COME RECENSIRE “OCCHIALI NERI” DI DARIO ARGENTO SENZA AVERLO MAI VISTO (e non avere intenzione di farlo)

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Un film nato durante la Pandemia, di cui i Daft Punk dovevano curare la colonna sonora ma, pur di non, si sono separati. Un film per cui ringraziamo di non avere il green pass per andare al cinema.

In una foto la sintesi del binomio cinematografico tra Asia e suo padre Dario Argento

Se non ne aveste abbastanza del film dell’orrore quotidiano a cui ci hanno abituato i nostri amati mezzi di informazione, prossimamente ci si può torturare, anche al Cinema, guardandosi l’ultimo rantolo di Dario Argento. Almeno se avete voglia di impiccarvi, lo farete con la consapevolezza di aver fatto la cosa giusta.

La mamma mi diceva sempre di assaggiare prima di dire se una cosa mi piaceva o meno. Ma la mamma non aveva assistito al lento e straziante finale della carriera di Dario Argento. Quindi, mi perdonerà, ma con Occhiali Neri, il nuovo prodotto del fu maestro dell’horror, proprio non ce la faccio. Anche se è stato presentato al Festival di Berlino, anche se è il ritorno del regista dopo dieci anni (ci sarà stato un motivo). Anche se lo stanno pubblicizzando alle fermate degli autobus più della quarta dose ed è destinato a riscuotere lo stesso successo.

Non ho alcuna intenzione di vederlo. A dire il vero, non potrei nemmeno farlo perché non ho il grinpasse (e forse per questo devo ringraziare un altro maestro dell’orrore come robertino speranza), ma non lo guarderei nemmeno se fosse per far tornare Zelinsky a fare il comico in latex.

Questo è un consiglio spassionato per mantenere vivo il ricordo del vecchio Argento. Quello di Profondo Rosso, L’uccello dalle piume di cristallo e il Gatto a nove code. Quello prima del metadone, per intenderci. Come la pizia vi avverto: non guardatelo! Fidatevi! Evitatelo come se fosse il VHS di The Ring. Ho un amico vaccinato a Berlino che è andato alla prima e poi ha sofferto di una trombosi ad entrambi gli occhi. Per la bruttezza del film, sia chiaro.

Occhiali Neri era già marchiato a caldo con l’indelebile segno della stronzata intergalattica quando, nel 2020, Asia Argento ficcanasando (probabilmente strafatta) nella soffitta del padre, ha estratto questa sceneggiatura chiusa dentro un cassetto che se era lì ci sarà stato un motivo.

Il risultato di questa co-produzione della figlia risulterà ancora una volta una insuperabile minchiata. E, ripeto, lo dico senza averlo mai visto e non avere alcuna intenzione di.

Non solo perché gli ultimi novantotto film del maestro sono stati tutti (tutti) delle coliche renali. Non solo perché ancora una volta ci recita Asia, che ha la rara dote di far rivalutare come attore Alberto Tomba. Ma sicuramente non la povera Ilenia Pastorelli. Un binomio, quello col padre, oramai sinistramente simbolo di zenit di abiezione cinematografica, citato anche sul Mereghetti come “la famiglia monnezza del cinema”.

Non solo perché Dario dopo aver posto una lapide sulla sua carriera con l’osceno (ma, ahilui, non è un complimento) Dracula 3D si era ritirato e ci aveva promesso che sarebbe rimasto rintanato nel suo loculo fino a quando qualcuno non gli avesse trafitto il cuore con un paletto di frassino. Non solo perché è tornato per girare il solito film da Argento con il solito serial killer psicopatico da Argento di cui nessuno sentiva la mancanza (soprattutto quando gli psicopatici, oggi, sono tutto intorno a noi).

No. Vi dico di evitarlo come un hub vaccinale, perché sarà un film di paura floscio, perché sarà la solita brutta copia dei vecchi film buoni. Ciò che il povero Dario e la sua candida figlia non vogliono accettare è che i tabù che infrangevano (l’uno in pellicola e l’altra con la propria carriera post-it di attrice/celebrity), ora non sono più tali.

Il cinema di Dario Argento negli anni 80 ci impressionava per scene pop, fantasiosi ed estetizzanti omicidi, sangue a fiotti come quadri impressionisti, schizofrenia ed esoterismo spinto come a una riunione di famiglia dei Rothshild. Smascherava i tabù della società borghese italiana che era vittima dei propri retaggi culturali cattolici e delle proprie celate schizofrenie moderne.

Di quel piano di lettura, tipico anche degli horror di Pupi Avati, non è rimasto nulla.

Ciò che è rimasto sono sicuramente le scene splatter che negli anni ottanta terrorizzavano la Curia, ma che oggi sono quotidianamente e oscenamente superate dall’ultraviolenza (per dirla alla Kubrick) vigente nei nostri palinsesti. Dal sesso e dalla provocazione costante come intermezzo tra una pubblicità e un notiziario.

Siamo stati anestetizzati con emozioni vuote e bombardamenti di terrore. E, di conseguenza, sono cambiate le paure, perché esse mutano in relazione al quadro etico, storico e sociale a cui si rapportano. Siamo cambiati noi.

Mentre Dario da quarant’anni ha due tipi di trame. 1- quella col serial killer 2 – quella col sabba. Ma soprattutto soffre di un grande problema che attanaglia gli autori più noti. Una malattia genetica che colpisce le pellicole di molti vecchi registi. Quella di essere dei buchi neri col nome del regista intorno. Prodotti nati e sponsorizzati solo ed esclusivamente per spremere il nome Dario Argento come un limone, quando in realtà Dario Argento è già morto da un pezzo. Artisticamente parlando, eh.

Anche se dal colorito plumbeo che sfoggia solitamente, uno poi non è tanto sicuro che sia defunto solo artisticamente.

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