SUL 24 FEBBRAIO

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C’è da tempo una narrativa filoucraina e una narrativa filorussa sui fatti che precedono e seguono l’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio e di quale fosse la reale strategia russa. Enrico Tomaselli mette in luce i limiti propagandistici di entrambe le versioni e propone una lettura diversa.

Può sembrare poco rilevante esaminare oggi il senso degli avvenimenti della prima fase dell’operazione speciale, eppure una interpretazione di quegli eventi può essere utile non solo per comprendere meglio le fasi successive, ma anche per mettere tutto in prospettiva e, quindi, provare a comprendere quali potrebbero essere gli sviluppi a breve-medio termine.

È interessante notare, al riguardo, come esistano sostanzialmente due chiavi di lettura di quella fase iniziale, ovviamente opposte e quasi speculari, che potremmo ricondurre a due diverse letture di parte degli avvenimenti.

Tre linee d’attacco

Esiste una chiave di lettura, diciamo così, filo-ucraina, secondo la quale le operazioni militari russe iniziate il 24 febbraio miravano all’invasione del paese, con l’intento di rovesciarne il governo ed occuparne l’intero territorio. Come si ricorderà, in effetti, le direttrici di attacco russe furono tre, di cui soltanto una riguardava la parte sud-orientale dell’Ucraina: le aree del Donbass ancora sotto il controllo di Kiev e le altre due – da est, verso Kharkiv ed oltre, e da nord verso Kyev – territori rispetto ai quali non vi erano rivendicazioni indipendentiste. In base a questa interpretazione, sarebbe stata la formidabile resistenza delle forze armate ucraine, nonché la determinazione del governo, a fermare prima e a respingere poi le forze russe penetrate da nord e da est, costringendo quindi Mosca a ripiegare entro i propri confini, per poi ridislocare le truppe più a sud e concentrare gli sforzi sui due oblast di Lugansk e Donetsk.

Ovviamente questa lettura risponde anche ad esigenze propagandistiche e sappiamo bene quanto questo aspetto sia rilevante per l’Ucraina e per la NATO che la sostiene. Ma la costruzione della propaganda poggia effettivamente su una valutazione, per quanto gonfiata, degli accadimenti dei primi giorni e settimane. Non ci è dato naturalmente sapere cosa pensassero (e pensino) realmente negli stati maggiori russi ed occidentali, né quali fossero (e siano) le effettive valutazioni delle rispettive intelligence – ed in una certa misura, ciò vale anche per le stesse leadership politiche. Peraltro, alcune cose si possono ragionevolmente desumere, sia pure per grandi linee, anche attraverso ciò che da queste fonti viene fatto filtrare, in un modo o in un altro. L’ipotesi più plausibile, quindi, è che i vertici politico-militari della NATO ritenessero che l’obiettivo iniziale russo fosse effettivamente quello di far cadere il governo Zelensky, per giungere rapidamente ad un accordo di pace con il nuovo esecutivo. Certamente, a quei livelli, nessuno poteva seriamente pensare che l’obiettivo fosse l’invasione e la conquista del paese, in quanto le truppe impiegate non erano (sotto alcun aspetto) in grado di perseguire un obiettivo di tale portata.

La chiave di lettura opposta, quella filo-russa, ritiene invece che le due direttrici d’attacco summenzionate (verso Kharkiv e verso Kiev) non fossero altro che un diversivo, il cui scopo era quello di distrarre forze ucraine dal fronte su cui invece si appuntava effettivamente l’interesse, ovvero quello del Donbass.
Ciò che accomuna entrambe queste due ipotesi è, paradossalmente, che la Russia avesse chiarissimo, e sin da quel primo momento, quale fosse il proprio obiettivo, e quale fosse la strategia adatta per conseguirlo. Nella prima ipotesi, questa sarebbe stata scompaginata dalla reazione politico-militare ucraina, mentre nella seconda, in realtà, tutto sarebbe filato liscio e come previsto.

La tesi che si proverà qui a sostenere è che entrambe le ipotesi siano errate e viziate tanto dagli intenti propagandistici quanto da un’errata lettura dei dati oggettivi, relativamente a ciò che accadeva sul terreno così come nei palazzi di governo.

Né diversivo né invasione

Per poter comprendere correttamente il senso di quella prima fase delle operazioni, è importante guardare alla fase politica che la precede, così come all’orientamento strategico di massima quale emerge dall’intero semestre di combattimenti. In un certo senso, si potrebbe dire che una determinata lettura dei fatti spiega ciò che stiamo vedendo, e ciò che vediamo a sua volta consente di spiegare quei fatti.

Se si torna alle settimane che precedono quel 24 febbraio, gli elementi fondamentali che emergono sono abbastanza ben precisi. Per la Russia, le questioni veramente fondamentali sono due: il riconoscimento della Crimea come parte della Federazione Russa e un accordo formale sulla reciproca sicurezza in Europa. La questione delle repubbliche separatiste è ovviamente importante, ma non quanto le prime due. E ciò che appare subito evidente è che, stante questo ordine di priorità, la volontà di Kiev è secondaria, gli interlocutori reali essendo gli USA, la NATO e l’Unione Europea. Ciò è tanto vero che, sino a poco prima dell’inizio del conflitto, la richiesta relativa al Donbass era quella di una forte autonomia.

Sul fronte opposto, da Washington venivano lanciati messaggi che davano ad intendere come non ci fosse alcuna intenzione di lasciarsi coinvolgere in una guerra per l’Ucraina, mentre i paesi europei sostanzialmente stavano a guardare, ma senza alcun entusiasmo verso un’ipotesi conflittuale. Lo stesso governo Zelensky si mostrava scettico rispetto all’ipotesi, più volte ventilata dagli USA, di un imminente attacco russo.

Quando vengono avviate le esercitazioni al confine, quindi, l’intento di Mosca è quello di brandire una minaccia, sia per indurre USA e Kiev a più miti consigli, sia per sollecitare un’azione diplomatica europea. L’idea che sta alla base della condotta russa, in questa fase preliminare, si basa fondamentalmente su due presupposti, ovvero che Washington intenda tirare la corda sino all’estremo, ma senza farla spezzare e che i paesi europei – rendendosi conto dei rischi derivanti da una guerra per le loro economie – sarebbero in qualche modo intervenuti per mediare. Va inoltre aggiunto quello che è tutt’altro che un dettaglio secondario. Il 19 febbraio – solo cinque giorni prima dell’inizio delle ostilità – Putin, Biden e Zelensky raggiungono un pre-accordo per evitare la guerra, che rispecchia sostanzialmente quelle che erano le esigenze russe (riconoscimento Crimea, no adesione NATO, una qualche autonomia per il Donbass). Ma, quando Zelensky torna a Kiev per riferirne i termini, viene messo spalle al muro dalle formazioni naziste (militari e politiche) che lo sostengono ed è costretto a rimangiarselo. Esattamente come del resto era già accaduto con gli accordi di Minsk, rinnegati il giorno dopo la firma – a conferma, se mai ve ne fosse dubbio, che si tratta di un burattino.

A sua volta, stessa sorte tocca a Biden, cui i vertici del partito democratico, e di parte del partito repubblicano, impongono di far cadere l’accordo.

Contestualmente, i servizi di intelligence russi avvertono che sta per scattare un’offensiva ucraina contro le repubbliche del Donbass (cosa che trova riscontro persino nelle rilevazioni della missione OSCE, che segnala un forte incremento dei bombardamenti d’artiglieria da parte ucraina). Diventa dunque necessario agire prima di ritrovarsi a dover fronteggiare un attacco che rischia non solo di travolgere le repubbliche, ma di scatenare un’ondata di civili in fuga verso i confini russi, che sarebbe oltretutto di ostacolo ad una controffensiva. C’è, quindi, da un lato la necessità di accelerare l’avvio delle operazioni, ma dall’altro la convinzione che gli Stati Uniti non vogliano effettivamente la guerra (o, quanto meno, non siano univoci su questa decisione) e che gli europei faranno di tutto per impedirla.

A monte, quindi, non c’è alcun errore di valutazione militare (né tantomeno alcuna scelta perfettamente calcolata), ma un errore di valutazione politica.

Il 24 febbraio, quindi, è né più né meno che un’intensificazione della minaccia. Visto che questa, fintanto che restava tale, non sortiva gli effetti sperati, la si porta ad un livello superiore, effettuale, affinché il messaggio arrivi stavolta forte e chiaro.

Il vero errore di Mosca è stato pertanto non aver compreso che la NATO avesse, invece, già deciso di arrivare proprio alla guerra guerreggiata, né che il livello di autonomia degli europei era così basso da risultare impossibile qualunque terzietà.

Quando le forze armate russe entrano in Ucraina da tre punti diversi, non pensano neanche lontanamente di occupare il paese, né di distrarre le truppe schierate nel Donbass, né di far cadere Zelensky. Al contrario, l’obiettivo è costringere i tre soggetti – Zelensky, USA-NATO, Europa – a trattare immediatamente. Va ricordato che in effetti i negoziati iniziano quasi subito, ancora una volta a Minsk. Quindi l’intento iniziale russo, il disegno strategico politico-militare, è quello di utilizzare le tre direttrici di penetrazione come spade di Damocle. La minaccia capitale.

Ciò appare più chiaro se si considerano le mosse proprio sotto il profilo militare. Va innanzi tutto tenuto presente che, come è risultato evidente nei mesi a seguire, la Russia ha nel paese un’efficiente rete informativa, che può contare su un terzo della popolazione russofona. I russi sanno quindi perfettamente che il meglio delle forze ucraine è concentrato nel settore meridionale e che ai confini occidentali dei due oblast separatisti sono state costruite profonde linee trincerate che poggiano su città e villaggi fortificati. E che quindi è improbabile che questo settore decisivo venga sguarnito; oltretutto, se fosse stato questo l’intento, non avrebbe dovuto esserci alcuna direttrice d’attacco in quel settore, in modo da indurre Kiev a credere di poter spostare una parte delle truppe più a nord.

Al tempo stesso, se l’intento fosse stato quello di far cadere il governo – ammesso che ritenessero possibile che non fosse sostituito da uno più ostile, considerando che ben conoscevano il livello di nazificazione delle forze armate – la cosa più logica sarebbe stata attaccare effettivamente la capitale. È importante, in questa prospettiva, riconsiderare quello che – diversamente – appare come uno dei fatti più inspiegabili dell’intera guerra.

Non solo, infatti, Kiev praticamente non viene colpita né da missili né da bombardamenti aerei (se non in misura incredibilmente minima – cosa che continua tuttora…), ma c’è la storia della famosa colonna di carri e fanteria meccanizzata che si ferma a qualche chilometro dalla città. Le foto aeree, come si ricorderà, parlano di una colonna di oltre 60 Km, il che – anche considerando la presenza di mezzi della logistica e di supporto – significa qualcosa come 600/700 mezzi tra carri armati, artiglieria meccanizzata e blindati per il trasporto truppe. Una concentrazione di mezzi corazzati enorme, quale non si ripeterà mai più in alcun luogo nei mesi successivi. Ebbene questa potentissima forza d’attacco non verrà mai effettivamente impiegata. Viene lungamente tenuta ferma a poca distanza da Kiev, dapprima proprio sulla strada, poi nell’adiacente foresta, nonostante gli ucraini abbiano ovviamente cominciato a colpirla con tiri d’artiglieria e rapide puntate di commando. Una cosa apparentemente senza senso, se non che il senso è esattamente quello che si diceva: quella colonna è la spada di Damocle che pende sulla capitale. Il senso è: “Trattate oppure attacchiamo Kiev”.

Il fatto che questa potente formazione venga tenuta a lungo ferma, per poi farla ritirare al di là del confine, mentre lo stesso accadeva con le forze penetrate da est, è la miglior prova che lo scopo fosse solo e soltanto quello di esercitare un’enorme pressione, tale da indurre Zelensky (e soprattutto i suoi manovratori) a sedersi ad un tavolo di trattativa.

Ad un certo punto, però, a Mosca è divenuto chiaro che non esisteva alcuno spazio di manovra in tal senso. Da un lato, già il 26 febbraio la NATO cominciava a fornire supporto all’Ucraina – una cosa che certo non si improvvisava in 24 ore. Poi, ai primi di marzo i servizi ucraini uccidono Denis Kireyev, uno dei negoziatori di Kiev più propenso a trattare, lanciando un messaggio chiaro all’interno e all’esterno del paese. A quel punto, diventa necessario ripensare completamente la strategia ed il primo passo è appunto ritirare le forze penetrate in territorio ucraino, anche per centinaia di chilometri, da quei settori del fronte che adesso non avevano più alcun interesse.

La nuova strategia politico-militare russa

La questione fondamentale, per comprendere questo passaggio di fase, è la diversa consapevolezza cui perviene la dirigenza russa, che a questo punto ha chiaro come gli USA siano determinati ad innalzare il livello di scontro, da quello del confronto diplomatico a quello della guerra – sia pure nella forma della proxy war.

Se, quindi, in un primo tempo si riteneva praticabile un confronto a muso duro, ma comunque ancora contenibile in termini di spazio e di tempo e soprattutto in termini di intensità, nel quale è ancora possibile una posizione mediana e mediatrice dell’Europa (particolarmente importante per Mosca), da quel punto in poi diviene chiaro che si è passato il Rubicone: la prospettiva è quella dello scontro di lunga durata, nella quale l’Europa non è in grado di sottrarsi allo schieramento filo-USA.

In termini di obiettivi delineati, il passaggio è quello da una trattativa per ottenere garanzie di sicurezza, alla conquista manu militari di quella sicurezza – la demilitarizzazione e denazificazione dell’Ucraina.
In termini di prospettiva temporale, l’orizzonte passa da quello a breve termine (forzatura per giungere alla trattativa) a quello a lungo termine (guerra di logoramento). In termini politici, l’obiettivo è quello di annichilire l’Ucraina e, soprattutto, di dividere l’Europa dagli Stati Uniti, facendo leva sul piano economico.

Assunta questa prospettiva, anche la strategia militare russa muta di necessità. L’obiettivo è quello di liberare tutti i territori russofoni, passo dopo passo; dopo gli oblast di Lugansk e Donetsk, quello di Kherson, e poi Odessa, sino a ricongiungersi alla Transinistria. E poi ancora una fascia di sicurezza a protezione di questi territori, integrati nella Federazione, così come già accaduto per la Crimea. Sino allo smembramento del paese e la distruzione del suo esercito, entrambe condizioni per crearsi la sicurezza duratura desiderata.

Di questo fa parte anche la scelta di portare avanti il conflitto in forma limitata – un numero assai basso di truppe, armamento in buona parte non modernissimo, scarso uso strategico dell’aviazione, nessuna azione distruttiva sulle infrastrutture del paese (ponti, strade, stazioni e nodi ferroviari, reti elettriche e di comunicazione, etc). Come si è detto da più parti, la Russia ha scelto di combattere con una mano legata dietro la schiena.

Dal punto di vista strategico questo ha un senso, perfettamente coerente con gli obiettivi.
Innanzi tutto, limitare il livello di pressione militare e la velocità di azione rende più improbabile una reazione da parte della NATO. Prolungare il conflitto rende inoltre possibile graduare l’evolversi della pressione sui paesi europei (i contraccolpi delle sanzioni necessitano di tempo per produrre a pieno i loro effetti dannosi sull’economia). Infine, nel corso della guerra è emerso un altro aspetto – precipuamente militare – di grande importanza: mentre l’idea statunitense era di incastrare la Russia in un nuovo Afghanistan, una guerra che ne logorasse lentamente il potenziale militare e la capacità di intervento, la realtà si è concretizzata nel suo rovescio. Gli eserciti NATO stanno svuotando i propri arsenali per alimentare il pozzo senza fondo del conflitto ucraino. L’industria militare ucraina non regge il confronto con quella russa quanto a capacità produttiva e, last but not least, le fortissime perdite di uomini dell’esercito ucraino stanno mostrando (soprattutto agli europei) che il costo di un conflitto diretto con la Russia sarebbe insostenibile per la NATO.

In buona sostanza, Mosca si è rivelata molto più flessibile e pronta nel rimodulare i propri disegni strategici, alla luce del mutato quadro internazionale, mentre l’occidente non è stato in grado di capitalizzare gli iniziali errori di valutazione russi e oggi si trova a sua volta incastrato in una guerra che inevitabilmente logorerà la capacità militare della NATO, la stabilità europea, e quindi – in ultima analisi – la stabilità del patto atlantico.

Addendum

L’annuncio che nei territori liberati, anche solo parzialmente, si terranno a breve i referendum di adesione alla Federazione Russa cambia chiaramente lo status del conflitto: non più operazione speciale militare (ex art.5 dello statuto dell’ONU), ma guerra a tutti gli effetti. Le conseguenze fondamentali sono riassumibili in due elementi del discorso di Putin del 21 settembre; il primo, quasi ovvio, è che quei territori diverranno a tutti gli effetti Russia e, pertanto, qualsiasi attacco contro di essi sarà considerato come un’aggressione alla madre patria. È chiaro che qui il messaggio è rivolto sia agli ucraini, che continuano a parlare di riconquista, sia alla NATO. Sostanzialmente nella stessa prospettiva è da intendersi l’annuncio della mobilitazione parziale, che riguarderà 300.000 riservisti (prevalentemente con pregressa esperienza militare e che verranno comunque riaddestrati). Si tratta in effetti di un piccolo incremento (la mobilitazione generale russa può arrivare a 25.000.000 di uomini…), reso ormai necessario sia dall’estensione del fronte in Ucraina – oltre 1.000 Km – sia dalle continue mobilitazioni dell’esercito ucraino, che hanno fatto crescere considerevolmente il numero degli uomini sul campo (nonostante perdite assai significative: oltre 60.000 morti, e 40.000 feriti inabili al combattimento).

Il secondo elemento è che adesso viene ufficializzata, al massimo livello, la lettura che la Russia fa del conflitto, ovvero una guerra dell’occidente collettivo, finalizzata a smembrare la nazione russa. Ciò significa che Mosca si considera a tutti gli effetti ufficialmente in guerra con la NATO, cosa che sinora aveva evitato di fare.

Cosa comporteranno, questi nuovi elementi?
Fondamentalmente, è difficile che si possano riscontrare effetti visibili a breve termine. I 300mila riservisti, tra tempi di mobilitazione, riaddestramento e dislocazione, non potranno essere effettivi prima di novembre. Gli ucraini, per quanto abbiano sofferto forti perdite nelle due offensive – quella fallita su Kherson, quella riuscita su Izyum – sono ancora in grado mettere in campo altre iniziative e a breve dovrebbero rientrare i circa 10.000 uomini in addestramento in UK. Inoltre, è certo che cercheranno in ogni modo di interferire con i referendum ed è quindi prevedibile un incremento dei bombardamenti su obiettivi civili nei territori liberati. Dal canto suo, la Russia ha la necessità assoluta di difendere la celebrazione dei referendum e, più in generale, la popolazione russa; poiché al momento è impensabile una qualche offensiva significativa, è probabile che assisteremo ad un notevole intensificarsi dei bombardamenti – di artiglieria, aerei e missilistici – sulle aree prospicienti i confini dei territori liberati, da cui abitualmente colpiscono gli ucraini.

Ormai sta comunque arrivando il generale inverno.

La questione vera, quindi, è capire come reagirà concretamente la NATO, ed in particolar modo i paesi europei. Un rallentamento meteorologico delle operazioni potrebbe contribuire a raffreddare la situazione.

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