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Riflessioni su S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza

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Se volessimo semplificare la storia del capitalismo nel ventesimo secolo, potremmo cominciare col dire che la crisi del ’29, laddove non lasciò solo macerie, invitò a ripensare pregi e limiti della teoria classica. Esattamente un decennio dopo, decennio basso e disonesto per citare l’Auden della cinquantaduesima strada, l’indicibile odore della morte avrebbe offeso la notte del primo settembre: era lo scoppio della seconda guerra mondiale, la cui conclusione avrebbe spinto a scrivere un ulteriore capitolo di questa nostra storia. In nessuna parte del mondo il capitalismo tornò nella sua forma originaria. Karl Polanyi ha osservato a questo proposito l’esistenza di un doppio movimento: le operazioni di un mercato auto-regolante sono profondamente distruttive quando lasciate libere di correre senza leggi e politiche di contenimento e quindi finiscono per promuovere, affinché il mercato non collassi, proprio leggi e istituzioni che funzionino da mitigazione e moderazione degli eccessi. Spontaneamente ogni società europea si è perciò dotata di soluzioni per controllare tutte quelle arene contestate che vanno dai salari dei lavoratori, ai servizi pubblici, alla sicurezza sul luogo di lavoro. Lo stesso è avvenuto negli Stati Uniti, già durante la progressive era del primo Novecento, ma poi con il New Deal e infine con le varie riforme che vanno da Truman fino a Nixon. A ciò dobbiamo aggiungere la consapevolezza politica che un mondo pervaso da disuguaglianze troppo profonde è l’anticamera della guerra.

 

A questo proposito ha scritto un importante libro Wolfgang Streeck (Tempo guadagnato, 2013) che ben descrive il rapporto fra capitalismo e democrazia e come questo si è sviluppato nel corso dei decenni. Per sua stessa definizione, il capitalismo non è e non può essere democratico perché ha come suo obiettivo il profitto e non la giustizia sociale o l’equa distribuzione delle risorse. Quello che perciò è accaduto – sempre semplificando il discorso – è stato un processo di controllo o limitazione democratica del capitalismo nelle società occidentali, andato in crisi fra gli anni Settanta e Ottanta e infine disintegrato, più o meno completamente, nel 1989. L’anno cruciale, pietra tombale della stagione della guerra fredda (a questo proposito vale la pena leggere la provocatoria disamina di Sergio Romano, In lode della guerra fredda, 2015) con le sue immagini anche di liberazione, è stato il trionfo, sotto la categoria di questo binomio, del capitalismo e non della democrazia. Ogni strategia di raggiungimento del pieno impiego è stata abbandonata, il welfare è stato privatizzato, aziendalizzato o ridotto, l’economia si è finanziarizzata, le più feroci politiche liberiste sono state applicate nell’Europa orientale e in Sud America sotto lo supervisione del Washington Consensus o dei Chicago Boys, con costi sociali enormi. 

 
A distanza di trent’anni da quella data, la studiosa americana Shoshana Zuboff fornisce un ulteriore tassello per comprendere il capitalismo come sistema. Viene da correggere la definizione appena data, perché il libro di Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, è più che un semplice tassello o un mattone, ma la chiave di lettura dei nostri tempi e non temo di esagerare se sostengo che fra un secolo si darà a questo libro la stessa importanza storica che diamo al Capitale di Karl Marx. Queste righe sono infatti cominciate come percorso sul capitalismo nel ventesimo secolo, ma è al ventunesimo che è necessario guardare, pena rimanere imbrigliati in categorie che non rispecchiano più il sistema nel quale viviamo. Buona parte della produzione mediatica e, con una certa tristezza, anche di quella saggistica, continua infatti a ragionare sul capitalismo come se avesse di fronte un redivivo Henry Ford; la storiografia (quella americana in modo particolare) sembra invece avere lavorato con una maggiore consapevolezza sotto questo punto di vista, pur non tradotta per il pubblico generalista. Un’opera di questo genere è però necessaria, non tanto perché il libro di Zuboff è inaccessibile a un pubblico non particolarmente colto (non lo è), quanto perché è un volume di enorme peso: tanto per il numero delle pagine (oltre settecento), quanto per l’attenzione che le pagine ci chiedono per essere apprezzate fino in fondo.
 

Cos’è allora il capitalismo della sorveglianza? Citando direttamente il nostro libro: «il capitalismo della sorveglianza rivendica unilateralmente l’esperienza umana come materia prima gratuita da trasformare in dati comportamentali». Per questi dati si crea un mercato altamente competitivo in cui il prodotto più desiderato è quello che fornisce le previsioni più affidabili e, di conseguenza, quello che spinge i nostri comportamenti a uniformarsi a quelle previsioni. Le pressioni competitive hanno perciò prodotto un cambiamento: i processi dell’intelligenza artificiale non sono più indirizzati solo a conoscere il nostro comportamento, ma a dargli forma. Lo scopo non è più quello di automatizzare l’informazione su di noi, ma di automatizzare noi stessi. In questa fase di sviluppo del capitalismo, i mezzi di produzione diventano i mezzi di modificazione comportamentale. Per fare ciò, il capitalismo della sorveglianza si dota di quello che Zuboff chiama «instrumentarianism», una forma di potere che conosce e plasma il comportamento umano verso altri fini. Così come il capitalismo industriale (quello della catena di montaggio, per intenderci) per incrementare il proprio profitto era indirizzato alla continua evoluzione dei mezzi di produzione, il capitalismo della sorveglianza è orientato a una continua intensificazione dei mezzi di modificazione comportamentale. Nella sua struttura centrale, la moderna forma di capitalismo, è parassitica e autoreferenziale: invece che del lavoro si nutre di ogni aspetto dell’esperienza umana. Ciò che cerca non è perciò la produzione a basso costo e l’estrazione del massimo plusvalore possibile, ma fonti sempre più produttive di dati.

 
 
 

Una sezione del libro traccia un excursus storico del capitalismo della sorveglianza, dalla sua genesi a oggi. Allo stesso modo in cui leghiamo il capitalismo industriale alla catena di montaggio e quindi alla Ford, il capitalismo della sorveglianza deve essere legato al data mining e a Google. La genesi del sistema è infatti da rintracciarsi all’inizio del nuovo millennio, quando Google, spinta dai suoi investitori, ha capito che il modo migliore di monetizzare la sua attività era quella di fornire agli utenti delle pubblicità ricamate con dettaglio sulle loro ricerche. In quel momento comincia, con l’apporto di tecnologie di IA sempre più efficaci, il percorso egemonico del nuovo sistema: ogni azione di ogni azienda coinvolta (da Google a Microsoft, a Apple, a Facebook, ad Amazon) è volta da una parte a raggiungere nuove fonti di estrazione dei dati, dall’altra a spingere (to nudge, come è stato suggerito da Thaler e Sunstein) i nostri comportamenti verso situazioni maggiormente prevedibili. Quando parlate con un vostro vicino di casa della necessità di imbiancare la vostra camera da letto e, a un orario preciso e studiato, vi appare la pubblicità di un negozio di vernici, quello è il capitalismo della sorveglianza nella sua forma più semplice.

Esistono dei momenti di svolta nella storia economica. Nel Cinquecento la Spagna divenne la più grande potenza mondiale grazie alla scoperta delle miniere sudamericane di Potosì e Huancavelica che riempì le casse della Corona di argento (semplifichiamo anche qui: Carlo M. Cipolla ha dedicato un bellissimo libro, Conquistadores, pirati, mercatanti: la saga dell’argento spagnuolo, a mostrare quanto breve fosse la permanenza di quell’argento in quei forzieri). Nel primo decennio del Ventunesimo secolo, la miniera d’oro è stato l’internet 2.0. Bisogna a questo punto essere chiari: nelle sviluppate società occidentali, che si servono di una produzione – anche se delocalizzata – in gran parte automatizzata, il problema non è mai quello di produrre abbastanza, altrimenti i concessionari di automobili non cercherebbero in tutti i modi di rifiutare i pagamenti in contanti e non proporrebbero formule di leasing che permettono di cambiare veicolo ogni tre anni. Il profitto non sta nelle auto vendute, in nessun prodotto venduto, ma sempre nei dati estratti. L’evoluzione di internet, soprattutto attraverso gli smartphone ha permesso ai colossi del capitalismo della sorveglianza di espandere la loro capacità di osservazione e la loro pervasività. Il telefono è diventato il nostro principale intermediario per moltissime transazioni, il cinema viene sostituito dalle piattaforme digitali, lo sport è relegato in maniera massiccia alla televisione, i videogiochi sono la principale forma di intrattenimento, la vita sociale è mediata dalle app sia che si tratti di scegliere un ristorante che di conoscere un partner per un rapporto occasionale. Un noto opinionista televisivo da poco sosteneva che il “delivery” è il futuro della ristorazione, mostrando come questo fosse un’inevitabile e, anzi, auspicabile, passo avanti nella nostra società. Pensate invece cosa significa per un colosso del capitalismo della sorveglianza: prima non sapeva quando e dove andavia cena (certo, fino a quando non hai cominciato a cercare i ristoranti su TripAdvisor), né tanto meno cosa preferivi mangiare, in quali orari, con quali extra, in compagnia di quante persone. Ora sa tutto questo e più l’app di riferimento viene utilizzata, più quei dati diventano una tendenza; possono essere impacchettati e venduti e, infine, le proprie abitudini indirizzate o modificate.

Zuboff ci ammonisce però a non credere che si tratti del famoso adagio per cui “se il servizio è gratis, il prodotto sei tu”. I prodotti e i servizi del capitalismo della sorveglianza sono esche che attirano gli utenti verso le loro operazioni estrattive in cui le nostre esperienze personali sono lavorate per fini altrui. Noi non siamo i clienti e neppure i prodotti: noi siamo la fonte del surplus del nuovo sistema capitalistico, gli oggetti di un’operazione tecnologicamente avanzata e incrementalmente inevitabile di estrazione di materia prima. I veri clienti del capitalismo della sorveglianza sono quelle imprese che agiscono nel mercato dei comportamenti futuri. Internet è diventata una componente cruciale della nostra vita, dalla quale è impossibile fuggire, chiamandosene fuori, così come è stato impossibile fuggire dal capitalismo attraverso il luddismo. Internet è fondamentale non solo per operazioni banali, ma anche, e sempre più spesso, per accedere ai servizi. Il problema, come sempre, non è il mezzo in sé, ma il suo uso. Il sistema allo stato attuale si fonda infatti su una enorme asimmetria: sa tutto di noi, ma noi siamo tenuti all’oscuro dei suoi processi. Se da una parte il vecchio capitalismo è prosperato alle spese della natura, il nuovo capitalismo prospera alle spese della nostra umanità. Non dobbiamo dimenticare che la cultura integrante di questo sistema è il comportamentismo radicale di Skinner, per il quale la nostra libertà è frutto semplicemente dell’ignoranza: gli esseri umani non sono liberi, ma funzionano in maniera perfettamente prevedibile laddove si hanno abbastanza dati per comprenderlo. I loro gesti ci appaiono imprevedibili solo perché ci mancano gli strumenti per comprenderli ma, come il demone di Laplace, qualora avessimo una maggiore conoscenza, allora l’incertezza verrebbe meno e, con questa, la libertà. Il mondo ideale per il capitalismo della sorveglianza è quello in cui l’incertezza non esiste e ogni nostro comportamento è prevedibile o indirizzato a essere tale, così i suoi prodotti sono garantiti e funzionanti al 100%. Certo, per il sistema la strada è ancora lunga, ma la macchina accelera con intensità crescente: non ha ancora accesso a dati preziosi, fra questi quelli più preziosi di tutti, i dati sanitari.

Per ora.

 
 
 

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