Tredici persone vaccinate con Moderna e seguite per meno di due mesi con qualche prelievo ogni tanto: è bastato questo per dare corpo all’ipotesi nostra e di vari altri ricercatori[1], secondo cui i vaccini a mRNA (e probabilmente anche quelli a DNA/vettore virale come AstraZeneca, J&J e Sputnik V) inducono una produzione di proteina spike virale in tutto l’organismo, in tempi e con livelli variabili da individuo a individuo.
Lo studio, pubblicato il 20 maggio scorso sulla rivista Clinical Infectious Diseases edita da Oxford Academic Press, riporta per la prima volta la presenza di proteina spike e in particolare della subunità S1, quella che si lega al recettore ACE2 sulle cellule della persona contagiata e che è alla base della reazione infiammatoria tipica del covid[2], nella circolazione sanguigna, con ampia variabilità interindividuale. Nella figura, inclusa nel materiale supplementare dell’articolo, si possono osservare:
- la S1 che compare subito dopo la prima dose (rosso);
- la spike intera, composta dalle due subunità S1 e S2 che in alcuni soggetti compare anche dopo la seconda dose (blu);
- nella parte bassa, la produzione anticorpale.
Questo piccolo studio fornisce evidenza a una nostra ipotesi: quanta più proteina spike viene prodotta, tanto più il sistema immunitario viene stimolato. Il che suggerisce anche, a sua volta, che il verificarsi e l’intensità degli effetti avversi dipenda dai livelli di proteina spike prodotta. Ci preme far osservare che questo avrebbe dovuto essere precisamente uno degli studi richiesti nella fase I della sperimentazione clinica. E, laddove non fossero stati effettuati spontaneamente dall’industria farmaceutica, di certo avrebbero dovuto essere richiesti dalle agenzie regolatorie. A parziale scusante, si potrà obiettare che forse in pochi si sono resi pienamente conto fin dall’inizio di avere a che fare non con un vaccino tradizionale, bensì con un farmaco che, come tale, avrebbe dovuto essere studiato. Ci si può, insomma, appellare all’intrinseca novità della tecnologia impiegata (mRNA) e, di conseguenza, alla scarsa esperienza con essa da parte dei regolatori e, forse anche, degli stessi ricercatori che l’hanno sviluppata. Resta il fatto, però, che questi nuovi risultati rendono oggi ineludibili ulteriori studi per capire le basi dell’enorme variabilità interindividuale (già evidente su appena tredici persone), nella prospettiva di controllare adeguatamente efficacia e sicurezza di questi prodotti.
Nell’ipotesi da noi formulata[3] è proprio a questa produzione variabile (per quantità, durata e, forse, anche per sede d’organi e tessuto) di proteina spike che potrebbe essere ricondotta la risposta altrettanto variabile dei soggetti ai prodotti a base di RNA/DNA in termini di efficacia e, soprattutto, di tollerabilità. Come già scrivevamo la scorsa settimana: