60 ANNI FA, L’INDIPENDENZA IN AFRICA /L:NIGEL

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Ricorre quest’anno il sessantesimo anniversario dell’indipendenza delle colonie francesi in Africa. Indipendenza dietro la quale restano storie ancora troppo poco conosciute di lotte resistenziali, di abusi, di movimenti boicottati e repressi. Il tutto coperto da semplificazioni storiografiche che ancora parlano di processi “pacifici”. Nell’occasione, il quotidiano francese Mediapart ripercorre alcune di quelle vicende in un’interessante serie di articoli, dedicati in particolare a Niger, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo e Guinea. Ne pubblichiamo alcuni in traduzione, ringraziando il giornale per la gentile concessione [G.P.].

LA BATTAGLIA PERSA E DIMENTICATA DI SAWABA IN NIGER di Kalidou Sy

[versione originale: Le combat perdu et oublié du Sawaba au Niger © Mediapart – tutti i diritti riservati]

Il 13 aprile 1965 Hamani Diori, primo presidente della giovanissima Repubblica del Congo (indipendente da appena cinque anni), si trova a Niamey per il Tabaski (la festa musulmana di Eid al-Kebir), quando viene preso di mira da un attacco di granate. Bilancio: un bambino ucciso e diverse persone ferite. Il presidente fugge illeso. A seguito degli eventi, l’ambasciatore francese Albert Treca invia un telegramma a Parigi: «Una granata fabbricata localmente» scrive «è stata lanciata contro il presidente Diori che presiedeva la cerimonia attorniato da membri del governo. Le guardie del corpo del presidente hanno arrestato immediatamente alcuni sospetti». Per l’ambasciatore e il governo nigeriano non c’è dubbio che il mandante di quell’attacco possa avere un solo nome: Djibo Bakary.

Quella di Djibo Bakary è la storia di un uomo che voleva cambiare il destino del proprio paese. Aspirava a diventare il primo presidente della Repubblica del Niger, ma sventuratamente nel 1960 la Francia non lo aveva “scelto”, il che avrebbe portato lui e il suo partito, Sawaba, ad entrare in clandestinità e innescare una guerriglia. Sarebbe diventato così il nemico pubblico numero uno del potere nigeriano. Per comprendere il suo convulso destino, bisognerà tornare indietro di diversi anni, a molto prima che un forte vento di indipendenza cominciasse a soffiare sull’Africa.

Nel 1946, a 24 anni, Djibo Bakary, insegnante, viene eletto primo segretario generale del Partito Progressista Nigeriano (PPN), membro dell’African Democratic Rally (GDR), sigla presente in diverse colonie francesi dell’Africa. Alle elezioni parlamentari del 1951 è candidato in una lista della RDT col cugino Hamani Diori, ma entrambi vengono sconfitti di stretta misura, per le frodi elettorali organizzate dall’amministrazione coloniale. Subito dopo Bakary lascia il PPN, in polemica con la nuova linea del partito, ormai favorevole a un riavvicinamento con l’amministrazione francese. Djibo “il ribelle” si dà all’attivismo sindacale (i suoi compagni africani lo soprannominano “Thorez”…), ma in realtà ha una sola idea in mente: costituire un suo partito. Sa che senza una formazione politica metropolitana il suo progetto è destinato a evaporare. Finisce per allearsi con la Section française de l’Internazionale Ouvrière (SFIO).

In realtà non è esattamente una scelta: Djibo deve cedere a una forma di ricatto da parte di Jean Ramadier, governatore del Niger e membro della SFIO, il quale sa che il nigeriano ha avuto problemi con l’amministrazione coloniale pochi anni prima e che da allora gravano su di lui delle accuse. Gli offre quindi un accordo: Bakary potrà aderire alla SFIO e partecipare alla creazione di una sua diramazione africana – il Movimento Socialista Africano – altrimenti verrà perseguito dalla giustizia. Bakary dichiarerà in seguito di essere stato affascinato dall’idea di un movimento socialista africano, ma smentirà di aver sostenuto la SFIO: «Non avevo alcun rapporto con la SFIO – avrà a spiegare – e solo nel febbraio del 1958, quando andai a Parigi per la prima conferenza del raggruppamento di partiti, fui presentato a Guy Mollet».

In ogni caso, il primo colpo messo a segno dal Bakary “socialista” è la sua elezione a sindaco di Niamey, nell’ottobre 1956, con 14 voti contro i 13 di un suo ex compagno del PPN-GDR. Un anno dopo, nel 1957, diventa capo del primo governo autonomo del Niger, e dunque il politico più importante del paese. Riesce a usare la visibilità offertagli dall’alleanza coi socialisti per promuovere le sue ambizioni e le sue idee, quelle di un nazionalismo africano.

L’obiettivo dei suoi amici socialisti francesi e della Francia – che lo immaginano come un loro burattino – è invece garantirsi il suo sostegno al Sì per il referendum che si terrà in Francia e nelle colonie francesi dell’Africa subsahariana nel settembre 1958, in vista della creazione della Communauté française. Accettare di far parte della Communauté immaginata dal generale de Gaulle significa restare nella sfera d’influenza della Francia e subordinati ad essa; rifiutare, invece, vuol dire diventare immediatamente indipendenti. Djibo Bakary e il suo partito – ormai chiamato Sawaba, cioè “saggezza” in hausa – lasciano intendere che potrebbero votare No.

«Il partito Sawaba» – spiega Klaas van Walraven, storico dell’Africa contemporanea all’Università di Leiden e autore di un libro di riferimento sulla storia di Sawaba (Le désire de calm, PUR, 2017) – «non era solo una macchina politica. Era anche un movimento sociale, nel senso che il partito era sostenuto da diversi strati sociali: artigiani, commercianti, persone che avevano lasciato la campagna per le grandi città. Persone che sognavano un futuro luminoso. Il Niger era il paese più povero dell’Africa occidentale francese, e Sawaba era sorto per rivendicare una vera indipendenza». Ma, schierandosi per il No, Sawaba valutò male l’equilibrio di potere con la Francia? Lo studioso confuta questa tesi: «Votare No non fu un errore» dice. «Ciò che i gollisti proponevano nell’estate del 1958, cioè un regime di autonomia sotto la Quinta Repubblica, rappresentava realmente un passo indietro rispetto all’autonomia che il governo Sawabista aveva già conquistato». E, pur aspirando all’indipendenza del paese, Sawaba non voleva una rottura brutale delle relazioni con la Francia. «I gollisti avevano una posizione molto netta» avrebbe spiegato Bakary trent’anni dopo. «Per loro indipendenza equivaleva a secessione. E più insistevamo, più indurivano il loro atteggiamento, convinti che stessimo per fermarci. Ma il nostro non era opportunismo: per noi si trattava di una posizione di principio, che il ricatto gollista rafforzò».

In questa decisione gioca un ruolo importante il leader della Guinea, Ahmed Sékou Touré, già determinato per il No. «Sékou Touré era sicuro che il suo paese lo avrebbe seguito» dirà poi Bakary «ma non voleva restare isolato: così mi coinvolse. Insieme dichiarammo che se i nostri Paesi fossero diventati indipendenti avremmo aperto subito negoziati con la Francia per rimanere nel circuito francese». Lo conferma anche van Walraven: «Il governo sawabista non voleva tagliare i legami con la Francia» dice «ma il partito aspirava a sviluppare liberamente relazioni estere, così come la Guinea». Tuttavia, se la possibilità di un “tradimento” (cioè di un No) da parte della Guinea poteva essere in qualche modo tollerata da Parigi, che il Niger potesse fare una “secessione” era fuori discussione per le autorità francesi, spiega lo storico. «La differenza stava nella dimensione strategica ed economica del Niger rispetto alla Guinea: il paese confina per un lungo tratto con l’Algeria e lì si trovano enormi riserve di uranio, indispensabili per l’industria nucleare francese».

La Francia allora mette in atto una vasta operazione di sabotaggio del voto. Per prima cosa il governatore del Niger Louis Rollet, considerato troppo tenero nei confronti di Sawaba, viene richiamato in Francia e sostituito, dieci giorni prima del referendum, da Don Jean Colombani. Questo bulldozer d’origine corsa – uscito dal cappello di Jacques Foccard, consigliere di De Gaulle per gli affari africani – arriva, senza scrupoli, determinato a fare di tutto perché il Niger resti “territorio” francese. Durante i primi incontri con Bakary tenta con ogni mezzo di far cambiare posizione al leader di Sawaba, ma questi rifiuta categoricamente di accordarsi con il corso. La guerra è ormai dichiarata.

Frattanto, il PPN-RDT di Hamani Diori annuncia pubblicamente l’intenzione di votare Sì al referendum. Colombani inizia a sabotare la campagna di Sawaba facendo requisire dall’esercito i veicoli amministrativi coi quali il partito di Bakary, ancora capo del governo, attraversa il paese per sostenere il No. Poi convince a votare Sì i leader tradizionali, personalità ascoltate e rispettate, che pure inizialmente erano di avviso contrario. Infine, pochi giorni prima del voto, le manovre decisive: l’idea di Colombani è scoraggiare i residenti rurali dal votare, minacciandoli e terrorizzandoli. «I gollisti» – spiega Klaas van Walraven – «inviarono soldati dall’Algeria al Niger, dove effettuarono dimostrazioni di forza con aerei per intimidire la popolazione. Scoraggiarono la gente dall’andare alle urne nei distretti in cui sapevano che il No aveva buone possibilità di vincere, e incoraggiarono il voto nei distretti pro-Sì. Per non parlare delle intimidazioni nei seggi. Senza alcun dubbio vi furono brogli».

Gli abitanti di alcuni villaggi restano talmente impressionati dal sorvolo degli aerei che quasi quarantamila persone, in preda al panico, fuggono verso la vicina Nigeria. A Tahoua, roccaforte elettorale di Bakary, i Sawabisti sono convocati dalla polizia e viene loro intimato di far votare Sì. E il Sì, per via di queste manovre, alla fine prevarrà, con il 78% dei voti espressi, ma con un’astensione del 62%.

Trent’anni più tardi, Bakary dichiarerà di non essersi mai illuso sull’esito di quella consultazione: «Sapevamo» racconterà «che non avremmo potuto vincere per via delle manovre dell’amministrazione. Ci fu detto chiaramente. Il capo del secondo Ufficio di Niamey aveva detto a un nostro amico che tutti gli accordi erano già stati presi, e che non avremmo mai avuto i mezzi per riuscire. Colombani era uno specialista in fatto di frodi, e già aveva avuto modo di mettersi alla prova a Dakar, impedendo in particolare la rielezione di Lamine Gueye nel 1951».

Dopo questa vittoria l’amministrazione coloniale ritiene inconcepibile che il Niger continui ad essere governato dagli ex sostenitori del No, e così il 10 ottobre il governo di Bakary si dimette. Il 18 dicembre il Niger diventa una repubblica autonoma all’interno della Communauté Française, e l’anno seguente, col decreto n. 59-174 del 12 ottobre 1959, s’abbatte la mannaia: Sawaba viene disciolto e Djibo Bakary si mette in clandestinità. Si reca esule in Ghana – dov’è accolto a braccia aperte dal presidente Kwame Nkrumah – e poi a Mali, in Guinea.

Il 3 agosto 1960 la Repubblica del Niger dichiara la propria indipendenza e Hamani Diori viene eletto – o “scelto” – come presidente. Bakary, da parte sua – con passaporto maliano a nome di Bakary Maiga (professione giardiniere!) – intraprende una serie di viaggi per incontrare i suoi «compagni» rivoluzionari e comprare armi. Si mette in contatto con il Fronte di Liberazione Nazionale algerino (FLN) e coi governi della Cina popolare e del Vietnam del Nord, onde potersi formare nella pratica della guerriglia.

«Si trattava di un movimento nazionalista» – spiega Klaas van Walraven – «influenzato dall’ideologia marxista. Pronto a usare la violenza contro i suoi nemici. Salita al potere la RDA grazie al sostegno dei gollisti, Hamani Diori e i suoi ministri rifiutano ogni forma di riavvicinamento. Molti Sawabisti prendono allora la via dell’esilio, alcuni all’estero e altri nelle province del paese: nell’ottobre 1964 l’azione politica si trasforma in lotta armata, in guerriglia».

Il 1964 segna dunque la nascita della «ribellione armata» sawabista, ma anche l’inizio della sua fine. Il 24 ottobre il movimento, tramite i radiotrasmettitori di Accra e Conakry, lancia un appello sia in francese che nella lingua nazionale, invitando «tutti i contadini, gli operai, gli intellettuali, i soldati, ecc. a unirsi alle fila dei combattenti per la libertà». Alcuni commandos lasciano il Ghana per infiltrarsi in Niger e prendere il controllo delle città strategiche di confine. Tuttavia, l’appello alla rivolta resta privo di seguito popolare e si conclude con un triste fallimento: su una forza complessiva di 240 combattenti, 136 vengono fatti prigionieri e 12 restano uccisi.

Sawaba trae le conseguenze della propria sconfitta: cominciano a manifestarsi dissensi tra Bakary e i suoi compagni, che in particolare rimproverano al loro leader di aver sopravvalutato la popolarità del movimento in Niger. L’anno successivo, il fallito attentato contro il presidente Diori alla Grande Preghiera del Tabaski suscita l’indignazione dei capi di Stato vicini. Quanto ai leader dei paesi amici di Sawaba, vengono rovesciati: Ahmed Ben Bella in Algeria nel 1965, poi Kwame Nkrumah in Ghana nel 1966. È la fine del sogno sawabista.

Ad oggi la storia di Djibo Bakary e di Sawaba è caduta pressoché totalmente nell’oblio. Del resto, per molto tempo evocare anche solo il nome di quel partito è stato un tabù: come sottolinea van Walraven, «dal 1960 al 1990 è stato impossibile, pericoloso per non dire vietato parlare di Sawaba in Niger. Solo dopo la conferenza nazionale del 1991 l’argomento è stato ripreso. Così si spiega per quale ragione nessuno abbia potuto condurre ricerche sulla storia di quel movimento. Oltretutto, molti documenti d’archivio sono stati distrutti». Oggi il partito – aggiunge lo storico – è pressoché inesistente in Niger: «è più un club sociale che un movimento politico vero e solido in cui anziani e giovani discutano del passato e condividano le loro esperienze. Le giovani generazioni nigerine hanno perlopiù dimenticato questa storia, e la sua eredità è ben poco trasmessa».

Dopo un rientro in Niger nel 1974 e diversi anni agli arresti domiciliari, nel 1998 Djibo Bakary si è spento. Se non è stato assassinato (come avvenuto ad altri oppositori africani della politica francese all’epoca: Ruben Um Nyobé e Félix Moumié in Camerun, Sylvanus Olympio in Togo, Félix Malloum in Ciad e via dicendo), la sua storia mostra comunque bene il modo in cui la Francia si è organizzata per custodire la propria influenza e il proprio controllo sulle ricchezze delle sue vecchie colonie.

[traduzione italiana di Gavino Piga]

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