LE BANCHE CENTRALI TRA TAPERING E GUERRA IN UCRAINA. QUALE FUTURO PER L’ITALIA?

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Come la guerra in Ucraina sta intralciando i piani delle banche centrali e la fine del QE. L’Europa, ma soprattutto l’Italia, rischia di pagare il conto più alto. L’analisi di Paolo Cardenà.

Siamo entrati nel 2022 con le attese che la robusta ripresa che ha caratterizzato l’anno precedente fosse proseguita sulla scia delle riaperture delle economie, seppure a ritmo più modesto di quanto osservato nel 2021. La pandemia, oltretutto, ci ha lasciato in eredità un ambiente caratterizzato da elevata inflazione come non ne vedevamo da diversi decenni.

La riapertura delle economie ha consentito ai consumatori di soddisfare i consumi mantenuti repressi durante le fasi più acute della pandemia, spendendo i cuscinetti di risparmio precauzionale accumulati anche per via dei sussidi ricevuti dai vari governi.

Questo ha determinato una forte domanda di beni non supportata adeguatamente dall’offerta, ancora compressa dallo scarso funzionamento delle catene produttive globali e dal blocco delle attività in alcuni paesi meno tolleranti nei confronti del Covid-19. Inoltre, la forte ripresa osservata in Occidente ha provocato un notevole aumento dei costi energetici, peraltro spinti anche dall’accelerazione della transizione energetica che ha sottratto investimenti ai settori delle energie fossili, attenuandone la capacità produttiva.

Tutto questo ha determinato l’aumento dei prezzi che, secondo molti analisti, si sarebbero gradualmente attenuati nei prossimi trimestri convergendo verso livelli più bassi.

In questo contesto le banche centrali, per contrastare l’inflazione, nel corso degli ultimi mesi, seppure con approcci e tempi differenti, hanno annunciato le strategie che seguiranno per uscire dalle politiche monetarie ultra-espansive adottate durante lo scoppio della pandemia. In questo senso, le banche centrali dei Paesi emergenti si sono già mosse restringendo la politica monetaria e sembrano essere state più tempestive rispetto a quelle dei Paesi sviluppati.

La Federal Reserve, già da novembre scorso, ha iniziato la graduale riduzione dell’acquisto di titoli (tapering) che si concluderà in questo mese, quando darà il via al primo aumento dei tassi. La Bce oggi ha fatto sapere che la fine del QE è prevista per il terzo trimestre 2022, mentre i futures sul mercato monetario suggeriscono che i tassi potrebbero aumentare di 40/50 bp entro fine anno. La Cina è in controtendenza rispetto alle altre banche centrali. Mentre nel 2021 le economie occidentali hanno accelerato nella ripresa, l’economia cinese, anche per via della crisi degli sviluppatori immobiliari, ha decelerato. Tant’è che la politica monetaria e fiscale intrapresa negli ultimi mesi dalle autorità cinesi si è fatta espansiva. Quanto affermato è ben visibile dall’impulso creditizio cinese e dai vari interventi della People’s Bank of China sul fronte dei tassi, nonché dall’allentamento della politica fiscale.

Tuttavia, lo scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina, i cui effetti sono tutt’altro che scontati, rischia di intralciare e complicare il percorso delle banche centrali. La guerra sta avendo un notevole impatto non solo sui prezzi energetici, ma anche su altre commodity industriali e agricole. L’aumento dei prezzi rende il quadro inflattivo ancor più complesso ed esteso nel tempo rispetto a quanto originariamente previsto da molti analisti, complicando il lavoro delle autorità monetarie. Ma vi è di più. Se le catene produttive dislocate in Asia hanno resistito alla guerra commerciale tra l’amministrazione USA e la Cina (2018/2019) e, poi, alla pandemia, non sono così sicuro che resisteranno al nuovo quadro geopolitico che si sta delineando come conseguenza della crisi in corso in Ucraina. La Russia sembra sempre più spinta nelle mani dei Cina che potrà guadagnare competitività (a discapito dell’Occidente) grazie al fatto che potrà rafforzare i rapporti commerciali con uno dei più grandi produttori al mondo di materie prime e prodotti energetici.

Se da un lato lo shock della guerra produce un rallentamento dell’economia, dall’altro accresce i timori di livelli di inflazione più elevati. Quindi le banche centrali si trovano nella condizione di dover aumentare i tassi per contrastare l’inflazione, e devono farlo mentre l’economia rallenta anche come conseguenza del rallentamento prodotto dalla guerra e dall’erosione del potere di acquisto dei consumatori per via dell’elevata inflazione. Ancor più complesso sembra essere il lavoro della BCE, dato che l’Europa appare l’area più vulnerabile allo shock indotto dalla guerra.

E questo per diverse ragioni. L’Europa, il conflitto lo ha praticamente in casa (mentre altre aree sono più isolate) e subisce una maggiore dipendenza energetica dalla Russia. Di conseguenza, l’impatto macroeconomico della crisi sarà maggiore in Europa rispetto ad altre aree. In questo quadro non aiuta nemmeno la fragilità dei vari Paesi mediterranei, con l’Italia che è il vero elefante nella stanza di cristallo. Negli ultimi 10 anni almeno, nonostante condizioni macroeconomiche estremante favorevoli (prezzo del petrolio contenuto, politiche monetarie espansive, forte domanda esterna), il nostro Paese ha conseguito modesti tassi di crescita, alternando periodi di bassa espansione a fasi di pronunciato rallentamento economico. Dato il quadro sopra delineato, si fa fatica a immaginare un lieto fine per l’Italia.

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