Una pillola per abituarsi alla mascherina (e altri esperimenti per moralizzare le masse)

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Mentre vasti settori dell’opinione pubblica diventano insofferenti alla nuova “normalità pandemica” e le proteste cominciano ad agitare il cuore del sonnolento Occidente, puntuale riaffiora la proposta di rasserenare gli animi troppo indisciplinati per via ormonale. Un perfetto pendant alla ripetuta richiesta di trattamenti sanitari obbligatori per i renitenti al protocollo, su cui vale la pena soffermarsi.

A riaprire la finestra è un bioeticista della Western Michigan University, Parker Crutchfield, che su The Conversation scrive: «Tutti noi dobbiamo cooperare per ridurre la possibilità che il coronavirus danneggi qualsiasi individuo. Tra le altre cose, ciò significa mantenere sicure distanze sociali e indossare mascherine. Molte persone scelgono, però, di non farlo, rendendo la diffusione dell’infezione più probabile». Perciò, prosegue, «come quando si riceve un vaccino per rinforzare il sistema immunitario, le persone potrebbero prendere una sostanza per incrementare comportamenti cooperativi e pro-sociali. Una pillola psicoattiva potrebbe essere la soluzione alla pandemia?». 

In sostanza, si tratterebbe di somministrare ossitocina, il noto ormone dell’altruismo, della fiducia e dell’amore, o perfino psilobicina, «la componente attiva dei “funghi magici”» (il cui uso terapeutico ad oggi riguarda essenzialmente cefalee a grappolo o gravi disturbi psichiatrici). «Queste sostanze» dice con olimpica serenità Crutchfield «hanno dimostrato di moderare il comportamento aggressivo in chi ha un disturbo della personalità antisociale e di migliorare la capacità dei sociopatici di riconoscere le emozioni negli altri». Tali evidentemente sarebbero, dal suo punto di vista, le patologie di chi è scettico di fronte a misure talvolta assai discutibili o insinua dubbi sull’oscillante numerologia dei sacerdoti dell’OMS. Quanti, però, soffrissero in forme più lievi di tendenze alla diserzione sanitaria – rassicura – potrebbero avvalersi soltanto di farmaci che «rendono più razionali», per essere aiutati a comprendere che la cooperazione è comunque la miglior cosa per tutti, compresi loro. E, tanto per rendere più confortante il quadro, il modello a cui guardare sarebbero gli esperimenti biologici sui soldati (questo l’articolo cui il nostro rimanda per farsi un’idea). 

Visti i tempi, si confida che chi legge sappia discernere lo scivolamento sottile e fatale. Qui non si discute in realtà di mascherine (ne hanno discusso a sufficienza i medici, e non sempre né tutti con toni così definitivi). Siamo convinti dell’opportunità di proteggere la salute nostra e altrui, e prestiamo attenzione a chiunque proponga vie efficaci, senza negazionismi né fideismi e sulla scorta di dati certi. Nel rispetto della legge e anche nel diritto di discuterla. Tutt’altra cosa è violare l’integrità psicofisica di una persona, condizionandone farmacologicamente la volontà, perché infrange una norma. Questo ci sembra più appropriato chiamarlo, nel migliore dei casi, delirio di onnipotenza. E oltretutto – come si vedrà – con la pandemia ha solo un rapporto fortuito.

Certo, Crutchfield è consapevole che si tratta di una proposta controversa, e individua in particolare due punti critici. Anzitutto al momento non funziona. L’ossitocina, cioè, sembra avere effetti contrastanti: se aiuta alcuni ad essere più pro-sociali, potrebbe incentivare altri a diventare più etnocentrici (cioè solidali, ma solo all’interno del loro gruppo), e «quindi è probabilmente un cattivo candidato» per somministrazioni di massa, specie in tempi di multiculturalismo coatto. Questo però non deve scoraggiare, avverte: bisogna solo continuare a lavorarci. Poi ci sarebbero le fastidiose resistenze dei soliti diffidenti, ma qui la soluzione è più semplice: basta obbligarli. Anzi, argomenta il bioeticista, meglio ancora sarebbe non renderli neppure consapevoli, avviando la somministrazione in segreto magari attraverso le condutture idriche. All’opportunità di un piano secretato, d’altronde, è dedicato un suo precedente saggio, pubblicato dalla prestigiosa rivista Bioethics, e con ciò i problemi morali gli paiono definitivamente risolti. Anzi, nei suoi scritti non c’è parola più ricorrente che questa: morale. La sua ideale morality pill – così la chiama – servirebbe appunto a «rendere obbligatorio il miglioramento morale», ossia «l’uso di sostanze per renderci più morali». Inutile chiedere chi decida cosa sia morale e cosa no: ci penserà la scienza. Le magnifiche sorti e progressive dello Stato biopolitico passano per questa bizzarra miscela di atti di fede, gerarchie infallibili e imperativi categorici: ciò che è globale è morale, ciò che è morale è razionale e via sillogizzando. Ma non è il caso di chiudere tutto nel cassetto delle varie stravaganze. In primo luogo perché queste idee circolano su riviste ben rappresentative del mondo accademico europeo (The Conversation è supportata da un notevolissimo numero di importanti atenei). Poi perché parliamo di un campo discorsivo che, fra una boutade e l’altra, si è costruito ormai una storia troppo lunga per poter essere ignorata. Vista soprattutto la pericolosità che comporta e la facilità con cui si ripresenta.

   

Qui in Italia, ad esempio, sulle virtù moralizzatrici dell’ossitocina – sia pure in termini molto più ponderati – nel non lontano 2018 è intervenuto Gilberto Corbellini, bioeticista del CNR. All’epoca si parlava di xenofobia, e lo studioso ventilava l’ipotesi che la si potesse combattere appunto con un mix di ormoni e meccanismi di condizionamento sociale, a riprova che, cambiando i fattori dell’emergenza, il procedimento per risolvere l’operazione resta invariato.  
Rifacendosi a un esperimento condotto dall’Università di Bonn, lui concludeva che «lo stimolo combinato di ossitocina e influenza dei pari sembra diminuire le motivazioni egoistiche, potenziando il comportamento altruistico verso i migranti». In sostanza: «se le persone di cui ci fidiamo come supervisori, vicini di casa o amici assumessero un ruolo modello, esibendo un atteggiamento positivo verso i rifugiati, molte più persone probabilmente si sentirebbero motivate ad aiutare. In tale contesto pro-sociale, l’ossitocina contribuirebbe ad aumentare la fiducia e minimizzare l’ansia» (evidentemente vera causa dei comportamenti xenofobi, secondo Corbellini). Dunque, «date le giuste circostanze, cioè a fronte di comportamenti altruistici di innesco, elevare i livelli di ossitocina potrebbe promuovere l’accettazione e l’integrazione dei migranti nelle culture occidentali».
L’intervento venne seppellito dalle polemiche. Giornali come La Verità o partiti come la Lega non esitarono a reagire, imputando allo studioso di «voler drogare gli italiani» per indurli ad accettare un’immigrazione senza freni. E di contro si riunì l’opinionismo progressista per protestare che le affermazioni del professore erano state manipolate, con annesse accuse di fake news e complottismo. In sostanza, dissero, Corbellini non aveva fatto alcuna proposta politica, ma semplicemente illustrato le risultanze di un esperimento scientifico e invitato studiosi e politici a «ragionarci sopra».

Poco importa che, come scrive Daniel Munro, la moralità non si trovi nell’armadietto dei medicinali. Il termine è ormai inflazionato.  «Moral Molecule» è appunto la definizione che dell’ossitocina dava Paul J. Zak, uno dei primi a pubblicizzarne su larga scala le possibili applicazioni. Da buon neuro-economista, Zak (qui in foto) era interessato a come utilizzare i meccanismi del cervello umano nei processi economici. E sulla scorta di appositi esperimenti aveva notato una correlazione fra i livelli di ossitocina prodotti dal corpo e un incremento della collaboratività (produttività) anche in settori strategici del business. Ma queste scoperte potevano prestarsi perfino a valutazioni geopolitiche, fino a fare del capitalismo una necessità genetica. Commentando le sue tesi, Lo Prete scriveva su Il Foglio: «Quello che gli europei dovrebbero tenere a mente prima di mandare all’aria l’unione economica e monetaria, è che il libero mercato rafforza anche sentimenti di fiducia ed empatia tra gruppi ben più ampi di quelli familiari, stimolando la produzione di un ormone chiamato “ossitocina”». Se fossimo più malfidati di quel che siamo, potremmo desumerne che anche il libero mercato (che per Zak è perfetto equilibrio fra sana competizione e fiduciosa cooperazione), l’Europa e l’euro siano in fondo questioni morali: metterle in discussione potrebbe essere indice di sociopatia. 
Non ci risulta, a onor del vero, che Zak ipotizzasse trattamenti coatti, ma certo mentre il suo bestseller usciva – si era nel 2012 – il sogno della pillola morale veniva diffusamente accarezzato. Qualche anno dopo sarebbe approdato anche su The Guardian con un articolo in cui la ricercatrice londinese Molly Crockett (esperta di neurobiologia dell’altruismo umano, della moralità e del processo decisionale economico), fra le altre cose, informava circa alcuni esperimenti sull’effetto di determinate sostanze sulle scelte morali. Ancora una volta ossitocina, ma anche serotonina, citalopram e lorazepam: dagli ormoni agli psicofarmaci, insomma.«Finché non saremo d’accordo su ciò che è morale» avvertiva però la studiosa «non saremo d’accordo su quali tipi di comportamenti indirizzare con una pillola». Come fosse questione da poco, e come se un eventuale accordo (oltretutto, fra chi?) potesse chiudere la pratica. E comunque, spiegava, anche farmacologicamente la meta è lontana. Non irraggiungibile, però.    
Del resto, la Crockett sapeva di intervenire su una questione che in un modo o nell’altro era all’ordine del giorno. Nel 2011, ad esempio, ne aveva parlato in termini problematici ma abbastanza possibilisti anche Guy Kahane, del Centre for Neuroethics di Oxford, in un editoriale del The Globe and Mail. Sullo sfondo di inquietanti scenari burgessiani (chi non ricorda Arancia meccanica?) lo studioso gettava il suo disincantato sguardo sul mondo, evocando crimini efferati e suggerendo che tutti i metodi finora sperimentati per ottenere comportamenti decenti dall’essere umano – l’istruzione, l’educazione, la legge – avessero fatto ciò che potevano. Non abbastanza evidentemente. Se invece ci riuscisse un farmaco – si domandava – quali sarebbero le conseguenze? 
Domande su cui probabilmente Crutchfield taglierebbe corto: del resto l’emergenza incombe e non c’è spazio per le diatribe sul sesso degli angeli. Nel frattempo, mentre gli scienziati lavorano perché la fantascienza divenga realtà, a livello discorsivo la morale pare ormai assodata come categoria propria del tecnologico, e a costo di essere oziosi ci pare sia giusto eccepire. Senonaltro perché il sogno transumanista di Crutchfield mette tra parentesi millenni di discussioni che meriterebbero quantomeno il rispetto un tempo dovuto agli anziani. E perché, come osserva Richard Weikart su Evolution News, «la soluzione nietzcheana» di «chi ha il potere di imporre la propria moralità agli altri» potrebbe sgradevolmente implicare che «nel caso in cui le “pillole morali” siano somministrate al pubblico ciò avvenga per imporre la visione morale dell’élite tecnocratica». Salvo non sia appunto questo lo scopo: rendere le masse obbedienti, più che empatiche. Anche perché – la storia ne offre dimostrazioni in abbondanza – perfino le guerre, alla bisogna, possono diventare umanitarie
Infine, prima che si venga tutti moralizzati come un Ovidio medievale, spezzeremo almeno una lancia a favore dei nostri zelanti chierici. Certamente hanno ragione nel dire che l’egoismo è insito nella genetica umana: in un sistema in cui il 10% degli individui possiede l’80% delle risorse globali, non ci pare trionfino l’altruismo o l’empatia. Non è forse un poco immorale? Sarebbe utilissimo se la scienza si occupasse ogni tanto anche di questo. [G.P.]

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