LA TURCHIA, TRA ERDOĞAN E GÜLEN

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Per la Turchia, l’ascesa al potere di Recep Tayyp Erdoğan e di Adalet ve Kalkınma Partisi (Akp), partito islamico in cui erano confluiti sia gli esponenti del Millî Görüş (in cui militava l’ex premier Necmettin Erbakan) che i sostenitori filo-clericali dell’ex presidente kurdo Turgut Özal (che presenta molti punti di contatto con la Fratellanza Musulmana), ha indubbiamente rappresentato uno spartiacque epocale. Sotto la guida del suo fedele ministro degli Esteri, il professor Ahmet Davutoğlu, Erdoğan applicò fin dai primi giorni del suo mandato un’ambiziosissima dottrina geopolitica imperniata sul concetto di “profondità strategica”, orientata a consolidare l’influenza turca in gran parte del pianeta seguendo le direttrici “panturca” e “panislamica”.

Per la Turchia, l’ascesa al potere di Recep Tayyp Erdoğan e di Adalet ve Kalkınma Partisi (Akp), partito islamico in cui erano confluiti sia gli esponenti del Millî Görüş (in cui militava l’ex premier Necmettin Erbakan) che i sostenitori filo-clericali dell’ex presidente kurdo Turgut Özal (che presenta molti punti di contatto con la Fratellanza Musulmana), ha indubbiamente rappresentato uno spartiacque epocale.

Sotto la guida del suo fedele ministro degli Esteri, il professor Ahmet Davutoğlu, Erdoğan applicò fin dai primi giorni del suo mandato un’ambiziosissima dottrina geopolitica imperniata sul concetto di “profondità strategica”, orientata a consolidare l’influenza turca in gran parte del pianeta seguendo le direttrici “panturca” e “panislamica”. Negli anni ’90, Ankara aveva già messo in pratica questo concetto in occasione della guerra civile jugoslava, appoggiando l’afflusso e il successivo insediamento nei Balcani dei mujaheddin provenienti da tutto l’arco islamico, al fine di ingrossare le già cospicue comunità musulmane locali convertitesi all’Islam durante l’occupazione ottomana e rinforzare il fronte anti-serbo guidato da personaggi come Naser Orić e Zulfo Tursunović. Nacque così la cosiddetta “dorsale verde”, l’invisibile filo rosso islamico che ricalca la direttrice di penetrazione ottomana in Europa, collegando la Turchia alla Bosnia attraverso Bulgaria, Albania, Macedonia e Kosovo. Secondo Davutoğlu, tuttavia, la “profondità strategica” turca avrebbe sprigionato il suo potenziale unicamente in un clima di pacifica convivenza con il vicinato (“zero problemi coi vicini”) in grado di creare le condizione adatte ad intensificare i rapporti politici, economici e culturali della Turchia con tutte le nazioni limitrofe. Davutoğlu riteneva che il pieno dispiegamento delle potenzialità nazionali fosse limitato dai vincoli di fedeltà all’Alleanza Atlantica che durante la Guerra Fredda avevano assegnato alla Turchia un ruolo determinate nel contenimento dell’espansione sovietica verso il Vicino Oriente.

La caduta dell’Unione Sovietica ha fatto venir meno questa condizione vincolante, permettendo al Paese di emergere come reale, autentico “attore geostrategico” chiamato a stilare una agenda operativa autonoma rispetto a quella dettata dalla Nato. Secondo le convinzioni di Davutoğlu, la Turchia non dovrebbe infatti operare come testa di ponte delle potenze occidentali, bensì adottare un approccio multilaterale imperniato sul soft power, costituito proprio dalle leve etnica e confessionale. Per attuare efficacemente questa strategia, Erdoğan e Davutoğlu hanno promosso un processo di islamizzazione della società che ha goduto del sostegno del potente Fetullah Gülen, teologo-predicatore emigrato negli Stati Uniti da Erzurum per sfuggire all’arresto che sarebbe quasi sicuramente avvenuto in seguito al colpo di Stato dell’esercito del 1997. Dal suo esilio in Pennsylvania, Gülen è pian piano riuscito ad ottenere una notorietà tale da permettergli di esercitare una forte influenza su Ankara, grazie all’organizzazione Hizmet (“servizio”), la quale è stata capace di inaugurare oltre 130 scuole private in 25 differenti Stati americani in seguito ad un accordo con le autorità locali fortemente appoggiato dalla Cia (grazie alla mediazione di Graham Fuller, attivatosi per fornire a Gülen il visto permanente), che si era impegnata a garantire un sostanzioso contributo al finanziamento degli istituti con denaro pubblico.

Hizmet, attiva anche in Germania e in un centinaio di altri Paesi, propugna una versione rivisitata di Islam compatibile con i principi liberal-capitalistici che dominano in Occidente, in conformità alla visione mistica dell’ideologo e fondatore della setta Nurcu Said Nursi. Particolarmente ricettive alla predicazione islamica a forte vocazione individualista di Gülen si rivelarono fin da subito le cosiddette “tigri dell’Anatolia”, vale a dire gli ambiziosi imprenditori appartenenti a quella classe media musulmana e tradizionalista che era stata relegata alla semi-insignificanza dai kemalisti. Promuovendo l’ascesa di questa rampante classe sociale, Gülen è riuscito a creare un vero e proprio impero imprenditoriale, a cui sono riconducibili il colosso dei media Zaman, colosso dei media, il gigante della finanza islamica Bank Asya e decine di altre compagnie di spicco, a partire dalla Tusko. Secondo alcune stime, l’organizzazione creata da Gülen è arrivata a gestire un volume d’affari pari a circa 25 miliardi di dollari, e a sviluppare ramificazioni che si estendono in tutta l’area turanica. Sospettata di godere del supporto di una parte consistente degli apparati di intelligence Usa, Hizmet è stata bandita da tutti i Paesi aderenti alla Comunità degli Stati Indipendenti nel 2006. Anche se Erdoğan non è mai stato un “seguace” di Gülen, il comune retroterra religioso-culturale e la volontà condivisa di arginare lo strapotere dei kemalisti hanno cementato per anni l’alleanza strategica tra le due rispettive fazioni che ha permesso, tra le altre cose, di imprimere una forte coloritura musulmana alla Costituzione, alle misure ordinarie (restrizioni sugli alcoolici, ad esempio) e alle decisioni internazionali.

La contrarietà a questa linea politica da parte di esercito e Corte Costituzionale, storici garanti della laicità imposta dal “padre della patria” Mustafà Kemal Atatürk e attaccata dagli Stati Uniti una volta sgretolatasi l’Unione Sovietica, è alla base del fallito colpo di Stato del febbraio 2010, che portò all’arresto del generale Engin Alan, del Capo di Stato Maggiore dell’esercito Ergin Saygun, del suo predecessore Iker Başbuğ, del Capo di Stato Maggiore dell’aeronautica İbrahim Firtina e del Capo di Stato Maggiore della marina Özden Örnek. Tutti gli alti ufficiali in questione erano connessi alla potente ed oscura setta kemalista e nazionalista Ergenekon, l’organizzazione dotata di solidi agganci con gli apparati militari e di intelligence turchi legati alla Nato, in cui erano state escogitate le operazioni Hammer e Cage. In Turchia, la rete stay-behind, nota come Controguerriglia, era composta per lo più da giovani appartenenti al Bozkurtlar (“Lupi Grigi”), il braccio armato del partito di ispirazione pan-turca e neofascista Millyetçi Hareket Partisi (Mhp, Partito di Azione Nazionale). Sotto la guida di Alparslan Türkeş, colonnello dell’esercito formatosi negli Usa nonché fondatore del partito, i Lupi Grigi hanno operato fin dagli anni ’50 all’ombra degli apparati anti-comunisti sorti nel Paese nell’ambito della Nato e sotto impulso della Cia, che forniva equipaggiamento, finanziamenti e addestramento presso la School of the Americas di Panama, poi trasferita a Fort Benning (in Georgia). A partire dagli anni ’60, quando fu fondato il Dipartimento Speciale per la Guerra incaricato di gestire le operazioni segrete all’interno del Paese, questo movimento si trasformò nella forza d’urto che il Milli İstihbaarat Teşkilati (Mit, il potentissimo servizio segreto turco) ha sistematicamente sfruttato per reprimere i movimenti socialisti e progressisti, condurre operazioni segrete contro i kurdi e favorire l’espulsione della popolazione greca di Cipro attraverso veri e propri atti di terrorismo. Nei terribili anni che fecero seguito al golpe del 1971, Controguerriglia, il Mit e i Lupi Grigi perpetrarono infatti, con il consenso e la copertura dei militari, della magistratura militare e dei partiti di destra come l’Mhp Di Türkes, una serie di azioni estremamente violente contro i movimenti di sinistra e qualsiasi entità giudicata pericolosa per la tenuta dello status quo che contribuì a far piobare il Paese nel caos. Uno degli episodi più sanguinosi si verificò nel 1977, quando cecchini dei Lupi Grigi e di Controguerriglia appostati in un’hotel di proprietà della multinazionale statunitense International Telephone & Telegraph (Itt, in ottimi rapporti con la Cia e fortemente coinvolta nel golpe in Cile contro Salvador Allende di quattro anni prima) aprirono il fuoco sulla folla riunita in piazza Taksim per festeggiare il 1° maggio assieme alle principali organizzazioni sindacali. La magistratura militare bloccò come da copione le iniziative della giustizia civile impedendole di far luce sull’accaduto. L’ex premier turco Bülent Ecevit era tuttavia certo che dietro alla strage vi fosse un’organizzazione paramilitare che veniva manovrata dal Mit, ed informò della cosa il presidente Fahri Korutürk e il primo ministro Süleyman Demirel, che lasciarono prevedibilmente cadere le sue segnalazioni nel vuoto. Decise allora di rivolgersi al procuratore di Ankara Doğan Öz, il quale avviò un’indagine che gli permise di accertare che il Mhp del colonnello Türkes, la rete Controguerriglia, i Lupi Grigi e il Dipartimento Speciale per la Guerra erano strettamente legati all’ondata di terrorismo che aveva investito il Paese a partire dai primi anni ’70. Il 24 marzo del 1978, Öz fu assassinato da İbrahim Çiftçi, un membro dei Lupi Grigi arrestato e rapidamente rilasciato dopo che la magistratura militare ebbe annullato la sentenza di condanna pendente sul suo capo comminata da un tribunale civile. L’editore Abdi İpekçi e il giornalista investigativo Uğur Mumcu, colpevoli di aver fatto luce sui legami tra tali apparati e il terrorismo, incorsero nello stesso destino.

Ecevit, che nel frattempo era assurto alla carica di primo ministro, non si diede per vinto ma commise l’errore di comunicare le sue preoccupazioni per la sempre più evidente connivenza tra il Mit, il Dipartimento Speciale per la Guerra e l’organizzazione paramilitare dei Lupi Grigi al Capo di Stato Maggiore Kenan Evren, che all’epoca dirigeva segretamente sia Controguerriglia che lo stesso Dipartimento. Dopo aver assicurato al premier che ci avrebbero pensato i militari a tenere sotto controllo i gruppi estremisti che miravano a attuare una svolta autoritaria all’interno del Paese, Evren prese il potere con un colpo di Stato proprio mentre in Turchia stava tenendosi l’esercitazione militare Anviel Express, a cui partecipavano le forze mobili di svariati Paesi membri della Nato. Come d’incanto, «quando Evren si cambiò d’abito e passò dalla divisa militare agli abiti borghesi diventando presidente della Turchia, miracolosamente tutti gli attacchi terroristici si fermarono di colpo»1.

Prima di mettere in atto il golpe, Evrein e i congiurati misero la Cia al corrente delle proprie intenzioni. Sia in occasione del putsch del 1971 che in quello del 1980 l’aeronautica militare turca, considerata unanimemene la componente più reazionaria delle forze armate, aveva infatti inviato preliminarmente a Washington un proprio rappresentante per saggiare la reazione degli Usa, che in entrambi i casi fornirono ai golpisti l’autorizzazione a procedere – come del resto l’avevano accordata al Piano Prometeo organizzato dai militari greci nel 1967. Paul Henze, capostazione della Cia in Turchia, è stato indicato dall’esperto di guerre segrete Selahattin Çelik come «l’architetto principale del colpo di Stato del 12 settembre 1980»2. Secondo il presidente Jimmy Carter e il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Zbigniew Brzezinski, l’insediamento di un governo miliare ad Ankara rappresentava la soluzione migliore, visto che proprio in quella fase la Turchia rischiava di subire l’onda lunga destabilizzante che si irradiava dall’Iran rivoluzionario e dell’Afghanistan invaso dai sovietici.

È stato stimato che nel 1980 vi fossero in Turchia circa 1.700 sezioni dei Lupi Grigi che annoveravano quasi 200.000 iscritti ed oltre un milione di simpatizzanti. Una formidabile formazione paramilitare che aveva fornito un contributo essenziale alla strategia della tensione preparatoria al golpe e che intratteneva con i servizi segreti, a loro volta diffusi in tutti i livelli della società turca, un rapporto di strettissima collaborazione. Assieme al Mit, alle forze armate e alla magistratura militare, i Lupi Grigi avevano formato un governo parallelo indistricabilmente legato a quello ufficiale, in grado di tirare i fili della democrazia turca e determinare gli orientamenti politici del Paese. Per definire questo oscuro apparato di potere è stata coniata l’espressione “Stato profondo” (derin devlet), che salì alla ribalta nel novembre del 1996, quando, presso la città di Susurluk, si verificò un terribile incidente stradale che costò la vita a diverse personalità di alto livello delle istituzioni e della criminalità organizzata locale. All’interno di un’auto coinvolta nello scontro si trovavano infatti Abdullah Çatlı, sicario, narcotrafficante e leader dei Lupi Grigi che all’epoca era ricercato per omicidio; Hüseyin Kocadag, ex vicedirettore della polizia di Istanbul; Sedat Bucak, membro del Parlamento per il partito Dyp; Gonca Us, fidanzata di Çatlı riciclatasi in assassina su commissione. In seguito ad alcune indagini emerse che tutti i passeggeri dell’auto erano coinvolti in un traffico di stupefacenti con l’Europa, rispetto al quale non era forse estranea nemmeno l’allora presidente Tansu Çiller. Come ha scritto il presidente dell’Istituto kurdo di Parigi Kendal Nezan: «da allora, per i turchi, Susurluk è divenuto sinonimo della deriva in senso mafioso dello Stato»3. L’incidente di Susurluk manifestò l’esistenza di un apparato di potere segreto di cui facevano parte i servizi segreti e le strutture paramilitari connesse all’Alleanza Atlantica, come la locale rete stay-behind ed Ergenekon.

Dalle indagini condotte su quest’ultima organizzazione, che sono emersi indizi che suggerivano il coinvolgimento di giornalisti, generali in pensione, ammiragli in servizio e ufficiali di vario grado intenti a pianificare attentati a moschee e monumenti in Turchia e persino l’abbattimento di aerei civili allo scopo di destabilizzare il Paese creando le condizioni ideali per attuare un putsch militare. Come spiega il quotidiano turco «Today’s Zaman», «l’Operazione Cage fu portata alla luce durante un’irruzione della polizia nell’ufficio del maggiore in pensione Levent Bektaş nell’ambito di un’indagine avviata dopo la scoperta – risalente all’aprile dell’anno scorso – di un grosso deposito di armi nel distretto di Poyrazkoy, ad Istanbul, nella cornice dell’inchiesta su Ergenekon. Il piano d’azione prevedeva l’intimidazione dei non musulmani della Turchia e l’assassinio di figure di spicco non musulmane del Paese per suscitare una pressione interna e internazionale contro il partito Akp al governo, che avrebbe causato al partito una perdita di consensi  all’interno dell’opinione pubblica. L’Operazione Hammer è stata scoperta a gennaio. Il complotto comprendeva oscuri piani, come attentati nelle moschee più frequentate di Istanbul, così da diffondere il caos nel Paese e preparare il terreno per una presa del potere da parte dell’esercito»4.

È probabile che Ergenekon costituisca il nucleo operativo in cui è stata congegnata la lunga catena di colpi di Stato che per decenni ha indirizzato la politica turca. Per sradicare questa minaccia, Erdoğan ha adottato una prassi autoritaria, che ha comportato un’ondata di arresti indiscriminati, spesso in assenza di prove o sulla base di semplici sospetti.

L’accentramento del potere nelle mani di Erdoğan, il deterioramento dei rapporti con Israele, la deriva autoritaria della Turchia sotto la direzione del partito Akp, la gestione della questione kurda e la politica estera autonoma condotta dall’esecutivo turco hanno raffreddato notevolmente il “marimonio di interessi” tra il governo e Hizmet, trasformatosi rapidamente in rapporto conflittuale per effetto dell’inconciliabilità tra l’autoritarismo di Erdoğan e il controllo tentacolare che la “piovra” gulenista, appoggiata dagli Usa, stava esercitando in seno a imprenditoria, media e corpi istituzionali come polizia e magistratura. La strategia prediletta dai gülenisti mira a proiettare l’influenza turca innanzitutto verso l’Asia centrale, fedelmente all’idiosincrasia nei confronti del mondo arabo, mantenendo salda la “relazione speciale” con Israele, di cui il predicatore esule in Pennsylvania  aveva ripetutamente cercato di ergersi a garante. Il carattere “ottomano” e universalista del nazionalismo islamico propugnato dall’Akp tende invece ad individuare nel mondo arabo la “profondità strategica” naturale della Turchia. Senza contare che se Gülen intende promuovere una riforma radicale del modello repubblicano ideato da Atatürk, Erdoğan ambisce invece a lasciarne in vigore i tratti autoritari nel quadro di un sistema istituzionale islamizzato e di tipo presidenziale. Lo scontro tra Erdoğan e Gülen va quindi ben oltre la storica rivalità tra la setta Naksibendi, facente capo a Mehmet Zahid Kotku, e la confraternita dei Nurcu, riconducibile a Said Nusri. Alla base vi sono divergenze politiche, economiche e strategiche di primissimo piano.

1.Cfr. Ganser, Daniele, Gli eserciti segreti della Nato. Operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale, Fazi, Roma 2005, p. 281

2.Ibidem.

3.Nezan, Kendal, Turkey’s pivotal role in the International drug trade, «Le Monde Diplomatique», 28 agosto 1998.

4.Cfr. Zibak, Fatma Disli, More sledgehammer arresta s ex-force commanders grilled, «Today’s Zaman», 26 febbraio 2010.

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