UNA LUNGA ESTATE CALDA
La NATO si riunisce a Vilnius, a ridosso dei confini russi, ma non può celebrare – come sperato – alcun successo ucraino; al contrario, l’incontro porta alla luce le reciproche diffidenze e divisioni e produce un nulla di fatto. Perché è sì la politica a condurre la guerra, ma ciò che accade sul campo la determina. E da lì non viene alcuna buona notizia per l’Alleanza Atlantica. Al contrario della narrazione propagandistica, si avvertono i primi scricchiolii che ne minano la stabilità.
Uomini e munizioni
A 5 settimane dall’avvio della controffensiva ucraina, ed entrati ormai pienamente nell’estate, possiamo provare a tracciare, se non un bilancio, certamente un quadro dei trend principali.
Al netto delle solite sparate propagandistiche (“19 basi russe distrutte”, “Bakhmut sotto controllo”…), la situazione sul campo non presenta mutamenti sostanziali, come era del resto prevedibile. In mancanza della supremazia aerea, qualunque offensiva è ovviamente un azzardo, ma per quanto riguarda gli ucraini ci sono da considerare altri due fattori non meno importanti; il primo, è il deficit di artiglieria, e segnatamente di munizionamento (1), il secondo è l’insufficiente rapporto numerico tra attaccanti (ucraini) e difensori (russi).
Normalmente si considera che – a parità delle altre condizioni – sia necessario un rapporto 4:1, in favore di chi attacca. Ma attualmente la situazione lungo la linea di combattimento è diversa.
Le forze russe dislocate nelle quattro regioni ex-ucraine contano circa 250/280.000 uomini – ovviamente non tutti schierati in prima linea – mentre le forze ucraine ne schierano circa 400.000. Complessivamente, lungo i quasi 1000 km di fronte, il rapporto effettivo è di 2:1, con punte di 3:1 (nel settore di Bakhmut-Artyomovsk).
Tutto ciò, unito ai summenzionati problemi strutturali, rende estremamente complesso sviluppare efficacemente un’offensiva. Ragion per cui questa, alla fin fine, si è di fatto trasformata in un aumento della pressione lungo la linea di contatto, con oscillazioni tattiche prevalentemente contenute nell’ambito della greyzone (l’area grigia tra le opposte linee difensive).
A tal proposito, vale la pena spendere qualche considerazione aggiuntiva sul tema, poiché anche qui circolano valutazioni imprecise e discutibili.
Allo stato attuale, oltre ai militari di alcune compagnie private (non c’è solo la Wagner), la Russia schiera i soldati della leva ordinaria, alcune unità di volontari, e gli uomini dell’unica mobilitazione sinora effettuata (300.000, tra i riservisti). Al contrario, l’Ucraina ha effettuato ben 11 mobilitazioni – anche se va tenuto presente che sono state prevalentemente mobilitazioni territoriali, a macchia di leopardo. Nonostante si dica che oggi Kiev ha un problema di manpower, questa è un’affermazione sostanzialmente errata.
Al momento dello scoppio del conflitto diretto con la Russia, la popolazione ucraina contava circa 35 milioni di abitanti, al netto della Crimea e delle due regioni separatiste (Donetsk e Lugansk). Di questi, circa 5 milioni (prevalentemente donne, bambini ed anziani) sono poi fuggiti all’estero, mentre circa un altro milione e mezzo è a sua volta passato sotto controllo russo (oblast di Kherson e Zaporizhzhia). Resterebbero quindi circa 28 milioni di abitanti. Ai quali ovviamente vanno sottratti quelli attualmente sotto le armi, i caduti (350.000 circa) ed i feriti (approssimativamente almeno un milione, alcuni dei quali rientrati in servizio, altri ancora ospedalizzati e/o inabili). In fin dei conti, una platea di 26/27 milioni, dalla quale – con una mobilitazione generale, estesa all’intero territorio nazionale, un ampio range di classi d’età, ed eventualmente comprendente le donne delle classi 20-30 anni – si potrebbero trarre senza grandi difficoltà almeno altri quattro milioni di unità.
La questione, quindi, non è l’insufficienza numerica in sé, quanto la capacità di fornire il sufficiente addestramento (ed il necessario armamento) ai mobilitati.
A questo aspetto del problema Kiev cerca di far fronte ricorrendo nuovamente ai mercenari stranieri, cercando però stavolta di reclutarli soprattutto in Medio Oriente ed Asia Minore (iracheni, curdi, afghani, turcomanni…). Anche se la precedente ondata di mercenari (soprattutto occidentali) non ha dato in effetti alcun apporto decisivo, e si è poi assottigliata considerevolmente (2), si tratta pur sempre di carne da cannone, del cui reclutamento, inquadramento ed armamento (nonché emolumento…) si fanno carico gli alleati angloamericani, ed essendo essenzialmente composto da ex-militari non richiede neanche particolare addestramento.
Inoltre, agitare lo spauracchio dell’insufficienza numerica serve anche ad invocare – più o meno velatamente – l’intervento diretto di truppe NATO, giustificandolo come necessario per evitare la sconfitta ucraina (che equivarrebbe ad una sconfitta dell’Alleanza Atlantica).
Un tritatutto
Le forze armate ucraine, quindi, devono fare i conti con dei gap impossibili – o estremamente difficili – da colmare: forze aeree (aviazione d’attacco e missilistica a lungo raggio), artiglieria (e relativo munizionamento) e forza combattente (con sufficiente addestramento operativo). Di più, poiché anche la NATO sta esaurendo la sua capacità di alimentare il conflitto (3), la situazione è destinata ad aggravarsi sempre più. L’effetto tritacarne, di cui tanto si è parlato a proposito di Bakhmut, è in realtà estendibile all’intero conflitto – e non solo alle forze ucraine, ma all’intera NATO.
In effetti, anche se si sente spesso parlare di situazione di stallo – c’è chi addirittura fa paragoni con la Prima Guerra Mondiale – la scarsa mobilità della linea del fronte non attesta affatto una qualche equivalenza delle forze, ma corrisponde ad una precisa scelta strategica russa.
Nel guerra 1914/18, infatti, un sostanziale equilibrio degli eserciti contrapposti determinò una stabilizzazione del fronte, e considerevolissime perdite umane nel vano tentativo di sbloccarla. Nella guerra 1939/45, invece, caratterizzata dalla mobilità delle forze corazzate e dalla vastità dei fronti (europeo, nordafricano, atlantico, pacifico…), le perdite umane furono più bilanciate rispetto a quelle materiali, per quanto egualmente enormi.
Questo conflitto però si caratterizza per un elevatissimo consumo – di uomini e di armamenti – soprattutto in considerazione del suo essere relativamente circoscritto (un solo fronte, terrestre), e del relativamente contenuto numero di uomini coinvolti. In questo senso, sarebbe forse più corretto parlare, piuttosto che di tritacarne, di tritatutto.
Ora, se consideriamo gli obiettivi strategici russi – che si sono evoluti, nel corso del conflitto – possiamo anche decifrare il senso della sua strategia militare sul terreno.
Obiettivo primario, e sovrastante qualunque altro, è ovviamente la sicurezza della Russia. Se nella primissima fase della guerra Mosca immaginava di poterlo conseguire costringendo Kiev, gli europei – e quindi gli USA – ad una trattativa complessiva, dal momento in cui è apparso indiscutibilmente chiaro che tale ipotesi era impraticabile (stante la precisa volontà belligerante della NATO), si è reso necessario riorientare lo sforzo. Un risultato ottimale – e realisticamente conseguibile – sarebbe allontanare la possibilità di un ingresso dell’Ucraina nella NATO, frammentare il paese, distruggerne il potenziale bellico. Contrariamente a quanto ripetutamente affermato dai propagandisti NATO, non c’è mai stata l’intenzione (né l’interesse) di occupare l’intero paese. La stessa annessione dei quattro oblast, se pure ha delle motivazioni ulteriori (difesa delle genti russofone, spostamento ad ovest dei confini, acquisizione di territori produttivi e di popolazione…), ha fondamentalmente la sua ratio principale nella creazione di un’ampia fascia di sicurezza per la Crimea, il cui controllo è assolutamente strategico.
A ben vedere, quei risultati sono in corso di conseguimento, nessuno escluso.
Il vertice NATO di Vilnius, che era stato immaginato come la celebrazione dell’avanzata delle forze NATO-ucraine, e che si è trovato invece a fare i conti col disastro della controffensiva, è da questo punto di vista emblematico. L’Ucraina entrerà nella NATO se tutti i membri saranno d’accordo, se adempirà a tutte le condizioni, e se vincerà la guerra con la Russia. Un modo, neanche troppo elegante, per dire mai. Quel che forse otterrà, e neanche subito, è un qualche accordo bilaterale di assistenza, come quello USA-Israele; che però, è bene ricordarlo, non è (almeno de jure) un’alleanza, e non prevede un obbligo né un automatismo come quello del famoso art.5 del trattato Nord-Atlantico.
La frammentazione dell’Ucraina è nei fatti, privata già com’è delle regioni sud-orientali (le più ricche di risorse, e le più produttive industrialmente), ma potrebbe spingersi ancora più in là. Se ad un certo punto la struttura statuale dovesse in qualche modo collassare, o anche se – con le motivazioni più diverse – si dovesse arrivare ad un qualche intervento polacco, è assai probabile che lo spezzettamento diverrebbe completo (con polacchi, rumeni ed ungheresi che si riprendono pezzi di territorio).
Quanto alla distruzione del potenziale bellico ucraino, non serve aggiungere altro.
Sul piano politico strategico, quindi, si può dire che gli obiettivi principali Mosca li ha già conseguiti, o sta per conseguirli.
Di più, come conseguenza dello scontro politico diretto con l’occidente, e nonostante i trionfalismi di facciata, sia l’Unione Europea che la NATO stessa sono oggi attraversate da contrasti e divisioni più o meno carsiche, ma che sono comunque destinate ad indebolirne la coesione con l’incedere degli eventi. Per tacere poi del fatto che, contestualmente alla demilitarizzazione dell’Ucraina, si sta in effetti realizzando anche quella dell’Alleanza Atlantica.
Da un certo punto di vista, quindi, possiamo affermare che la guerra prolungata è assai più coincidente con gli interessi strategici russi, che non quelli USA-NATO. Non a caso, in occidente si anima il dibattito su quale possa essere un terreno accettabile per un negoziato, in grado quantomeno di congelare il conflitto, mentre da parte russa – a parte una generica disponibilità – non viene neanche ventilata una qualche ipotesi di stop.
Il proseguimento della guerra, infatti, non solo rinsalda il fronte interno, ed il rapporto strategico con la Cina (4), ma diventa (almeno sul breve-medio periodo) una occasione per incrementare il vantaggio russo nei confronti della NATO, soprattutto per quanto riguarda il complesso militare-industriale.
Di sicuro, mantenere attivo il tritatutto ha un ovvio, immediato risultato. Che non è semplicemente materiale-militare, ma ha delle altrettanto ovvie implicazioni politiche e strategiche. È, ancora una volta nella storia di questo paese, la riprova che la potenza russa è vincibile solo in un ambito spazio-temporale ristretto, ma che in una prospettiva più ampia rimane irriducibile.
Basti osservare la capacità reattiva del sistema. Nonostante la grande strategia statunitense punti da decenni allo scontro con la Russia, la realtà è che poi sia gli USA – che, più ampiamente, la NATO – sono arrivati al momento dello scontro con arsenali inadeguati, ed una produzione industriale bellica imparagonabile. Ancora adesso, di qua e di là dell’Atlantico si discute di come incrementarla, di come incentivarla, di come finalizzarla, mentre quella russa ha già moltiplicato la sua capacità produttiva, mediamente raddoppiandola rispetto ad un anno fa, ed in certi settori addirittura triplicandola e più. Per non parlare del fatto che l’esercito russo dispone di enormi arsenali sovietici, ed al tempo stesso può contare su una supremazia nucleare e persino tecnologica (su tutto: missili ipersonici e siluri nucleari).
Una ipotesi altra
Tornando alla questione del tritatutto (5), vale la pena considerare anche un diverso punto di vista, rispetto a quello che viene – più o meno unanimemente – considerato l’aspetto inspiegabile della condotta di guerra russa. Ovvero la mancata distruzione delle infrastrutture logistiche ucraine, con particolare riferimento alle vie di comunicazione (strade, ponti, ferrovie…). In un articolo apparso recentemente su DD Geopolitics (6), si avanza infatti una ipotesi che ne spiegherebbe il senso, attribuendovi anzi una lucida e precisa volontà strategica. In questa analisi si parla esplicitamente di tolleranza strategica della Russia, nei confronti della logistica ucraina, nella logica di “sfruttare i vantaggi a lungo termine rispetto alle vittorie a breve termine”. L’analisi considera che si tratti di un vero e proprio “posizionamento strategico della battaglia: l’approccio del Cremlino è quello di ingaggiare gli ucraini il più vicino possibile alla Russia, dove possono godere della superiorità aerea e del supporto dei locali amichevoli. Il grave svantaggio che questa vicinanza presenta all’Ucraina diventa un’arma potente nell’arsenale della Russia. Consentendo all’Ucraina di incanalare le sue risorse nella regione del Donbass, la Russia disegna effettivamente le linee di battaglia a condizioni favorevoli”.
Un altro punto considerato è lo “sfruttamento tattico delle capacità della NATO: consentendo alla NATO di esaurire le sue risorse in modo efficiente, la Russia influenza strategicamente le dinamiche di potere internazionali, con effetti a catena sulle relazioni chiave”. Ciò anche allo scopo di evitare le possibili conseguenze di un subitaneo collasso ucraino, che potrebbe a sua volta determinare un cambio di passo, “costringendo la NATO a cambiare tattica, rallentare e adottare un modus operandi più segreto. Un tale spostamento potrebbe istigare un conflitto di guerriglia prolungato in tutta l’Ucraina. La strategia della Russia, quindi, mira a confinare la guerra entro confini gestibili e alle sue condizioni”. Detto sinteticamente, si tratta di “una scelta strategica progettata per consentire all’Ucraina di commettere un ‘suicidio di massa’ altamente efficiente”.
“In sostanza, la grande strategia della Russia rappresenta un esercizio per vincere la guerra preservando strategicamente la sua ricchezza materiale e il suo capitale umano – una lezione magistrale nell’intricato balletto di geopolitica e strategia militare”.
Ovviamente, non avendo accesso alle segrete stanze del Cremlino, non c’è modo di sapere se questa chiave di lettura sia corretta, e quindi se e quanto corrisponda effettivamente al pensiero strategico russo. Certamente si presenta con una sua coerenza logica, e fornisce una spiegazione dotata di senso a ciò che ci appare quanto meno nebuloso. Di sicuro, se l’assumiamo quanto meno come probabile punto di vista, possiamo a sua volta trarne delle riflessioni degne di nota, e tre su tutte.
Come osservatori ed analisti occidentali, siamo così fortemente condizionati dal nostro modo di combattere (e di leggere quello altrui), che è poi quello effettivamente più diffuso – chi fa più guerre dell’occidente? – da avere appunto difficoltà nel cogliere il senso di una diversa condotta bellica.
È improbabile che assisteremo ad una qualche importante offensiva russa, di portata strategica, che implicherebbe gioco forza maggiori perdite, allungherebbe la filiera logistica, ed in ultima analisi offrirebbe all’Ucraina il vantaggio della difesa. Più probabili sono offensive tattiche, scaglionate nel tempo (Lyman, Kharkov, Kherson, Zaporizhzhia).
Una volta accettata la sfida lanciata dalla NATO, la Russia si sta dimostrando assai più determinata a portarla in fondo, ed assai più pronta a farlo. In termini pratici, ciò significa che la guerra cesserà quando sarà la NATO a chiedere la pace.
1 – La recente decisione USA di inviare a Kiev vecchie munizioni a grappolo (cluster bomb), ne è la conferma. Anche se l’attenzione mediatica si è soffermata sulla liceità morale di questa decisione, aspetto peraltro discutibile, posto che gli Stati Uniti, l’Ucraina (e la Russia…) non hanno mai sottoscritto il bando di questo tipo di munizionamento, la questione è piuttosto un’altra. Innanzi tutto, va detto che Kiev le ha già usate (quelle sovietiche che aveva in arsenale); ma soprattutto il punto è che tali munizioni vengono inviate perché Washington ha esaurito il munizionamento standard per i grossi calibri, e che a sua volta l’Ucraina ne è priva. Non si tratta quindi di una misura – l’ennesima – da spacciare come game changer, ma di un vero e proprio ripiego; per di più al ribasso, poiché le cluster bomb sono eventualmente utili in fase difensiva, saturando il terreno su cui avanza il nemico, ma di certo non in fase offensiva, quando ad avanzare deve essere l’esercito che dovrebbe utilizzarle…
2 – Si calcola che durante il primo anno di guerra siano arrivati in Ucraina oltre 11.000 mercenari, soprattutto polacchi, canadesi, britannici, rumeni, statunitensi, colombiani…, dei quali circa 4.000 sono caduti in combattimento, e altrettanti sono poi fuggiti via allo scadere dei contratti. Attualmente sarebbero in azione circa 2.000 mercenari.
3 – Gli arsenali militari dei paesi NATO, soprattutto europei, sono stati svuotati pressoché completamente, ed alcuni paesi hanno largamente intaccato persino i pochi reparti operativi. Si stima che – al netto degli ulteriori aiuti all’Ucraina – saranno necessari dai 5 ai 10 anni, per ripristinare le scorte della NATO.
4 – Un aspetto che si tende spesso a sottovalutare, sotto questo profilo, è che – dal momento che Pechino si sente costretta a considerare la possibilità dello scontro armato per Taiwan – l’esperienza bellica russa diventa un fattore strategico. La Cina, infatti, ha praticamente combattuto la sua ultima guerra in Corea, settant’anni fa.
5 – Sulla efficacia di questa strategia, che punta chiaramente alla distruzione sistematica delle forze nemiche, assai più che al loro cedimento, è interessante notare quanto affermato da Larry Johnson, un ex analista della CIA, intervistato nella trasmissione Judging Freedom; secondo lui, gli Stati Uniti non saranno in grado di aumentare il ritmo della produzione di munizioni nella quantità di cui Kiev ha bisogno, e per questo motivo l’Ucraina dovrà affrontare la sconfitta in inverno.
6 – “The Art of War: Unraveling Ukraine’s Failed Counter-Offensive and Russia’s Tactical Logistic Leniency”, DD Geopolitics