I funerali Carmelo Scalone a Messina nel 2016

Nell’estate del 1993, a seguito delle centinaia di telefonate a nome Falange Armata pervenute presso le sedi dell’Ansa, dell’Adnkronos e di altre svariate testate giornalistiche, il procuratore romano Pietro Paolo Saviotti apre un procedimento contro ignoti con le accuse di minaccia contro lo Stato, eversione dell’ordine democratico e turbativa istituzionale. Nell’arco di poche settimane, a seguito di un meticoloso lavoro di scrematura delle chiamate ritenute attendibili, analisi del contenuto e comparazione della voce dei telefonisti svolto dagli inquirenti con il supporto dei militari del Ros, Saviotti e i suoi collaboratori sciolgono le riserve in merito all’opzione – proposta dall’allora maggiore del Carabinieri Massimo Giraudo – di mettere sotto controllo le linee telefoniche delle sedi giornalistiche verso cui era pervenuto il maggior numero di chiamate della Falange Armata, in quanto ritenuta l’unica via percorribile per risalire all’identità degli individui che si celano dietro quella misteriosa sigla.

Il successivo 12 ottobre, una squadra di Carabinieri del Ros coadiuvata da alcuni tecnici della Sip intercetta una telefonata in entrata al centralino romano dell’Adnkronos attraverso cui una voce anonima pronuncia la solita pletora di minacce prima di interrompere la comunicazione con la classica rivendicazione Falange Armata. La telefonata, giudicata attendibile dagli inquirenti, rimanda a un’utenza privata situata nell’area periferica di Taormina riconducibile a Carmelo Scalone. Vale a dire lo stesso educatore carcerario in servizio presso il penitenziario di Messina che nel corso del triennio precedenza era stato preso di mira con maggiore sistematicità, di concerto con i colleghi Mormile di Opera (assassinato l’11 aprile del da sicari della ‘Ndrangheta dietro ordine del boss Domenico Papalia nell’ambito di un’operazione – la prima in assoluto – rivendicata dalla Falange Armata), Zottola di Porto Azzurro, Vacirca di Pavia e Grilli di Ancona, dalle minacce della Falange Armata.

Il riscontro induce il Gip ad autorizzare immediatamente l’intercettazione e l’ascolto delle chiamate effettuate e ricevute dal numero di telefono riconducibile a Scalone; nel giro di appena quattro giorni, dall’utenza sorvegliata dagli specialisti del Ros parte una telefonata diretta verso la stessa sede romana dell’Adnkrnos attraverso cui una voce dalla marcata inflessione tedesca dichiara che «Ritenendo definitivamente cessato il tempo dei preamboli, della preparazione, dell’avvicinamento, d’ora in poi ogni iniziativa, ogni azione della Falange Armata sarà dettata dal proposito di colpire il cuore di questo Stato putrescente, le sue istituzioni e rappresentanti, in primo luogo i suoi uomini, i suoi simboli, le sue cose. 201871 è il codice identificativo». Nell’arco di pochi minuti, il messaggio perviene negli stessi, identici termini alla sede fiorentina dell’Ansa attraverso una telefonata effettuata dalla medesima utenza telefonica, dalla quale partono nel corso della settimana successiva altre tre chiamate “falangiste”. L’ultima, risalente alle 15.25 del 23 ottobre, raggiunge la sede veneziana dell’Ansa e contiene sia la rivendicazione dell’attentato al Palazzo di Giustizia di Padova, sia l’annuncio relativo alla nascita di un gruppo d’azione clandestino denominato Cellule Falangiste Combattenti.

Due giorni dopo, il maresciallo del Ros Massimo Broccolucci arresta Carmelo Scalone presso la sua abitazione di Taormina dietro mandato di cattura spiccato dal procuratore Saviotti. L’operatore carcerario, inchiodato dalle intercettazioni del Ros, si dichiara fin da subito completamente estraneo alle accuse mossegli contro sulla scorta di prove apparentemente schiaccianti, proclamandosi come la vittima innocente di un gigantesco raggiro. Nei sei mesi di custodia cautelare cui Scalone è sottoposto, i comunicati della Falange Armata continuano a pervenire presso le redazioni giornalistiche più in vista. Il processo arriva in aula nei primi mesi del 1996 e il successivo 2 maggio il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, destinatario di reiterate minacce rivendicate dalla Falange Armata, si costituisce parte civile nei confronti dell’operatore carcerario, unico imputato. Nel corso del dibattimento, in cui si registrano le deposizioni – tra gli altri – dell’ex direttore del Dap Nicolò Amato, dell’ambasciatore ed ex direttore del Cesis Franceso Paolo Fulci e dell’ex membro della procura di Milano Antonio Di Pietro, i tecnici nominati dal tribunale sviscerano i contenuti di una perizia fonica da cui emerge che «la voce di ben sei telefonate di rivendicazione della Falange Armata si identifica con quella del saggio fonico rilasciato dallo Scalone in sede di incidente probatorio». Dal canto suo, Scalone ribadisce la propria innocenza e denuncia di aver ricevuto alcune telefonate di minaccia rivendicate dalla Falange Armata proprio nei giorni in cui la sua utenza era intercettata dagli specialisti del Ros, nonostante dai tabulati acquisiti dal tribunale non emerga alcun elemento a supporto di questa tesi.

Nel marzo 1999, a tre anni di distanza dall’inizio del processo e a quasi sei dal suo arresto, Scalone subisce una condanna di primo grado a tre anni di reclusione. Nelle motivazioni, la Corte rileva che «Lo Scalone non ha agito come singolo, ma in virtù del suo stabile inserimento nell’organizzazione Falange Armata. La costante e massiccia azione intimidatoria portata avanti con i comunicati a sigla Falange Armata non poteva che essere finalizzata a condizionare le scelte e la stessa operatività degli apparati istituzionali […]. L’indagine comparativa consente di individuare una matrice ispiratrice e operativa comune ne consegue necessariamente l’esistenza di una organizzazione finalizzata a destabilizzare l’assetto politico istituzionale del Paese […]. Le minacce sono finalizzate a indurre i destinatari al compimento in concreto di atti contrari a quelli in quel momento posti, ovvero a istigarli a comportamenti omissivi […]. La sistematica attività di disinformazione, di rivendicazione di attentati, di minacce rivolte sia ai singoli che agli organi istituzionali era inequivocabilmente diretta alla destabilizzazione del Paese e al sovvertimento delle sue prerogative democratiche e costituzionali».

Un esito scontato, non fosse per la specifica linea di difesa tremendamente controproducente sposata Scalone sin dal giorno del suo arresto, che continuando a proclamare la propria estraneità ai fatti contestatigli attirò su di sé un enorme clamore mediatico – “Il falangista a spese dello Stato”, titolò il «Corriere della Sera» del 27 ottobre del 1993 – destinato inesorabilmente a incidere in profondità sulla definizione del verdetto finale. A evidenziarlo già nell’ottobre del 1995 era stato lo stesso procuratore Saviotti, che dinnanzi alla Commissione Parlamentare Stragi aveva dichiarato di essere «ancora scottato dall’esperienza vissuta con l’arresto di Carmelo Scalone. Scalone aveva una soluzione a portata di mano, immediata: confessarsi colpevole e proclamare che la sua attività era dovuta esclusivamente a intento autocelebrativo, di autocommiserazione rispetto all’amministrazione pubblica o a chi gli doveva dargli riconoscimenti, scorte o comunque collegare questa sua attività a un momento di delirio. In realtà Scalone ha optato per la linea difensiva più difficile da sostenere, quella secondo cui quelle telefonate non le avrebbe fatte lui; evidentemente qualcuno avrebbe avuto interesse a far risultare sul suo telefono quelle telefonate, quasi quasi accreditando l’ipotesi di un progetto clandestino o comunque con reconditi significati. Ripeto: con una confessione se la sarebbe cavata forse con una semplice contravvenzione e non avrebbe sofferto mesi di carcerazione. Carmelo Scalone è rimasto sotto il profilo investigativo per me una sconfitta, anche se mi ha consentito di arricchire l’analisi di alcuni elementi».

Anche sulla scorta dei rilievi mossi da Saviotti, Fiamma Cremisi e Francesco Greco, legali di Scalone, presentano immediato ricorso. Il processo d’Appello, celebrato a partire dai primi mesi del 2000, si apre con un approfondito riesame del materiale probatorio raccolto dal Ros e rivelatosi determinante rispetto alla formulazione della sentenza di primo grado. La perizia effettuata da una squadra di lavoro coordinata dallo specialista di comunicazione Bruno Pellero approda a conclusioni a dir poco sconvolgenti, che lo stesso tecnico avrebbe successivamente riassunto nei seguenti termini: «Noi tornammo ad analizzare con pazienza le telefonate di Scalone, cercando di decifrare quello che era accaduto ai due lati del filo: dal lato del ricevente, ma soprattutto da quello del chiamante. Bisogna tener presente un elemento: all’epoca delle telefonate l’operatore sul mercato era soltanto uno, la Sip. Tutti i controlli e i “blocchi” sulle telefonate erano affidati – sulla fiducia – ai tecnici della Sip, che era un’azienda pubblica. Un dato ci colpì: sulle bollette del numero chiamante non risultava alcuna telefonata effettuata dall’utenza di Scalone ai centralini dell’Adnkronos o di altri soggetti destinatari delle minacce della Falange Armata. E allora ci chiedemmo: come era potuta partire quella chiamata? E come mai non era possibile rintracciare da dove era partita? Noi vedevamo quella telefonata, che risultava dal numero dell’utenza di Scalone, ma quella chiamata non risultava dai suoi tabulati. Allo stesso tempo, non ci fu possibile rintracciare – perché i sistemi dell’epoca non lo consentivano – chi avesse potuto intromettersi nel circuito, a che punto e da quale posizione. Chi nel 1993 utilizzò questi meccanismi di interconnessione aveva a disposizione sistemi molto avanzati, certamente di grande raffinatezza. Parliamo di linee, di apparati tecnologici, di strumenti tecnici che per l’epoca erano decisamente all’avanguardia». Anche la perizia fonica che aveva identificato la voce di Scalone con quella dell’autore di almeno sei telefonate rivendicate dalla Falange Armata viene completamente smontata durante il processo d’Appello, poiché dalle comparazioni effettuate con le più moderne tecnologie disponibili emerge la totale assenza di elementi che permettano di giungere con sufficiente grado di certezza a questo genere di conclusione.

Nel novembre del 2001, il tribunale d’Appello assolve Carmelo Scalone per non aver commesso il fatto. Nel luglio dell’anno successivo, la Cassazione scagiona definitivamente l’ex educatore carcerario ormai sessantacinquenne riconoscendogli – due anni dopo – 35.000 euro di risarcimento per aver subito quell’indicibile calvario protrattosi per ben 13 anni. Nell’apprendere la decisione della Suprema Corte, Scalone dichiara amaramente che «Della mia esistenza e della mia salute è stato letteralmente fatto scempio. È stato sconvolto e distrutto il normale corso della mia vita familiare, senza parlare del mio lavoro e del mio onore. Il tutto, ed è la cosa che mi rattrista di più, nel silenzio e nell’indifferenza generale. Io sono abbandonato da tutti, marchiato a vita, vivo da anni in uno stato di completa solitudine. Quando fui arrestato ci furono titoloni sui giornali, tutti si occupavano di me. Dopo la mia assoluzione, neanche un trafiletto».

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