LO SMART WORKING. E, SOPRATTUTTO, CHI CI GUADAGNA

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Sette milioni di utenti paganti per il software Facebook Workplace: il 40% in più rispetto alle rilevazioni dello scorso maggio. Certo c’è chi sta meglio: Microsoft Teams, ad esempio, i cui utenti sono passati in un anno da 75 a oltre 145 milioni (con un incremento del 93%). Ma il trend resta più che incoraggiante anche per Zuckerberg, che accodandosi al treno superveloce dello smart working sembra aver trovato l’ennesima miniera. E pochi giorni fa ha annunciato soddisfatto l’implementazione di nuove funzionalità aziendali. Del resto, che la transizione digitale del lavoro e della vita non avrebbe ammesso passi indietro – perché non è mai stata la variabile dipendente di un’emergenza sanitaria – lo si era capito da tempo. Quantomeno lo aveva capito chi voleva. Sulle illusioni degli altri, ormai, anche i fatturati degli oligopoli tecnologici si abbattono senza pietà: non si tratta ragionevolmente di volumi vincolabili a un tempo determinato.

Resta la romantica immagine del lavoratore cosmopolita: senza cartellini da timbrare, senza colleghi infidi, sdraiato sotto l’ombrellone mentre sorseggia un cocktail su una spiaggia esotica e sbriga le sue pratiche col fido tablet comprato a rate. Un filone pubblicitario fiorente non da oggi, nonostante la realtà parli decisamente un’altra lingua. Quella della totale destrutturazione del tempo del lavoro (e appunto della vita). Della riduzione del dipendente a monade virtuale. Della precarizzazione nel lavoro, cui seguiranno prima o dopo ricatti salariali e tagli verticali, mentre la spesa pubblica potrà alleggerirsi in favore degli interessi sul debito. E i Big Tech vedranno lievitare i loro profitti, dopo avere finalmente inglobato nel loro universo dispotico e distopico anche il lavoro. Che d’altronde potrà volentieri farsi vettore della dinamica social – già imperante – di intrusione nel privato.

Dove non poté il Job’s Act renziano potrà il dopo-pandemia, insomma. Con grande sollievo degli investitori. Diversamente, Microsoft vedrebbe forse ridotte le prospettive del suo Ambizione Italia – DigitalRestart, piano quinquennale di investimenti del valore di 1,5 miliardi di dollari (con un business atteso di circa 9 miliardi) il cui core è appunto lo smart working. Compresa ovviamente la variante scolastica nota come “didattica a distanza”: già lo scorso anno – fra le commosse lodi di Lucia Azzolina – l’annuale Edu Day tentava entusiastici bilanci.

E appena qualche giorno fa – nonostante le infinite criticità sul piano didattico e non solo – il ministro Bianchi ha proclamato che la didattica a distanza non finirà più. Certo promettendola riveduta e corretta, integrata e dal volto umano, con la cautela di chi sa di muoversi ancora su un terreno minato. Ma ancora per poco: «l’insegnamento da ‘remoto’ è stato legittimato anche a livello contrattuale», ha ricordato. E poi non si vorrà certo scontentare gli sponsor. I quali sono pronti a cogliere l’occasione: Leonardo ha già offerto pronta collaborazione, e ancora Microsoft insiste sull’utilità della teledidattica in casi particolari (studenti impossibilitati a frequentare per ragioni di salute, ad esempio). Ma anche qui torniamo al nodo vero: quanto è realistico che quel tipo di business si accontenti di agire sull’eccezione, quando ormai è in moto un processo di regolamentazione (leggasi: regolarizzazione) di pratiche da remoto nella scuola, con tutte le possibili aperture che ciò comporta rispetto a progressive deroghe?

Ed è poi vero che questi sarebbero i presupposti? Il paper prodotto da Microsoft per promuovere la «transizione alla didattica a distanza» parla piuttosto di rivoluzioni pedagogiche pensate su un format anche concettualmente digitale: «Gli studenti» – vi si legge – «possono imparare e dimostrare questo apprendimento senza un luogo fisico o i suoni delle campanelle. Con il digital learning e il deep learning, gli studenti possono imparare dove si trovano. Gli studenti possono imparare quando sono pronti». Ecco dove va a parare la pluridecennale, vacua ma ossessiva propaganda sulla scuola delle competenze: nella costruzione di perfetti smart customers dei nuovi lavoratori agili, sempre all’insegna di un malinteso «mettere al centro lo studente».

Ma analogo è il discorso per lo smart working sanitario, ossia la telemedicina (altresì invocata per «mettere al centro il paziente»), altro Eldorado su cui i colossi del tech stanno riversando investimenti enormi (nonostante ragionevoli dubbi avanzati da esperti): «in questo momento storico» è la formula di cui si avvale il documento licenziato dalla Conferenza per i rapporti con lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano lo scorso dicembre. Ma la contingenza viene prestata a un «rinnovamento organizzativo e culturale» di lungo respiro e non proprio improvviso.

Dalla lotta per la dignità del lavoro a quella per la dignità dell’intera società, insomma: lo smart working, sotto l’egida di interessi enormi, non solo non è una risposta contingente a una crisi, ma è il grimaldello che induce a una dimensione antropologicamente altra. Sbaglia due volte chi pensa che si parli semplicemente di “razionalizzare” il lavoro dell’impiegato d’azienda (e anche in quel caso, non sarebbe né poco né meno inquietante). Anche perché c’è ormai da chiedersi cosa non possa essere chiamato “azienda”, e qui sta il punto dirimente. Usando questo termine per definire il Paese intero, non troppo tempo fa, un ricco editore scalava i consensi elettorali italiani, mentre ogni settore della vita pubblica veniva appunto aziendalizzato, con passo felpato ma veloce. Nessuna meraviglia, dunque, se ora le logiche di razionalizzazione digitale dell’impresa investono senza distinzioni ogni settore: le distinzioni non esistono più neppure nelle nostre teste.

Dai tempi in cui la sanità e la scuola cedevano il passo ai privati o si piegavano alle logiche del privato – disarticolate in centri autonomi dipendenti dagli stakeholders locali – si è giunti senza soluzione di continuità alla telemedicina o alla teledidattica. On demand e a misura d’ufficio. Il che è stato possibile appunto per il progressivo dimensionamento impiegatizio di quei profili, sottoposti ad assuefazione burocratica e nel contempo a regimi manageriali di produttività, benchmarking, customer care. Quando non gettati in calderoni normativi generalizzati (qualcuno ricorda la legge Brunetta?).

Alla fine, l’unico (s)oggetto messo al centro è il cliente. Nell’ottica manipolatoria che distingue da sempre l’edonismo consumistico cui i social offrono oggi nuove e lucrose sponde. Anche a costo di rendere il lavoro un’appendice del loro business.

 

Gavino Piga

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