamo tutto. E tutti! Perché la nostra era è intrinsecamente governata dalla quantità. Ha valore solo ciò che è in una certa misura grande, vincente. Lo ripetiamo ancora: grande e vincente anche solo all’interno del nostro “gruppo di riferimento”. L’arte e gli artisti cadono, purtroppo, sotto la stessa tagliola.

Va aperta, però, una breve parentesi, a cui anche Dolan fa accenno nella sua intervista. Se un’opera fatica a trovare distribuzione, se viene comprata solo in pochissimi paesi, se in sala non ottiene i risultati sperati, è certamente un danno per il produttore, ma anche per il regista. In Italia, in effetti, la situazione è un po’ diversa e più complessa, dato che la stragrande maggioranza dei film viene prodotta quasi esclusivamente con fondi pubblici. Per cui, alla fine, se il film non incassa, se non viene venduto all’estero, è un problema quasi secondario. Rimane in ogni caso valido il principio per cui l’artista deve poter vivere della propria arte.

Ma torniamo all’accecamento che il mito della quantità genera su tutti noi.

Se guardassimo la questione in un’ottica tradizionale, e quindi secondo il Principio della Qualità, un film, anche se raggiungesse un piccolo pubblico, non vedrebbe inficiato il suo valore artistico e la sua intrinseca “necessità”. Perché appunto il Bene, il Bello e il Vero non perdono di significato se anche toccano l’anima di un solo uomo. Perché la loro essenza non è materiale e quindi non si misura col numero. E un seme gettato oggi, può divenire una pianta domani. Se dunque questo dovrebbe essere lo sguardo dell’artista, lo dovrebbe essere allo stesso modo anche del pubblico. Vale sostenere e promuovere un film anche se non potrà mai vantare grandi incassi o una estesa diffusione, perché la sua qualità è un principio indipendente da tutto ciò. Certamente, come accennato sopra, un artista deve poter vivere della propria arte e quindi gli si deve garantire la possibilità di esprimere ciò che ha da dare all’umanità continuando a fare film.

Nel tempo in cui viviamo l’intero mondo del cinema è completamente prono alle ideologie dominanti. E questo lo hanno compreso in molti. Ma vi è qualcosa di più sottile, ma altrettanto grave. Il cinema è anche schiavo, come già più volte noi abbiamo espresso, di un immaginario a senso unico che ha ormai plasmato le anime delle attuali generazioni. Chi crede di esserne immune solo perché si ritiene “contro il sistema”, dovrebbe approfondire, e molto, e poi farsi un esame di coscienza.

Ha dunque ancora senso fare arte? E se sì, cosa dunque siamo chiamati a fare? Proprio «mentre tutto il resto attorno a noi cade a pezzi», noi ribadiamo con forza che l’arte è ancora più necessaria, più urgente. Un’arte diversa, liberata e libera. Ma dobbiamo prima affrontare un salto di sguardo. Passare dal visibile all’invisibile. Dalla quantità alla Qualità. Elevarci dal fondo senza vita del materialismo su cui ci siamo appiattiti per sostenere, diffondere e promuovere le poche voci che vogliono costruire non solo un cinema libero dalle ideologie, ma anche, e più, proiettato verso un immaginario differente: poetico. Dove la realtà va trasfigurata, dove il ritmo chiede il tempo dell’attenzione, dove tutto il superfluo svanisce. Ma per fare questo, bisogna prima guardarsi dentro, in profondità, ed entrare in crisi. Sì, bisogna affrontare e superare una prova. Perché nessun cambiamento, nessuna costruzione di un cinema diverso può nascere se prima non cambiamo noi. Tutti. E solo così infine acquisire la capacità di apprezzare anche ciò che non fa clamore, che non diventa “virale” che non si porta dietro un grande seguito. Partire anche dalle piccole opere, per un piccolo pubblico, nelle piccole sale delle associazioni o negli spazi all’aperto. Promuovere, diffondere, sostenere ciò che veramente vale. Perché la Bellezza resta. Ma prima bisogna crearla. E questo non è un compito che possiamo continuare a delegare alle istituzioni, che si spera abbiamo compreso cosa e chi finanziano! Bisogna che la “parte sana” della società si faccia carico di questo, tornando ad un rinnovato mecenatismo. Chi è entrato veramente in crisi con “questo mondo” lo ha già compreso. Chi invece sentirà queste parole come ruvide e amare, vive purtroppo ancora nella totale inconsapevolezza, anche se si ritiene “desto”. Qui non si tratta banalmente di contrapporsi alle ideologie sempre più transumane, ma di trasformare integralmente il nostro essere. Solo così potrà vivere la vera arte. Perché solo così potremo dire di essere una diversa umanità.

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