Il Democracy Perception Index 2021 è piuttosto netto: secondo la grande maggioranza del vastissimo campione analizzato (in 53 Paesi selezionati fra i cinque continenti), la più grave minaccia per la democrazia proviene dalle diseguaglianze economiche. A seguire: le limitazioni alla libertà di espressione, le irregolarità e le frodi elettorali, il potere dei Big Tech.

Più in generale, l’indagine certifica un sentire ormai ampiamente diffuso: la democrazia è un modello non solo in pericolo ma in crisi profonda. Non perché i cittadini non ne sentano l’importanza. Tutt’altro: un buon 81% la considera essenziale, ma è ormai larghissima la percezione che i governi agiscano in favore di una stretta minoranza anche nei Paesi classificati come liberi (dove lo pensa il 50% degli intervistati, peraltro in netta crescita rispetto all’era pre-Covid). Anzi, è proprio fra le democrazie di più antico conio che si allargano le crepe: complice l’esperienza pandemica, comincia a crescere la diffidenza verso i social media, e anche una certa preoccupazione per la libertà di parola in rete. Anche perché, particolarmente in Europa (e in Italia), si registra un bassissimo livello di soddisfazione per la gestione della pandemia, in picchiata rispetto all’inizio della crisi (-24%), mentre è più generalizzata, a livello globale, la percezione che le restrizioni siano state eccessive (53% nel mondo e 48% in Europa: non erano residuali frange di negazionisti?). Rilevante è infine un dato squisitamente geopolitico: il 44% del campione sostiene che gli USA costituiscano una minaccia agli equilibri globali, ben al di sopra di Cina (38%) e Russia (28%). A spostare il baricentro – oltre ovviamente alle superpotenze rivali – è di nuovo lo spazio europeo, dove l’influenza americana è guardata con sempre maggiore insofferenza.

Peccato, però, che il rapporto sia stato commissionato dall’Alliance of Democracies, un altro paravento dell’élite filoatlantica, nato nel 2017 per promuovere «il progresso della democrazia e del libero mercato in tutto il mondo». Ossia – traduciamo noi – per curare gli interessi dell’imperialismo USA nel noto formato export democracy. ll fondatore, Anders Fogh Rasmussen, già Segretario Generale della NATO e già consigliere di Poroshenko, dell’ingerenza americana nel globo è stato non per caso strenuo promotore. E fra gli sponsor e partner dell’associazione figurano Facebook, Twitter, Microsoft, ma anche l’International Republican Institute, il National Democratic Institute, il George W. Bush Institute e la Victor Pinchuk Foundation. Non i migliori compagni di viaggio se s’intende limitare lo strapotere dei Big Tech o riequilibrare lo scenario internazionale

Infatti in occasione dell’annuale vertice di Copenhagen – tenutosi il 10 e 11 maggio – il suddetto report, dopo essere stato commissionato, è stato anche buttato nella spazzatura. A dispetto del sentire globale, falchi del regime in progress come il generale H.R. McMaster – già consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Trump – hanno ribadito che al vertice della piramide delle minacce deve comunque esserci la Cina. Punto. E i protagonisti del summit hanno diligentemente continuato a limare strategie da guerra-fredda-parte-seconda, incuranti del resto del mondo. Poco importa che le tesi discusse (qui i video) sconfinino nel ridicolo, visto che a discuterle sono i fabbricatori dell’immaginario globale. 

Come racconta Alan Macleod su MintPress, in un consesso in cui Juan Guaidó può tenere una relazione intitolata Lotta per la libertà e la democrazia, può anche capitare che Ryan Heath – editor senior di Politico con una lunga carriera da speechwriter – ventili disinvoltamente l’idea di una NATO asiatica per fronteggiare il pericolo comunista. Il tutto, mentre da un panel all’altro il gotha del globalismo targato USA, con alleati europei e asiatici al seguito, denuncia una Cina orwelliana, pericolosamente proiettata al controllo di Internet e ad un mercantilismo autoritario da cui il mondo deve liberarsi in fretta. Il che sarebbe più credibile se ad indignarsi non fossero i teorici del Great Reset e dell’imperialismo in versione endless war. Quelli che sopravvivono alle scandalose rivelazioni di WikiLeaks, che prosperano sul data mining e si accaniscono contro Assange. Tant’è: il teatro che spartisce la scena fra buoni e cattivi può ancora permettersi di sfidare la decenza, mentre la solita cortina propagandistica si stende sulla catena di montaggio planetaria.

L’enorme capacità distopica di cui il globalismo dispone e fruisce, del resto, ha nell’Alliance of Democracies un punto di sintesi da non sottovalutare. Oltre alle personalità che animano l’appuntamento di Copenhagen – leader politici e aziendali, compresi gli attuali e gli ex capi di governo delle democrazie mondiali – parlano chiaro anche i programmi in essere dalla nascita dell’organizzazione.

Anzitutto c’è la Campaign for Democracy, finalizzata a creare un «potente movimento intellettuale» di sostenitori della democrazia in tutto il mondo, nelle cui more ha preso vita la Transatlantic Commission on Election Integrity, organismo preposto a vigilare contro le ingerenze estere nei processi elettorali democratici. Le cui finalità non hanno bisogno di fini esegeti per essere interpretate: con Joe Biden – che vi ha aderito fin dalla fondazione – la Commissione è stata attivissima nel sostenere l’ormai mitico motivo delle ingerenze russe nelle presidenziali USA e nel rinnovo del Parlamento Europeo (esilarante, in quest’ultimo frangente, l’appello di Rassmussen all’UE affinché si tutelasse da ingerenze estere). A seguire, l’Expeditionary Economics Program – «estensione delle analisi NATO dell’interazione tra sicurezza ed economia» – che seleziona e finanzia progetti imprenditoriali «nelle democrazie emergenti e nelle aree post-conflitto in tutto il mondo» secondo la logica di Carl Schramm (già utilizzata per “ristrutturare” l’economia irakena e afghana).
Un ciclo completo, in breve. Da una parte si indica il regime da abbattere e dall’altra si sovrintende alla ricostruzione “democratica” sotto l’egida dei democraticissimi vincitori. Niente di diverso da ciò che abbiamo troppe volte visto nell’ultimo trentennio, ma reso ufficialmente paradigma con tanto di paravento ad hoc, e nell’indifferenza generale.

Del resto son passati anche i tempi in cui l’opinione pubblica mondiale mangiava in fretta la foglia (di fico) dei dittatori alla bisogna: le proteste del 2001 contro la guerra in Iraq – di dimensioni mondiali – vedevano in prima linea l’appendice new-global di una sinistra destinata durare il tempo utile per restituire ai liberal lo scettro della guerra. Non un minuto di più. Quel che oggi resta di quella confusa galassia, infatti, si assiepa comodamente ai piedi dei tanti Saviano predicanti contro pericoli autoritari sempre miracolosamente coincidenti coi nemici della NATO. E ora che la rumorosa avanguardia, normalizzatasi, non cavalca più la voce dei popoli, poco male. Bisogna che la pubblica opinione (quella legittimata ad esistere) coincida comunque con la massa di manovra dei guru progressisti, in una dimensione in cui la coralità – pur contraddittoria – delle piazze venga sostituita dalla comunicazione unidirezionale e omologante di influencer pompati nello spazio dell’arena social. Falsamente pubblico e più facilmente controllabile (oltre che economicamente redditizio). 

Non stupisce dunque che a Copenhagen si sia parlato anche di questo. E sul nodo della cosiddetta “disinformazione” in rete è intervenuto nientemeno che Michael Chertoff, co-autore del Patriot Act: senza dubbio un relatore indovinato. Accanto a lui, emblematicamente, un rappresentante dell’oversight board di Facebook, e anche qui nulla di stupefacente: già dal 2018 il social zuckerberghiano ha avviato proficue collaborazioni con l’Atlantic Council, pensatoio assai vicino alla NATO (oltre che all’Alliance of Democracies) e impegnato a teorizzare, fra l’altro, una Democratic Technology Alliance che abbia la benedizione di Biden. Di Facebook pare debba essere gli occhi e le orecchie contro interferenze sgradite. Al punto che l’azienda ne ha anche assunto, a inizio anno, il senior fellow Ben Nimmo – già portavoce NATO – affinché guidi «la strategia globale di intelligence» della piattaforma contro le operazioni di influenza. Serve specificare la perfetta coincidenza fra i pericoli individuati da Nimmo e le minacce proclamate dai congressisti di Copenhagen?

In realtà la saldatura fra il complesso militar-industriale atlantico e gli oligopoli della connettività social è l’ultimo anello (chiuso non da oggi, ma oggi sufficientemente robusto per poter essere ostentato) di un progetto totalizzante e inquietante. Il cui denominatore comune è la tensione al silenzio di chiunque resista alla democrazia spiegata dai teorici della guerra e dai loro sodali. La più grave minaccia per la democrazia – così possiamo legittimamente definirla – usa la parola democrazia per definire sé stessa, e tutto è orwellianamente perfetto.

 

Gavino Piga

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