La didattica a distanza è “terribile”

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“Terrible”. Così Donald Trump ha definito la tanto decantata didattica a distanza in un recente cinguettio (1). Con spiccato senso dell’ironia, la storia ha voluto che il bersaglio preferito dei radical di mezzo mondo, da sempre additato come un rozzo analfabeta funzionale, si sia incaricato di ricordare a corti di esperti che cos’è la scuola. “L’apprendimento virtuale non è paragonabile a quello che si realizza in una scuola o in un campus”: un’ovvietà, certo, ma occorreva che qualcuno la dicesse. E che se ne sentisse l’eco fin qui, dove non mancano le mobilitazioni intellettuali alla ricerca di neologismi e sofismi con cui infiocchettare lo smart working applicato all’istruzione. Soprattutto ora che, col verosimile trascinamento dell’emergenza fino al 31 dicembre, stipare l’aula dentro uno schermo sembrerà ancora più facile.

In effetti non occorrono curricula roboanti per capire che la scuola – la scuola vera – a distanza non si può fare. In nessun ordine e grado. Perché non è un corso di formazione o un webinar: necessita di una interazione reale e continua, di un dialogo e un confronto esperiti sempre nella pienezza delle loro dimensioni, di processi non meccanizzati. Esige i tempi e gli spazi della realtà, senza i quali non esiste. La risposta a un’emergenza (se, dove e quando  essa si manifesta) non può evidentemente essere l’annichilimento di un’istituzione necessaria: occorrono nel caso competenze di cui purtroppo non si vede l’ombra, nonché reale volontà d’investimento, ma questo è un nodo cronico su cui dal governo attuale è inutile attendere risposte. E poi – questo è il punto – davvero è solo questione di emergenza? 

In realtà, fra un contorsionismo e l’altro, fra una smentita e una controsmentita, in questi mesi non si è mai spento il sospetto che, da misura straordinaria, l’aula virtuale potesse riaffiorare come possibilità strutturale. Sospetto che va avvicinandosi alla realtà con le più recenti dichiarazioni del ministro Azzolina (2), la quale ormai – senza troppe foglie di fico – parla di “didattica digitale integrata” come risorsa da prevedere e regolamentare in via “straordinaria e ordinaria”. E la bozza del Piano Nazionale delle Riforme ribadisce che «è compito del governo continuare a garantire il rafforzamento della complessa struttura di interventi che ha garantito finora la didattica a distanza, traslando le azioni adottate in emergenza in una solida politica di sistema, per tutti i gradi scolastici». (3)

Ovviamente, a beneficio dei retrivi, si garantisce che l’intento è supportare – non sostituire – la cara vecchia lezione in presenza. Tuttavia, le annunciate linee guida (che, visti i precedenti, si attende di leggere con qualche tremore) in questo contesto lasciano presagire una normalizzazione della modalità on-line. Modalità che non corrisponde – sia chiaro – a una semplice (e già diffusa) implementazione di risorse digitali nella didattica tradizionale, bensì a una struttura alternativa all’aula reale.

Del resto, in questi mesi non pochi sassolini sono stati lanciati nello stagno. Abbiamo ad esempio visto il tentativo d’imporre formule miste (inizialmente anche alla primaria) come antidoto al sovraffollamento delle aule, ambiguamente mescolato al problema delle cosiddette “classi pollaio” che però prescinde dall’emergenza sanitaria (o si pensa che trenta alunni per classe siano troppi per una mera questione di distanziamento sociale?). E di fatto, nonostante i balletti in retromarcia per il profluvio di critiche, ad oggi, in attesa del mitologico Recovery Fund, le linee guida sul rientro a scuola (4) prevedono sia l’obbligo del distanziamento sia le classi pollaio. Così saranno i presidi, sacerdoti della riscoperta autonomia, a dover eventualmente reintrodurre per necessità la didattica online. Sulla quale del resto la Azzolina non demorde.

È credibile insomma che – partendo dalla crisi pandemica e col pretesto un poco logoro di ammodernare la didattica – si spinga, per un doppio binario (a parole) emergenziale, per ora nella secondaria di secondo grado (quella che pone oltretutto meno grattacapi in termini di aiuto alle famiglie per il baby sitting), incardinando di fatto la didattica da remoto in maniera organizzata nella prassi scolastica. Se così fosse, si produrrebbe un’agognata quanto pericolosa forzatura, con buona pace delle rassicurazioni ministeriali: a quel punto, infatti, promuovere l’e-learning e le sue magnifiche virtù marginalizzando il vecchiume residuo della lezione in presenza potrebbe essere questione, nel migliore dei casi, di qualche decennio. Incentivi, finanziamenti, corsi di formazione, e poi circolari, ordinanze, decreti. Finché magari, sempre per questa via, qualcuno penserà che con la lezione via monitor si risolve anche l’annoso problema della manutenzione degli edifici scolastici, peraltro a costo zero: quale governo rifiuterebbe di proteggere i nostri figli da tetti pericolanti e strutture fatiscenti? O meglio, come – secondo quanto riporta la Klein – ha di recente ribadito (5) Andrew Cuomo, governatore di New York, a docenti e studenti universitari: “Tutti questi edifici materiali, tutte queste aule fisiche – a che scopo, con tutta la tecnologia di cui disponete?”.

Economie intelligenti

La tendenza è appunto più generale. Negli USA la Fondazione Bill & Melinda Gates – cortese interlocutore, fra gli altri, del nostro governo – annuncia la rivoluzione dello Screen New Deal (6) per un sistema di istruzione “più intelligente”, fatalmente basato sullo sviluppo delle tecnologie di remote learning. Si punta al momento sulle università – dove già la crisi del 2008 è stata il volano per una diffusa digitalizzazione della didattica – ma il caso Covid-19 ha mostrato che l’esperienza può progressivamente estendersi alla scuola.

Ovviamente “smart”, parola chiave del nuovo battage globale, è aggettivo da leggere secondo le glosse del vocabolario neoliberista, dove intelligenza fa rima con efficienza economica. E niente migliora la produttività minimizzando i costi quanto il lavoro da remoto, in termini di spazi, salari, deregolamentazione degli orari e via dicendo. Gli esempi abbondano.

Frattanto da noi Microsoft – promotore dell’Edu-Day – gongola sui primi report del progetto Emotion Revolution: Emozioni e Didattica a Distanza durante l’emergenza Covid-19(7), da cui risulta che i principali ostacoli alla piena implementazione della didattica on-line nel nostro sistema sarebbero “la mancanza di strumenti e infrastrutture adeguate”, “la connessione internet non sufficiente e la mancanza di dispositivi in alcune zone del Paese”. Problemi logistici, insomma, e fortunatamente superabili: giustappunto Microsoft, per felice coincidenza, sta lanciando in nostro favore il massiccio programma di investimenti denominato Ambizione Italia #DigitalRestart“.

All‘Edu-Day, ovviamente, erano presenti sia la Azzolina che il ministro dell’Università e della Ricerca, Manfredi. Entrambi hanno assicurato, come da copione, che scuole e università resteranno luoghi fisici di apprendimento e scambio. Poi la prima ha ricominciato a tessere le lodi della didattica a distanza (ribattezzata all’uopo “didattica della vicinanza”), l’altro ha liquidato le contrapposizioni fra formazione online e formazione in presenza come “sterili e talvolta solo ideologiche”: meglio guardare al futuro, ha ammonito. Dove, neanche a dirlo, si stendono le immense praterie democratiche offerte dalla rete. Senza però che si chiarisca come e perché il potenziamento dei supporti tecnologici e digitali – negato peraltro da decenni di tagli e mancati investimenti – debba automaticamente legarsi all’estensione della didattica da remoto. E in cosa esattamente consista la transizione digitale più volte evocata.

Sembra insomma farsi strada una nuova stagione di tagli in nome della rivoluzione digitale? I segnali non sono incoraggianti. Ma, se lo scenario intravisto è plausibile, non si tratta solo di questo. Dopo anni trascorsi presso il feticcio delle competenze e sotto il paradigma dell’utile, sul nostro sistema di istruzione, già popolato non più da studenti ma da clienti, e progressivamente trasformato in mero viatico alla catena produttiva, s’abbatterebbe la fase finale di una revisione di portata antropologica. Contro cui dovrebbe levarsi vibrante la protesta non solo dei docenti, ma delle comunità.

Così, insomma, è potuto accadere che sia stato Trump, nella sua guerra contro Gates, a lasciarsi sfuggire l’ovvio che non vediamo più. E con buona pace di quanti grideranno all’oscurantismo o al provincialismo, c’è da augurarsi che non servano decenni di rovinose sperimentazioni per farci scoprire la seconda ovvietà del secolo, ossia che il nuovo non per forza è migliore.

Fonti

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2 thoughts on “La didattica a distanza è “terribile”

  1. La forza di una economia, di una società è nella Istruzione Pubblica. Non è assolutamente un caso che l’Occidente sia destinato al tramonto.

    «Vorrei vedere che lo Stato […] si assumesse una sempre maggiore responsabilità nell’organizzare direttamente l’investimento. […] Ritengo, perciò, che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si dimostrerà l’unico mezzo per farci avvicinare alla piena occupazione» John Maynard Keynes

    Le economie di successo hanno uno Stato che investe nel loro sviluppo a partire da Istruzione e Ricerca Scientifica e Tecnologica

    1. Per il tuo eventuale prossimo mandato, pensaci, Messer Donaldo. Ché gli USA hanno deficit gemelli da recuperare e con una valuta globale digitale prossima ventura perderanno in prospettiva anche l’esorbitante privilegio del $.

      PS: di questo ultimo aspetto ne scriverò presto

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