GUERRA E POLITICA

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Se l’assunto clausewitziano, secondo cui la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, risponde al vero, ne consegue che le indicazioni politiche hanno un peso determinante negli esiti della guerra. Perseguire attraverso il momento bellico obiettivi impossibili, si traduce in un grosso rischio militare – il quale, a sua volta, non potrà che riflettersi sul piano politico.

Se guardiamo alla guerra in Ucraina sotto questo profilo, ci accorgeremo rapidamente che di errori politici ne sono stati commessi molti, e da entrambe le parti, tanto che a dieci mesi dall’inizio del conflitto non si vede come uscirne. E chiaramente stiamo parlando di errori significativi, per nulla marginali, che hanno conseguentemente condizionato – e tuttora condizionano – l’andamento della guerra; e per di più, non si tratta soltanto di errori commessi a monte del 24 febbraio, ma anche successivi, in corso d’opera. Com’è ovvio, questo accumulo produce effetti che si sommano gli uni con gli altri, riorientando l’andamento del conflitto, che già di suo è un processo non strettamente determinabile.

Gli errori americani

Tralasciando gli errori commessi dagli attori minori, prenderemo in esame qui quelli commessi dai due principali antagonisti, gli Stati Uniti e la Russia.
Prima d’ogni cosa va però fatta una precisazione, affatto secondaria. Entrambe si sono preparati da anni a questa guerra, anzi – per quanto riguarda gli USA – non solo si sono preparati, ma l’hanno preparata.
Gli obiettivi strategici che la leadership statunitense intendeva perseguire attraverso la guerra, erano fondamentalmente due: separazione netta e definitiva dell’Europa dalla Russia, e logoramento di questa a 360°. In questa prospettiva, la guerra giunge a coronamento di un percorso di espansione verso est della NATO, che per un verso aveva lo scopo di spingere in avanti le frontiere tra l’Alleanza e la Russia, accerchiandola sempre più, e dall’altro intendeva sbilanciare in senso russofobo la componente europea dell’Alleanza stessa, attraverso appunto l’integrazione dei paesi provenienti dall’ex-area d’influenza sovietica.
Da questo punto di vista, la scelta dell’Ucraina è stata assolutamente strategica, in quanto non solo è il paese più grande tra quelli confinanti con la Russia, ma è anche terra di transito per le forniture di gas e petrolio verso l’Europa. I gasdotti North Stream 1 e 2, infatti, saranno costruiti successivamente e proprio per bypassare l’Ucraina.

Il primo errore statunitense, quindi, è stato una errata valutazione delle capacità di resistenza della Russia, non solo sotto il profilo militare-industriale, ma ancor più sotto quello economico e politico-diplomatico. Si è trattato di un errore di vasta portata, perché in realtà non è riconducibile esclusivamente ad una miscomprensione della reattività del sistema russo, ma ad una ben più ampia incomprensione dei mutamenti intercorsi sul piano internazionale – sia sotto il profilo economico e commerciale, sia sotto quello del crescente multipolarismo politico.
Questo errore, in particolare, è stato di portata strategica, perché la guerra ha fatto da acceleratore del processo, costringendo molti paesi ad anticipare una scelta di campo che forse avrebbero comunque fatto, ma comunque non oggi.
Da ciò, è derivata anche la cattiva valutazione che avrebbe avuto l’impatto dell’impianto sanzionatorio, non solo sulla Russia ma sul mondo intero. Se, infatti, da un lato l’economia russa si è rivelata assai più resiliente del previsto, anzi riuscendo velocemente a superare l’urto delle sanzioni, queste si sono invece disastrosamente rovesciate non solo sugli alleati europei, ma su gran parte dei paesi terzi, che hanno accusato il brusco cambiamento nel commercio internazionale, in particolare nel settore energetico ed in quello agro-alimentare. Una mossa, questa, che ha contribuito ulteriormente a raffreddare i rapporti tra l’occidente collettivo ed il resto del mondo.

Il secondo errore è stato sul piano militare. Probabilmente a Washington si accarezzava l’idea di replicare quanto fatto a suo tempo in Afghanistan, dove la proxy war condotta attraverso i mujaheddin aveva prodotto – tutto sommato con poca spesa – un serio logoramento dell’Armata Rossa, contribuendo al processo di dissoluzione dell’URSS. Del resto, c’erano alcune premesse. L’Ucraina, dopo la fine dell’Unione Sovietica, aveva ereditato massicce quantità di armi, e poi, a partire dal 2014, la NATO aveva fatto un grosso investimento sulle forze armate ucraine, sia in termini di addestramento che di armamenti. Ovviamente nessuno al Pentagono ha mai pensato che Kyev potesse vincere una guerra contro la Russia, ma evidentemente si riteneva che potesse dar filo da torcere abbastanza a lungo, quanto basta per logorare le forze armate russe oltre che troncare di netto le relazioni est-ovest in Europa.
A questo errore iniziale si è poi pensato di poter porre rimedio aumentando il sostegno all’esercito ucraino, ma questa si è rivelata essere una strada senza uscita, e l’Ucraina si è trasformata in un buco nero che inghiotte armi uomini e miliardi, con una velocità che non si riesce a rallentare. In dieci mesi, soltanto gli Stati Uniti hanno trasferito all’Ucraina aiuti che superano di un terzo l’intero bilancio militare russo per l’anno in corso. Senza contare quelli trasferiti dagli oltre trenta paesi che stanno contribuendo, in varia misura, a sostenere Kyev.

Se, da un lato, la tenuta delle forze armate ucraine – e della società intera – è stata sinora considerevole, è evidente come la guerra d’attrito, pur onerosa per entrambe le parti, è ormai prossima a raggiungere una soglia insostenibile per l’Ucraina ed i suoi alleati. La capacità di trasferimento di armamenti è pressoché al limite, gran parte dei paesi NATO ha esaurito le scorte disponibili, sia di mezzi che di munizionamento – di cui si sta facendo un consumo enorme. Senza entrare qui nel dettaglio dei problemi derivanti dall’eterogeneità delle forniture militari – dalla necessità di addestramento specifico al munizionamento, alla riparazione, etc – è ormai chiaro che il sostegno alle forze armate di Kyev sarà sempre più legato alla capacità industriale di produrre appositamente (e quindi con tempi di consegna dilatati), ovvero all’intaccare seriamente le disponibilità operative dei vari eserciti NATO.

Al tempo stesso, sta emergendo un altro fattore critico, ovvero il consumo di manpower. Le perdite subite dagli ucraini sono considerevolissime, ed ormai gran parte delle truppe è costituita da coscritti con scarsa o nulla esperienza di combattimento; se a ciò si aggiunge la summenzionata necessità di personale specializzato per l’utilizzo di taluni sistemi d’arma occidentali (sistemi d’artiglieria, anti-aerei e anti-missile in particolare), si comprende facilmente come armi e denaro non siano più sufficienti a sostenere lo sforzo bellico dell’Ucraina. A ciò si sta facendo fronte, da parte NATO, sia attraverso un crescente impiego di PMC (1), sia attraverso l’arruolamento di fatto di interi reparti di militari polacchi. Senza ovviamente contare i reparti speciali (soprattutto britannici) che operano clandestinamente.
Questo è un grosso problema perché non sarà possibile continuare ad ibitum con questa politica, senza rischiare prima o poi di arrivare allo scontro diretto sul campo – cosa che sia la NATO che la Russia vogliono assolutamente evitare.

Gli errori russi

Dal canto suo, anche la Russia ha commesso degli errori rilevanti, ed anche in questo caso si riflettono pesantemente sul conflitto.
Il primo, grossolano errore è stato credere, il 24 febbraio, che con una sorta di blitzkrieg che minacciasse la capitale, si potesse rapidamente portare l’Ucraina – e quindi la NATO – al tavolo delle trattative. Da questo errore di valutazione, che dimostra come a Mosca non si avesse assolutamente la reale percezione delle intenzioni americane, nasce l’Operazione Speciale Militare – che voleva appunto essere relativamente rapida e circoscritta, e che pertanto ha visto sia l’impiego di un numero assolutamente insufficiente di uomini, sia due penetrazioni iniziali in territorio ucraino (da nord e da est) che erano funzionali esclusivamente a questo obiettivo politico, ma assolutamente inutili sotto il profilo militare (e infatti, una volta divenuto chiaro che la controparte non avrebbe trattato, sono state ritirate unilateralmente).
Vale qui la pena rilevare, giusto per inciso, come nel corso del conflitto la Russia abbia operato tre – se non quattro (2) – ritirate, pur in assenza di un’offensiva ucraina.
Questo primo errore ha prodotto come conseguenza la perdurante inferiorità numerica russa sul campo, solo parzialmente compensata dal dominio dell’aria e dal preponderante vantaggio nel settore critico dell’artiglieria. Ma che ha comunque impedito una maggiore spinta offensiva, ed ha contribuito non poco ad aumentare le perdite umane.

Si tratta, com’è evidente, di un errore politico, dalle conseguenze strategiche. A cui si è deciso di porre rimedio tardivamente, tanto che ancora il rimedio è solo parzialmente effettivo.
Per quanto siano opinabili, e certamente a loro volta non prive di conseguenze, non annovereremo tra gli errori le scelte (politiche) di non colpire decisamente le infrastrutture ucraine, e quando si è deciso di farlo di colpirle in modo parziale e selettivo (non c’è alcuna seria offensiva volta a distruggere la rete stradale e ferroviaria, fondamentale sia per la mobilità delle truppe tra i vari settori del fronte, sia per la logistica, sia per far affluire i mezzi NATO sulla linea di contatto). Si tratta appunto di scelte discutibili, ma non necessariamente identificabili come errori, in quanto l’effetto maggiormente negativo che ne è conseguito è stato (probabilmente) un prolungamento del conflitto.

Il secondo errore politico commesso dai russi nella guerra, in questo paragonabile a quello americano sulla sottovalutazione della resistenza complessiva della Russia, è stata la decisione di anticipare i referendum negli oblast parzialmente occupati. Questa decisione, chiaramente politica non solo perché presa su quel piano, ma perché aveva un evidente scopo politico (ovvero indicare con chiarezza una red line inequivocabile, invalicabile in un negoziato), rischia però di avere effetti pesantemente negativi. Essa infatti si pone in netto contrasto con le esigenze militari della guerra. E di conseguenza fa emergere una contraddizione stridente nell’operato di Mosca. L’abbandono di Kherson ed il ripiegamento sulla riva sinistra del Dnepr sono, da questo punto di vista, esemplari.
Non solo, infatti, la città è il capoluogo dell’oblast, che si è voluto parte della Federazione Russa nella sua interezza (compresa quindi la parte non ancora liberata), ma è anche un nodo strategico importantissimo. Ritirarsi al di qua del Dnepr, ad attestarvisi a difesa, significa infatti – ed in modo inequivocabile – rinunciare a riattraversarlo, quindi abbandonare agli ucraini un pezzo di territorio appena proclamato come suolo patrio, oltre che, ovviamente, precludersi seriamente qualsiasi possibilità offensiva verso Odessa.
È significativo che, ormai da mesi, lungo i 1000 chilometri di fronte, gli unici spostamenti significativi siano stati proprio gli arretramenti russi – a sud-ovest ed a nord-est. Per quanto si stia combattendo duramente, lungo la linea di contatto degli oblast di Zaporizhia, Donetsk e Lugansk, l’iniziativa è russa solo nel Donetsk. Un oblast che, tra l’altro, è per circa la metà in mano ucraina. Problema peraltro comune a tutti i quattro oblast annessi; solo il Lugansk è quasi completamente in mano russa.

La scelta quindi di celebrare i referendum di annessione, ha una ricaduta pesante sulla guerra, intanto proprio perché ne pone le decisioni necessarie in stridente contraddizione con l’indicazione politica data. E poi perché pone un problema – che è politico e militare ad un tempo – complessivo, in ordine agli obiettivi della guerra. Sotto il profilo territoriale, la mancata liberazione di parte del territorio russo, sarebbe una sconfitta sia per le forze armate che per il Cremlino. Inoltre, poiché è chiarissimo che l’interesse americano è mantenere comunque il conflitto caldo, e quindi, anche in caso di negoziati, a lasciare una situazione potenzialmente riattivabile, per la Russia si pone il problema se accettare questa prospettiva (quindi una sorta di Minsk III, con tutto quel che ne consegue), oppure se perseguire la via della demilitarizzazione dell’Ucraina, che può essere conseguita soltanto annientandone le forze armate.

Un obiettivo questo che, se non si fosse commesso l’errore iniziale, si sarebbe potuto conseguire entro l’estate, impegnando sin dalla primavera il necessario dispositivo di uomini e mezzi, ma che ora diventa non solo assai più oneroso (militarmente e politicamente), ma anche più complicato, perché la liberazione o meno dei quattro oblast per intero diventa anche una questione militare, di non poco conto.

Tornando quindi a von Clausewitz e alla relazione inscindibile tra politica e guerra, si può oggi affermare che i due contendenti veri della guerra ucraina, USA e Russia, in virtù dei propri errori politici, si trovano oggi a dover fronteggiare un sostanziale impasse militare, che per la difficoltà di districarsene politicamente, minaccia di incancrenirsi e – come taluni hanno sempre temuto – di aprire la strada alla sirianizzazione del conflitto.


1 – Private Military Company. La più famosa tra quelle operanti in Ucraina, sul fronte NATO, è la Mozart, guidata da un ex colonnello USA, e così denominata come risposta alla PMC russa Wagner

2 – Il riferimento è qui non solo alle due linee di penetrazione citate, ma anche a quella da Kherson, ed in una certa misura anche a quella dal settore di Kharkiv. Nel caso di Kherson, se pure vi erano delle difficoltà logistiche, e c’era una certa pressione da parte delle forze ucraine (sino a quel momento però sempre respinte con pesanti perdite), la ritirata è stata una decisione del comando russo. Quanto alla ritirata nel settore di Kharkiv, questa sì effettivamente conseguenza di una offensiva ucraina, non si può non notare come le difese nel settore fossero estremamente deboli, quasi un preludio a ciò che poi è effettivamente accaduto. In entrambe i casi, comunque, appare evidente che i territori da cui poi si sono ritirate le truppe non erano evidentemente di interesse strategico, e quindi viene da domandarsi a che scopo siano stati conquistati, se non c’era l’interesse a mantenerli.

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