LA GUERRA E L’ODIO CHE ACCECA

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Nel 1914 tutti i popoli combattenti si trovarono in uno stato di sovreccitazione: la diceria più stolta si trasformava subito in realtà, la più assurda calunnia veniva creduta. A dozzine c’erano persone in Germania pronte a giurare di aver visto coi loro occhi le automobili cariche d’oro recarsi dalla Francia in Russi

“Nel 1914 tutti i popoli combattenti si trovarono in uno stato di sovreccitazione: la diceria più stolta si trasformava subito in realtà, la più assurda calunnia veniva creduta. A dozzine c’erano persone in Germania pronte a giurare di aver visto coi loro occhi le automobili cariche d’oro recarsi dalla Francia in Russia; le fiabe degli occhi cavati e delle mani mozzate, che affiorano in ogni guerra sin dal secondo o dal terzo giorno, riempivano i giornali. Non sapevano quegli ingenui che la tecnica di attribuire al soldato nemico ogni possibile crudeltà fa parte del materiale di guerra quanto i proiettili e gli aeroplani, e che essa viene cavata dai magazzini regolarmente al principio di ogni conflitto. La guerra non può essere messa d’accordo con la ragione e con il senso di giustizia; essa esige entusiasmo cieco per la propria causa e odio contro l’avversario. Ma è proprio della natura umana che i sentimenti acuti non si possano prolungare all’infinito, né nell’individuo, né in un popolo, e ciò è ben noto ad ogni organizzazione militare. Questa perciò ha bisogno di un assillo artificiale e simile compito d’incitamento dev’essere assolto – con buona o con cattiva coscienza, per convinzione o per abilità di mestiere – dagli intellettuali, dai poeti, dagli scrittori, dai giornalisti. Essi dovevano battere il tamburo dell’odio e lo fecero con la massima energia, sino a quando ogni persona ancor ragionevole ne ebbe le orecchie ed il cuore dolenti. Quasi tutti in Germania, in Francia, in Italia, nel Belgio ed in Russia, obbedirono alla propaganda di guerra e con ciò alla follia ed all’odio collettivo della guerra, invece di insorgere a combatterli. Le conseguenze furono disastrose. Allora la propaganda non si era ancora logorata per uso di pace ed i popoli, malgrado le molte delusioni, ritenevano ancora vera ogni cosa stampata. Così l’entusiasmo delle prime giornate puro e bello, pieno di spirito di sacrificio, si trasformò in un’orgia dei sentimenti più stolti e più bassi. Si combatteva contro l’Inghilterra e contro la Francia sul Ring di Vienna o nella Friedrichstrasse di Berlino, il che era decisamente più comodo. Dovettero sparire le diciture inglesi e francesi dai negozi, persino un monastero “Zu den Englischen Fräulein” fu costretto a mutar nome, perché il popolo faceva una falsa etimologia, non cioè dagli angeli, ma dagli anglosassoni. Bravi commercianti stampigliarono la corrispondenza col motto “Got straje England” (Dio punisca l’Inghilterra), dame di società proclamavano solennemente nei giornali che non avrebbero mai più detto una parola francese in vita loro. Shakespeare venne bandito dai teatri tedeschi, Mozart e Wagner da quelli francesi ed inglesi, i professori tedeschi affermarono che Dante era un puro germanico, quelli di Francia a loro volta che Beethoven era un belga: si cercava insomma impudentemente di requisire a proprio vantaggio dai paesi nemici i beni culturali, come si faceva per il grano od il metallo. Non bastava che giornalmente migliaia di cittadini di questi paesi si ammazzassero al fronte, bisognava anche dal fronte interno insozzare e vilipendere i grandi morti dell’avversario, che da secoli riposavano nelle loro tombe. Il perturbamento degli intelletti divenne sempre più assurdo. La cuoca che non aveva mai lasciato Vienna, né, dopo la scuola, aperto un atlante, proclamava l’impossibilità per l’Austria di esistere senza il “Sangiaccato”, una piccola terra oltre confine, situata chissà dove in Bosnia. I vetturini litigavano fra loro sull’entità dell’indennizzo da imporre alla Francia, se cinquanta o cento miliardi, nessuno di loro sapeva a quanto ammontasse un miliardo. Non vi fu né una città né un gruppo che riescisse a sottrarsi a quell’isterismo dell’odio. I preti predicavano dagli altari, ed i socialisti, che un mese prima avevan denunciato il militarismo come il peggiore delitto, facevano ora più chiasso degli altri per non esser ritenuti, secondo la parola di Guglielmo, “gentaglia senza patria”. Fu la guerra di una generazione ignara, ed appunto l’ancora intatta credulità dei popoli nella unilaterale giustizia della propria causa costituì il più grave pericolo. A poco a poco in quelle prime settimane di guerra del 1914 diventò impossibile scambiare una parola ragionevole con qualcuno. Anche i più pacifici e bonari erano presi dall’ebbrezza del sangue. Amici sempre conosciuti come decisi individualisti ed anzi come anarchici intellettuali, si erano di colpo trasformati in patriotti fanatici e poi anche in annessionisti insaziabili. Ogni conversazione si chiudeva con stolte frasi di questo genere: “Chi non sa odiare, non sa neppure veramente amare” od anche con volgari insinuazioni. Amici coi quali non avevo mai avuto dissensi, mi accusavano apertamente di non essere più austriaco e mi invitavano a passare in Francia o nel Belgio. Essi insinuavano persino che in realtà sarebbe stato dovere portare a conoscenza delle autorità superiori idee come quella che la guerra sia un delitto, giacché i “disfattisti” – la bella parola era stata allora inventata in Francia – erano i peggiori delinquenti contro la patria.

𝐍𝐨𝐧 𝐫𝐢𝐦𝐚𝐧𝐞𝐯𝐚 𝐜𝐡𝐞 𝐮𝐧𝐚 𝐯𝐢𝐚: 𝐭𝐫𝐚𝐫𝐬𝐢 𝐢𝐧 𝐝𝐢𝐬𝐩𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐞 𝐭𝐚𝐜𝐞𝐫𝐞 𝐬𝐢𝐧 𝐜𝐡𝐞 𝐠𝐥𝐢 𝐚𝐥𝐭𝐫𝐢 𝐞𝐫𝐚𝐧 𝐢𝐧 𝐩𝐫𝐞𝐝𝐚 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐟𝐞𝐛𝐛𝐫𝐞 𝐞𝐝 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐟𝐮𝐫𝐢𝐚. 𝐍𝐨𝐧 𝐟𝐮 𝐟𝐚𝐜𝐢𝐥𝐞. 𝐆𝐢𝐚𝐜𝐜𝐡𝐞́ 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐥’𝐞𝐬𝐢𝐥𝐢𝐨 – 𝐢𝐨 𝐥’𝐡𝐨 𝐩𝐨𝐭𝐮𝐭𝐨 𝐢𝐦𝐩𝐚𝐫𝐚𝐫𝐞 𝐚 𝐬𝐚𝐳𝐢𝐞𝐭𝐚̀ – 𝐧𝐨𝐧 𝐞̀ 𝐩𝐞𝐧𝐨𝐬𝐨 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐯𝐢𝐯𝐞𝐫𝐞 𝐬𝐨𝐥𝐢 𝐢𝐧 𝐩𝐚𝐭𝐫𝐢𝐚.” Stefan Zweig

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