L’EPIDEMIA COME POLITICA (RIFRESSIONI DAL CONFINE)

0

biopotere security state

Come muoia una democrazia forse non possiamo – e certo non vogliamo – saperlo. Siamo cresciuti nella propaganda liberal-consumistica del sogno americano, figli di iconografie stereotipate, prigionieri di una confortante frivolezza. Siamo abituati a pensare il dispotismo come un residuato esotico di lontani sottosviluppi, o al più come spauracchio mediatico per fini elettorali. Da almeno mezzo secolo non riusciamo più a credere che la democrazia – anziché il necessario happy end di un’epopea commerciabile – sia un fragile sistema di equilibri e interessi mai scontato, mai definitivo. 

Appunto perciò sono preziose le riflessioni che Giorgio Agamben ha affidato al volume A che punto siamo? L’epidemia come politica (Quodlibet 2020), raccolta di interventi scritti e in parte già pubblicati durante la fase più cupa dell’emergenza sanitaria. 

Si tratta in fondo di una sfida. Si può scegliere di non raccoglierla, come ha fatto (e non c’è da stupirsene) qualche giornalone perbene. Oppure si può decidere di stare consapevolmente sul crocevia che queste pagine mettono a fuoco: appunto il confine sottile fra democrazia e post-democrazia. Perché, per il filosofo, le convulse reazioni al morbo covidiano – con giostre emozionali massicce e sospensioni costituzionali abnormi, fino alla militarizzazione, alla delazione, alla censura – riportano esattamente lì. Non al contingente, non al provvisorio che caratterizza la comune emergenza. Ma ai dispositivi autoritari che ormai strutturalmente, perennemente reggono lo stato d’eccezione come strategia globale. E che, come già altre volte è accaduto, lasceranno tracce indelebili anche nel dopo. 

La questione è insomma chiara. Senza neppure sfiorare la querelle sull’origine dell’epidemia (se sia stata naturale, artificiale, prevedibile o addirittura intenzionale), il punto è quali usi politici ne sono stati fatti una volta ch’essa, come era inevitabile, è diventata fatto politico. E altrettanto chiara è la risposta: la pandemia, nella sua tragicità, è diventata un pretesto per accelerare le dinamiche – già ampiamente in corso – di smantellamento dei modelli democratici borghesi, con i loro sistemi di garanzie e rappresentanza. Modelli ritenuti non da oggi, presso i «poteri che governano il mondo», inadeguati alle nuove frontiere del loro dominio. Tanto che, dice Agamben, è ormai perfino futile chiedersi se viviamo in una «democrazia che degenera in dispotismo» o in un «totalitarismo che assume forme apparentemente democratiche». Piuttosto, preso atto che parole a noi familiari – elezioni, potere legislativo, democrazia appunto – restano come foglie di fico su un sistema già altro, bisognerà «fissare lo sguardo con lucidità sulle nuove forme di dispotismo» per poter «eventualmente riuscire a definire le nuove forme di resistenza». E – sia chiaro – resistenza è termine usato nella sua accezione più radicale: non più difesa delle istituzioni borghesi (battaglia ormai di retroguardia), ma ripensamento totale del fare politica di fronte a un totalitarismo sottile e inedito.

Un totalitarismo che si sviluppa linearmente dal Security State al paradigma della «biosicurezza», dunque. Leggere le contraddittorie risposte al virus dentro una più ampia storia di involuzione autoritaria globale – dove l’emergenza sanitaria viene sfruttata al pari di quella securitaria o economica per far scattare in avanti strategie profonde – non dovrebbe essere peregrino, in effetti. Lo storytelling è lo stesso altre volte denunciato: mutatis mutandis, è almeno dall’11 settembre che abbiamo a che fare con la retorica della paura e coi suoi paralogismi, primo fra tutti l’imperativo categorico di limitare la libertà per difendere la libertà. Cambiano le figure, ma non lo schema: «fatte le debite differenze» – scrive Agamben – «le recenti disposizioni trasformano ogni individuo in un potenziale untore, esattamente come quelle sul terrorismo consideravano di fatto e di diritto ogni cittadino come un terrorista in potenza». E poi è costante – accanto ai sempreverdi richiami apocalittici – l’evocazione dell’ennesima endless war, anche se questa volta «il nemico può annidarsi in ciascun altro uomo», «non è fuori, è dentro di noi» (è una «guerra civile», insomma: pandemios polemos, avrebbe non a caso detto Omero).

Per non dire che, come sempre, la tecnologia narrativa messa in campo mostra evidenti crepe. L’autore già rileva la raffica di numeri privi di cornice statistica, o la facilità con cui i media allestiscono corti di esperti ad hoc marginalizzando il dissenso; ma altre incrinature emergono di giorno in giorno: basti pensare ai verbali del Comitato Tecnico-Scientifico che, resi finalmente pubblici, mettono gravemente in crisi le sbandierate ragioni scientifiche del lockdown generalizzato.

Eppure – bisogna rilevarlo – dire oggi tutto questo diventa perfino eversivo proprio per larghi settori della sinistra. A quasi vent’anni dall’Enduring Freedom e succedanei, a suon di crisi finanziarie, spread e voto “utile”, ciò che era lessico corrente è diventato eresia. Si sono spenti i vagiti – già molto flebili – di un antagonismo che a inizio millennio sembrava voler mettere in crisi gli assiomi di Davos (ma che poi sceglieva il socialismo liberal di Zapatero o soluzioni analoghe). I progressisti europei si sono in buona parte ricompattati sotto le bandiere del fanatismo europeista, della responsabilità, di un tardo scientismo, delle campagne promosse dalle multinazionali. E anche perciò è dirimente che a riprendere il filo sia un intellettuale la cui autorevolezza trascende il gioco delle fazioni, e non è ignorabile neppure da quei circuiti che più in fretta si sono arresi al conformismo globale. Non che l’eclissi di vecchi antagonismi esaurisca la domanda ricorrente in queste pagine: come sia stato possibile che una sospensione così prolungata delle garanzie costituzionali e delle libertà personali – fino all’interdizione dalle esequie – sia stata accettata quasi senza resistenze. E con tutto ciò che ha comportato in termini di parossismi precauzionali, pressione emotiva, rinuncia sociale e affettiva. Chiaramente si tratta di fatti complessi, che di certo trascendono le contingenti geografie politiche e toccano il contemporaneo nella sua dimensione antropologica.

Si tratta d’indagare il «bisogno di panico collettivo» di una «massa rarefatta e fondata su un divieto, ma, proprio per questo, particolarmente compatta e passiva». E l’autore di Homo Sacer non può che tornare all’imperante feticcio della «nuda vita»: «Quel che è avvenuto – leggiamo – è che ogni individuo ha spezzato l’unità della sua esperienza vitale, che è sempre nello stesso tempo inseparabilmente corporea e spirituale, in una entità puramente biologica da una parte e in una esistenza sociale, culturale e politica dall’altra. Questa frattura è con tutta evidenza un’astrazione, ma un’astrazione potente e quello che il virus ha mostrato con chiarezza è che gli uomini credono in questa astrazione e hanno sacrificato ad essa le loro condizioni normali di vita, le relazioni sociali, le loro convinzioni politiche e religiose e perfino le amicizie e gli amori».

 
Svariati erano i fattori in gioco, certo: la paura del contagio ma anche del poter contagiare, l’incertezza delle raccomandazioni e dei dati, la gravità dei provvedimenti, la novità degli eventi. Anche la speranza, in tanti mai sopita, di un ritorno alla normalità. Ma – tutto ciò compreso – è difficile dire che il dado non sia ormai tratto. Che, cioè, l’astrazione di cui parla Agamben non si sia più potentemente manifestata e insediata, assieme ai tanti paradossi che la biopolitica dell’epidemia ci lascia in eredità (quella biopolitica che ha troppo guardato alla dittatura cinese, e ha potuto «presentare l’assoluta cessazione di ogni attività politica e di ogni rapporto sociale come la massima forma di partecipazione civica»).
Naturalmente, in tempi di isteria dialettica e terminologica, anche Agamben è stato accusato di voler minimizzare la portata degli eventi. Gli si è rimproverato ad esempio di aver parlato, all’inizio di questa vicenda, di «una specie di influenza», senza per giunta dimostrarsene poi pentito. Curioso caso: in realtà il filosofo – come in seguito ha ripetutamente precisato – si era limitato a riportare testualmente le dichiarazioni provenute dal CNR qualche giorno prima, il 22 febbraio, ad emergenza già proclamata e non molto prima dell’inizio del lockdown d’inizio marzo.

Comunque si siano poi evolute le cose (e Agamben sottolinea più volte l’impossibilità di definire dimensioni chiare in mancanza di dati rigorosi), che l’affermazione venga imputata a un osservatore che l’ha raccolta, e non all’istituzione scientifica che l’ha prodotta (peraltro delle più autorevoli), è significativo. Testimonia certo la difficoltà, ormai acclarata, di un ragionare lucido; ma forse anche la religiosa reverenza che alla scienza si tributa in questo processo. Processo in cui usare il verbo scientifico contro la narrazione che se ne serve è un tradimento insopportabile.

Agamben, d’altronde, mette perfettamente a fuoco la dinamica: la religione della scienza, dice, «come ogni religione, può produrre superstizione e paura o, comunque, essere usata per diffonderle. Mai come oggi si è assistito allo spettacolo, tipico delle religioni nei momenti di crisi, di pareri e prescrizioni diversi e contraddittori, che vanno dalla posizione eretica minoritaria (pure rappresentata da scienziati prestigiosi) di chi nega la gravità del fenomeno al discorso ortodosso dominante che l’afferma e, tuttavia, diverge spesso radicalmente quanto alle modalità di affrontarlo. E, come sempre in questi casi, alcuni esperti o sedicenti tali riescono ad assicurarsi il favore del monarca, che, come ai tempi delle dispute religiose che dividevano la cristianità, prende partito secondo i propri interessi per una corrente o per l’altra e impone le sue misure».

Se nella «Grande Trasformazione» in atto la scienza è chiamata ad essere religione ufficiale, dunque, da essa si dovrà pretendere – oltre che liturgie opportune – l’elaborazione di un credo, di un’ortodossia, di un verbo unico e indivisibile. Un concilio è in corso, per così dire. Frattanto, ogni segno dissonante deve essere cancellato, e presto ogni eretico verrà bandito. Del resto il catechismo della biosicurezza già ci chiama a nuovi paradigmi etici: insediatasi la tirannia della paura (di perdere la nuda vita), spezzatasi l’unità dell’esperienza vitale – che unica costituisce il suddito in cittadino – e rifondatosi il corpo politico in «popolazione biopolitica», ecco scolpirsi il comandamento del distanziamento sociale («significativo eufemismo», dice il nostro) su nuove Tavole della Legge.

Distanziamento come confino, come rarefazione della massa. Ma anche come tirannia del virtuale – ossia del digitale – sul reale. Illuminante è – fra gli ultimi saggi della raccolta – il Requiem per gli studenti, accorata denuncia della didattica a distanza nelle Università, che si annunciano non più luoghi di esperienza bensì distributori di servizi informatici di formazione (ma il discorso potrebbe allargarsi: chi scrive ne ha già parlato, in relazione alla scuola). E qui comincia a sgretolarsi – ci pare – quel mito fondativo della globalizzazione che è il diritto alla connessione. Quel mito che ancora vent’anni fa, forse troppo apoditticamente, i giovani lettori di Impero indicavano come il nucleo progressivo del nuovo sistema globale, capace di far emergere dirompenti moltitudini sulla scena mondiale. Ora invece – trasformato in dovere – si reinventa viatico all’immersione in solipsismi atomizzanti.

 

Sarà dunque possibile una resistenza? Pur nell’oscurità di un passaggio di cui ancora non è possibile vedere il disegno, Agamben non esita a dire di sì. A patto che «s’impegnino senza riserve coloro che non rinunciano a pensare a una politica a venire, che non avrà né la forma obsoleta delle democrazie borghesi né quella del dispotismo tecnologico-sanitario che le sta sostituendo». E intanto – leggiamo nel saggio che intitola la raccolta, quello «richiesto e poi rifiutato dal Corriere della Sera» – nella continua ricerca di una parola di verità, non manchi mai lungo la strada «la sola domanda che conta, che non è, come ripetono da secoli i falsi filosofi, “da dove veniamo?” o “dove andiamo?”, ma semplicemente “a che punto siamo?”». [G.P.]

 

 

Condividi!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *