AVAAZ INTIMA A YOUTUBE DI “RIPULIRE” L’ALGORITMO PER NON DARE SPAZIO ALLO SCETTICISMO CLIMATICO

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Quando il “consenso scientifico” viene usato in maniera anti-scientifica per instaurare il ministero della verità e dettare l’agenda politica a stati e grandi corporation.

1. Introduzione

Qualche giorno fa YouTube, la celebre piattaforma video di Google, è stata oggetto di un attacco insolito e senza precedenti. L’attacco è arrivato da Avaaz, sedicente organizzazione no profit, avente come finalità ufficiale “proteggere le democrazie dai pericoli della disinformazione sui social media”, di fatto una potentissima lobby di area progressista vicina al partito democratico americano, particolarmente attiva nel campo della politica, dei cambiamenti climatici, dei diritti umani e della lotta alle “fake news” attraverso petizioni, campagne di sensibilizzazione e  azioni di pressione sull’opinione pubblica promosse attraverso i canali mainstream. Il 16 gennaio scorso Avaaz ha pubblicato, infatti, sul proprio sito i risultati di un’analisi svolta su una serie di video YouTube aventi per oggetto il controverso tema dei cambiamenti climatici. Il report, intitolato Why is YouTube Broadcasting Climate Misinformation to Millions? (Perché YouTube diffonde disinformazione sul clima a milioni di persone?), è disponibile in versione HTML sul sito dell’organizzazione oppure scaricabile in formato PDF.

2. Che cosa dice il report di Avaaz

Avaaz ha analizzato il tipo e i contenuti dei video restituiti dalla piattaforma YouTube quando l’utente inserisce nel campo di ricerca parole chiave inglesi come “global warming”, “climate change” e “climate manipulation”. In tutto, è stato analizzato un totale di 5.537 video. Secondo l’organizzazione, il 16% dei primi 100 video rilevati dall’API di YouTube come i più pertinenti per il termine di ricerca “global warming” conterrebbero disinformazione sul cambiamento climatico. Per i risultati correlati al termine di ricerca “climate change”, la percentuale di video che, a giudizio di Avaaz, contengono disinformazione sarebbe pari all’8%, mentre tale percentuale salirebbe addirittura al 21% per il termine di ricerca “climate manipulation”. In totale – ed è questo il dato che sembra preoccupare di più i redattori del report – i video contenenti “disinformazione” sul tema dei cambiamenti climatici avrebbero ottenuto fino ad oggi un totale di 21,1 milioni di visualizzazioni.

Sulla base di tali dati, Avaaz punta quindi il dito contro YouTube, accusandola, senza troppi giri di parole, di promuovere più o meno inconsapevolmente video che diffondono “falsità” sui cambiamenti climatici:

“I risultati della nostra indagine sono chiari: YouTube sta promuovendo la disinformazione sui cambiamenti climatici a milioni di persone”.

Ma la crociata in nome dell’ortodossia sul climate change non si ferma certo qui. Avaaz si spinge oltre, sostenendo che prestigiosi brand globali starebbero, consapevolmente o meno, finanziando gli autori di questi video attraverso i propri annunci. L’organizzazione sostiene, infatti, di aver

“identificato 108 marchi che pubblicizzano annunci su questi video che diffondono “fake news” sui cambiamenti climatici. Un annuncio su cinque proveniva da marchi ecologici o etici o, addirittura, da organizzazioni non governative come Greenpeace, WWF, Ecosia, Save the Children, il Ministero degli Interni tedesco ed Eureciclo”.

Oltre a questi, vi sarebbero poi brand globali ampiamente noti al grande pubblico come Aeromexico, Uber, Samsung, Decathlon, L’Oreal, Redbull, Harley Davidson.

YouTube sostiene che gli utenti trascorrono il 70% del loro tempo sulla piattaforma guardando video suggeriti dall’interfaccia stessa attraverso le funzione “Up next” (nell’interfaccia italiana: “Consigliati” e “Prossimi video”). In altre parole, quando un utente sceglie di guardare un video in cui, ad esempio, si mettono in discussione le tesi ufficiali sui cambiamenti climatici, l’algoritmo di YouTube suggerisce automaticamente all’utente una serie di altri video di argomento e approccio analogo ai quali potrebbe essere interessato. Secondo Avaaz, tale meccanismo deve essere inibito,  in quanto finisce per trascinare gli utenti in quella che viene definita una “bolla di disinformazione”. Ancora più scandaloso, a giudizio dell’organizzazione, sarebbe il fatto che gli autori dei video che contengono “fake news” sul clima guadagnino una percentuale dalla pubblicazione di annunci nei loro video: “Ogni qualvolta viene pubblicato un annuncio in un video YouTube, l’inserzionista paga una commissione; il 55% di essa va all’autore del video, il restante 45% va a YouTube”. Vale qui la pena ricordare che YouTube applica indistintamente le normali condizioni del sistema di monetizzazione AdSense a tutti i creatori di video, indipendentemente dai contenuti (1, 2).

3. Che cosa dovrebbe fare YouTube secondo Avaaz

Con il tono categorico di chi si sente insignito di poteri pressoché deliberativi e dell’autorità morale per parlare in nome della scienza per il bene dell’umanità, i redattori stilano, quindi, una serie di “raccomandazioni” a YouTube e ai grandi inserzionisti che pubblicano annunci su questa piattaforma, da implementarsi integralmente e “immediatamente”. In virtù dell’enorme potere divulgativo che ha ormai acquisito (1,9 miliardi di utenti registrati, copertura del 44% della popolazione globale che usa Internet), YouTube ha il dovere morale, secondo Avaaz, di prendere provvedimenti per porre un freno alla proliferazione della disinformazione sui cambiamenti climatici, cosa che ad oggi, si dice esplicitamente, non ha ancora fatto in misura sufficiente. La piattaforma è chiamata, quindi, ad “adottare un approccio più sistemico” per “proteggere efficacemente le società dai danni che questa disinformazione può arrecare”:

  1. Ripulire (letteralmente “disintossicare”) l’algoritmo – YouTube deve cessare di promuovere gratuitamente tutti i video che contengono disinformazione sui cambiamenti climatici “rimuovendoli dagli algoritmi che controllano la generazione dei video consigliati” e inserendo tali video nella categoria dei video borderline, ossia quei video che trattano temi considerati al limite tra ciò che è accettabile e ciò che è inaccettabile. Aggiungiamo, a tal proposito, che YouTube sostiene di aver già agito in tal senso sui propri algoritmi a inizio dicembre 2019, anche se non ha fornito numeri precisi e non è chiaro se l’area borderline includa anche video che contestano la tesi ufficiale del climate change.
  2. Demonetizzare la disinformazioneAvaaz chiede esplicitamente a YouTube di impedire che i creatori dei video che diffondono “fake news” sul clima possano guadagnare attraverso la pubblicazione di annunci. In subordine, Avaaz chiede che venga aggiunta un’opzione per gli inserzionisti nella configurazione degli annunci che permetta loro di escludere i video classificati come contenenti disinformazione.
  3. Correggere le informazioni fuorvianti – Questa è forse la parte più inquietante. “La prevenzione da sola è insufficiente”, scrivono i redattori del report. Non basta ripulire l’algoritmo: serve anche correre dietro a ogni singolo utente che ha guardato o si accinge a guardare un video che contiene “fake news” con appositi avvertimenti al fine di “contrastare gli effetti causati dalla disinformazione”. In sostanza, si chiede che l’utente venga scoraggiato a prendere visione di video considerati pericolosi dall’organizzazione attraverso l’inserimento di avvisi e richiami disincentivanti se non terrorizzanti. Un esempio di ciò che Avaaz si attende da YouTube viene fornito a pag. 45 del report:
  4. Trasparenza – Sebbene YouTube abbia già implementato in parte alcune di queste misure, Avaaz non si ritiene ancora del tutto soddisfatta, in quanto la società non avrebbe fornito dati precisi sull’efficacia delle proprie misure nel limitare la disinformazione.

4. Analisi del report

4.1 L'appello all'autorità come modus operandi e pretesto per la censura del dissenso

Fin dalle prime righe il report tradisce un tono inequivocabilmente apologetico che è anche il miglior indizio dell’obiettivo che l’organizzazione si propone di raggiungere con questa iniziativa: lanciare una vera e propria crociata contro il cosiddetto negazionismo climatico in nome dell'”ortodossia scientifica”. Nessuno spazio di credibilità, anche minimo, viene concesso a tesi che negano, anche solo parzialmente, quello che i redattori sembrano ritenere una verità ormai incontrovertibile al di là di qualsiasi dubbio. In più punti del testo e delle note si rimanda a citazioni o articoli dell’IPCC (Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici), ai quali vengono accostati NASA, NOAA e, in maniera alquanto generica, la “letteratura scientifica sottoposta a peer-review” come garanti di una verità ultima a prova di qualsiasi dubbio:

“Definiamo “negazione o disinformazione sui cambiamenti climatici” informazioni che possono essere dimostrate come false o fuorvianti in base al consenso scientifico rappresentato dal Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici, dalla NASA, dal NOAA e dalla letteratura scientifica sottoposta a peer-review, le quali possono causare potenzialmente danni alla società, ad esempio mettendo a rischio il sostegno pubblico agli sforzi per limitare i cambiamenti climatici indotti dall’uomo, e/o che vengono divulgate da note fonti di disinformazione sui cambiamenti climatici. I contenuti spaziano dalla negazione che si stiano verificando cambiamenti climatici significativi, all’idea che l’attività umana non ne sia significativamente responsabile fino alla negazione che gli esseri umani possano intraprendere azioni significative per ridurne o mitigarne l’impatto”.

Il culmine dell’autoreferenzialità si raggiunge probabilmente a pag. 64. Nel tentativo di rendere più fondato e cogente il proprio appello, i redattori si spingono ad affermare, addirittura, che “ciò che noi chiamiamo negazionismo climatico e disinformazione riguarda contenuti che si pongono al di fuori dei confini dalla scienza”.

4.2 Libertà di parola vs libertà di diffusione. Il goffo tentativo di allontanare da sé l'accusa di censura

I redattori sembrano implicitamente consapevoli dell’audacia della loro operazione. Richiamare all’ordine un’autentica istituzione della rete, qual è la piattaforma video YouTube, li esporrà prevedibilmente a reazioni negative, prima tra tutte l’accusa di voler censurare il dissenso. Da questa accusa essi tentano di liberarsi preventivamente a più riprese all’interno del documento proponendo palesi forzature argomentative che, in qualche caso, arrivano ad apparire grottesche. A pag. 48, in un maldestro tentativo di autodifesa preventiva, i redattori cercano di dimostrare che il loro obiettivo sarebbe esattamente opposto rispetto a quello che alcuni maligni potrebbero sospettare:

Insieme, la società civile, gli inserzionisti e le piattaforme di social media possono creare un ambiente di informazione salutare, in cui la libertà di espressione è rispettata, le comunità non sono manipolate da algoritmi fasulli e dalla disinformazione e viene garantito un libero accesso alle informazioni. Considerate le sfide che le nostre democrazie, il nostro pianeta e le nostre economie sono chiamati ad affrontare, è fondamentale agire ora”.

In pratica, qui si rovescia la realtà di 180°. Per Avaaz la libertà di informazione è garantita laddove il campo è stato preventivamente disinfettato dalle erbacce, fuori di metafora laddove quella che viene considerata “disinformazione” è già stata preventivamente etichettata come contenuto malevolo e pericoloso ed emarginata dai motori di ricerca. La comunità, secondo Avaaz, è manipolata oggi a causa dell’eccessiva libertà concessa a creatori di contenuti “senza scrupoli” che diffondono “contenuti pericolosi”, non domani, quando tali creatori saranno stati banditi o altrimenti resi innocui. Gli algoritmi sono manipolati oggi, laddove non pongono restrizioni alle “fake news”, mentre saranno “salutari” un domani, quando YouTube e gli altri giganti della comunicazione avranno adottato le opportune misure restrittive contro chi diffonde “informazioni false”.
Il contorsionismo argomentativo per giustificare quella che appare a tutti gli effetti come un’esplicita richiesta di censura raggiunge vette quasi comiche a pag. 64. 

Qui i redattori si avventurano in un’altra improbabile acrobazia nel vano tentativo di negare l’evidenza. Riteniamo, dice il testo, che, quando si può dimostrare che un’informazione è falsa o include contenuti fuorvianti, essa non debba essere necessariamente eliminata, ma “solo” opportunamente contrassegnata, smentita tramite rimandi a “fonti autorevoli” e, quindi, emarginata dai motori di ricerca, per impedire che essa venga “artificialmente amplificata a milioni di persone”. Anche in questo caso, si rovesciano completamente i termini della questione. Se un video ottiene milioni di visualizzazioni, ciò non è dovuto, a giudizio di Avaaz, al fatto che milioni di persone scelgono liberamente di guardarlo, ma piuttosto al fatto che YouTube non interviene preventivamente per rimuovere quel video dai suggerimenti etichettandolo con avvisi dissuadenti e allarmistici al fine di scoraggiare l’utente a visionarlo. La ratio filosofica che sottende a questa curiosa concezione della libertà di espressione è sintetizzata nell’ultimo paragrafo. I redattori sostengono di vedere una linea di demarcazione molto netta tra “libertà di parola” e “libertà di diffusione”. Non sarebbe censura, insomma, perché Avaaz non chiede che i video sgraditi vengano rimossi; chiede “solo” che il motore di ricerca intervenga artificialmente affinché li trovi e li guardi il minor numero di persone possibile. Un po’ come dire: non ti impedisco di parlare, ti tolgo solo il microfono.

Il meglio che si possa dire qui è che Avaaz cerca rifugio, tirandolo per i capelli, nel celebre paradosso popperiano, secondo cui la società libera è costretta alcune volte a censurare le forze antidemocratiche per poter preservare la libertà. Volendo essere meno indulgenti, l’approccio di Avaaz ricorda molto da vicino quello tipico dei sistemi totalitari, dove la censura viene sempre difesa in nome del bene comune.

4.3 Antiscientificità implicita dell'approccio scelto

In questa sede non ci occuperemo ovviamente di confermare o confutare gli assiomi da cui muovono i redattori di questo report. Chi scrive non ha competenze in materia di climatologia e non ha, pertanto, alcuna pretesa di entrare nel dibattito scientifico propriamente detto. Dibattito che vede contrapporsi da decenni centinaia di studiosi a suon di paper scientifici, feroci discussioni su blog specialistici, appelli e manifesti all’opinione pubblica, con toni spesso aspri e polemici (per non dire che lo scontro assume talvolta i connotati di una vera e propria guerra di religione). Piuttosto, è obiettivo di questo articolo analizzare l’approccio scelto da Avaaz per influenzare pesantemente tale dibattito, al punto di avere la pretesa di chiuderlo definitivamente in nome di una verità scientifica che si ritiene ormai acquisita per sempre e che si diffida chiunque dal mettere in dubbio.

In nome del consenso scientifico, Avaaz compie un’operazione che non potrebbe essere più intrinsecamente antiscientifica. Mettendo da parte qualsiasi scrupolo morale e qualsiasi remora dialettica, Avaaz chiede esplicitamente a YouTube di oscurare, per non dire apertamente di censurare, tutte le voci fuori dal coro in nome dell’ortodossia del pensiero unico. Ancora più esplicitamente Avaaz chiede ai prestigiosi brand che utilizzano la piattaforma video di Google per le proprie campagne pubblicitarie di collaborare in questa nobile battaglia per il bene dell’umanità rimuovendo i propri annunci dai video eterodossi, in modo da esercitare, a loro volta, pressione sulla piattaforma stessa. A questa richiesta già di per sé insolita, trasmessa pubblicamente a un gigante dell’informazione come Google con la stessa pretenziosità e lo stesso tono autoritativo di un ente normativo che può permettersi di intimare decisioni irrevocabili a chiunque, si aggiunge poi l’idea, tipica da tribunale dell’Inquisizione, di voler “punire” i portatori della presunta disinformazione impedendo loro di trarre profitto dagli annunci che la piattaforma pubblicitaria AdSense garantisce indistintamente a tutti i creatori di contenuti. Comunque la si pensi sul tema del climate change, è difficile non ravvedere in un simile approccio tutti i crismi di una tipica campagna di intimidazione.

4.4 Trasformare i motori di ricerca nel ministero della verità. Rischi oggettivi per il dibattito scientifico e la libertà di espressione

Il messaggio, neanche troppo dissimulato, che ci arriva da questo scritto, al di là delle goffe autodifese d’ufficio, è decisamente inquietante. Avaaz sembra volerci dire che è finito il tempo del dibattito scientifico e della libera circolazione delle idee: chi non si allinea, chi osa mettere in discussione la legittimità dell’assioma secondo cui il cambiamento climatico rappresenta oggi una minaccia urgente per il pianeta deve essere emarginato “per il bene dell’umanità”. E questo atto di fede viene richiesto non solo al cittadino comune, ma anche e soprattutto ai grandi player globali della comunicazione, ai grandi marchi dell’industria e della distribuzione e alle stesse autorità statali e regolative, in virtù dell’enorme impatto che le loro iniziative e le loro decisioni hanno su milioni di persone. Lo scettico dei cambiamenti climatici, anche quando è rappresentato da un prestigioso climatologo con un lungo curriculum di titoli e riconoscimenti o da un consesso di scienziati di riconosciuta fama che firmano appelli pubblici, non solo viene arbitrariamente estromesso dalla comunità scientifica, come abbiamo visto sopra, ma addirittura viene equiparato a un terrorista o a un disseminatore di odio. Come noto, con i terroristi e gli haters non può esistere spazio di discussione, ma solamente il bando e la censura preventiva. Analogamente, suggerisce Avaaz, non deve esistere alcun margine di discussione e spazio di divulgazione per chi nega la verità insindacabile del cosiddetto consenso scientifico, mettendo a rischio il futuro dell’umanità. Costui merita solo la censura o, per usare un eufemismo, l’emarginazione dalle reti sociali. Un attacco senza precedenti non solo al dibattito scientifico, ma anche alla stessa libertà di espressione, che dà l’idea del clima di caccia alle streghe che ci attende nei prossimi anni, specialmente laddove Google, Facebook, Twitter e gli altri giganti globali delle reti sociali dovessero decidere di piegarsi a questi diktat implementando misure restrittive verso tesi alternative e chi se ne fa interprete.

Con rara spavalderia Avaaz si pone arbitrariamente nel duplice ruolo di arbitro e custode della verità. Arbitro, in quanto si sente in diritto di tracciare una linea di demarcazione netta tra ciò che è scienza e ciò che è “fake news”. Custode, in quanto ritiene che il compito che essa si è autoassegnata costituisca addirittura una missione salvifica per l’umanità. Non è da escludere che tale ruolo le venga tranquillamente riconosciuto non solo da molti mainstream, come di fatto già accade da tempo, ma anche da quella parte dell’opinione pubblica che condivide con essa lo stesso fideismo acritico verso l’autorità scientifica in quanto tale. Tutti gli altri, però, troveranno questa operazione, infarcita di palesi contraddizioni, fallacie logiche e acrobazie lessicali per evitare di chiamare la censura con il suo vero nome, un pericoloso tentativo di instaurare il ministero della verità di orwelliana memoria.

4.5 Il rogo dei libri in nome della scienza: una contraddizione in termini

Sfugge, a chi scrive, il motivo per cui una tesi scientifica alternativa, per quanto minoritaria possa essere in un determinato momento storico, non dovrebbe godere sulle reti sociali della stessa libertà di circolazione e delle stesse condizioni di divulgazione di una tesi maggioritaria. Se è il consenso scientifico a misurare il grado di verità di una tesi e a stabilire in ultima istanza ciò che è vero e ciò che è falso, che bisogno c’è allora di censurare la tesi minoritaria? Che bisogno c’è di chiedere a YouTube di manipolare esplicitamente il proprio algoritmo in modo da restituire solo risultati che confermino la tesi dominante ed escludere o nascondere sistematicamente i risultati che propongono una spiegazione alternativa? Non basta il consenso scientifico stesso? Che bisogno c’è di impedire a chi è già minoritario di esprimere almeno il proprio dissenso e la propria ipotesi alternativa impedendogli anche di parlare? Sicuri che la censura preventiva sia compatibile con la dichiarata battaglia in nome della verità scientifica? Sicuri che la rimozione preventiva del dubbio non sia in aperta contraddizione con il concetto stesso di scienza? Tutto questo senza contare che il consenso scientifico non è mai per sua natura una certezza immutabile nel tempo o un punto di arrivo conclusivo, ma piuttosto un processo dinamico in continua evoluzione, come una linea che si sposta continuamente nella misura in cui emergono nuove evidenze, nuove acquisizioni scientifiche, nuove scoperte tecnologiche. Difficilmente un approccio del genere può essere classificato come “scientifico”. Ancor più difficilmente può sfuggire alla definizione di pensiero totalitario, se non altro per il tono neanche troppo velatamente intimidatorio scelto dai redattori.

4.6 Reali motivazioni all'origine del report

Ad onta della nobiltà degli intenti dichiarati (difendere la società dai pericoli della disinformazione in nome della scienza), l’attacco al cosiddetto negazionismo climatico risponde oggi a inconfessabili, quanto ben noti interessi di tipo finanziario e strategico. Non è certo un mistero che attorno al tema del climate change ruoti già da tempo un business ultramiliardario destinato a crescere in misura esponenziale nei prossimi decenni. Una vera e propria svolta epocale, strettamente intrecciata alle abitudini e alle scelte quotidiane di milioni di individui, alle scelte industriali e fiscali degli stati nazionali e dei grandi soggetti politici, nonché agli investimenti delle più grandi banche d’affari del mondo. Si pensi solo al Green Deal, ripetutamente annunciato dal commissario europeo von der Leyen. Oppure si pensi al boom dei green bonds, le obbligazioni verdi destinate a finanziare la realizzazione di progetti economicamente sostenibili a difesa dell’ambiente. Solo nel 2019 ne sono stati collocati quasi $ 250 miliardi, il che porta ad oggi il valore totale delle loro emissioni a quasi $ 800 miliardi. Volendo usare un facile gioco di parole, verrebbe da dire che il clima è davvero cambiato. La grande finanza, i grandi centri di potere politico, i più importanti think-tank globali hanno scommesso da tempo che il futuro sarà basato su un modello di sviluppo “de-carbonizzato”. Le più importanti banche e industrie, incluse quelle notoriamente più inquinanti, hanno capito che conviene puntare per tempo in questa direzione, facendo provvista di titoli verdi a buon mercato prima che il loro prezzo salga alle stelle.

Se si capisce questo, si capisce anche perché lo scetticismo o, come viene spesso impropriamente definito, il “negazionismo climatico” rappresenti un ingombrante ostacolo da rimuovere al più presto, con le buone o con le cattive. I progetti di sviluppo e gli investimenti miliardari che verranno lanciati nei prossimi anni necessitano di un’adesione ampia, per non dire incondizionata, da parte dei governi e dell’opinione pubblica. Chi ha scommesso su questo modello ha tutto l’interesse evidentemente a sgombrare il campo fin d’ora da ogni possibile intralcio. Non sono ammesse remore o obiezioni di carattere politico, etico, scientifico, strategico e finanziario che potrebbero potenzialmente pregiudicarne il buon esito.  È in questo senso che va letta l’ammissione, forse involontaria, dei redattori a pag. 12 e a pag. 50 del report. Il rischio è, appunto, quello che “venga meno il sostegno pubblico agli sforzi per limitare il cambiamento climatico di origine antropica“. Avaaz si fa interprete, insomma, degli interessi del grande capitale, cercando di spianare la strada fin d’ora a chi ha disegnato il futuro del pianeta nei prossimi decenni. Se si capisce questo, si dovrà anche necessariamente concludere che il dibattito sul climate change è oggi una questione meramente politica più che scientifica in senso stretto.

5. Chi è Avaaz e come agisce

L’equivoco più pericoloso nel quale si può cadere è considerare Avaaz per ciò che essa stessa si definisce: una semplice “organizzazione non governativa no profit”. In realtà, parliamo di una delle lobby di ispirazione progressista e globalista più potenti, organizzate, ramificate e, soprattutto, più attive al mondo. Fondata nel 2007, in meno di 12 anni ha raggiunto lo strabiliante numero di 47 milioni di membri iscritti in 194 paesi, se crediamo ai dati dell’organizzazione stessa. Già nel 2012 The Guardian la definiva “la più grande e più potente rete attivista online del globo”. Sul sito dell’organizzazione si legge che Avaaz è “sostenuta al 100% dai suoi membri e non accetta donazioni da governi, fondazioni o grandi aziende” grazie a un tetto massimo di $ 5.000 a singola donazione. Per quanto ciò sia probabilmente vero dopo il 2009, vi sono pochi dubbi sul fatto che prima di quella data George Soros abbia massicciamente finanziato sia ResPublica che MoveOn.org, le due ONG da cui provengono i membri più importanti di Avaaz e che dal 2007 si sono in pratica fuse tra loro per dare vita alla nuova entità. Interessanti dettagli su questi finanziamenti si trovano, in particolare, in un articolo del NGO Monitor e del Washington Post. Nel 2009, ad esempio, Avaaz ha beneficiato di un finanziamento di $600.000 da parte della Open Society Foundations di George Soros. Nominalmente la somma è stata versata a favore di ResPublica. Nella causale si legge che la destinazione finale è proprio “avaaz.org” (per la precisione, $ 300.000 a titolo di “general support to Avaaz.org”, altri $ 300.000 come supporto per “Avaaz.org’s work on climate change”). Ricken Patel, fondatore e presidente esecutivo, proviene da MoveOn.org e ha alle spalle un passato in Rockerfeller Foundation, Gates Foundation e International Crisis Group. Un altro dei fondatori e membro influente di Avaaz è Tom Perriello, funzionario del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, avvocato ed ex-deputato democratico al Congresso americano per la Virginia. Da novembre 2018 è anche direttore esecutivo per i programmi USA presso la Open Society Foundations di Soros.

5.1 L'agenda globalista di Avaaz. Uno storico di ingerenze nella politica internazionale

Le petizioni di Avaaz vengono sempre lanciate in nome di valori e diritti universali di facile presa sull’opinione pubblica (ad esempio, appelli per la pace o il cessate il fuoco, diritti umani, libertà di espressione ecc.). All’atto pratico, però, le iniziative seguono sempre con sorprendente coincidenza gli interessi politici, economici o geopolitici del momento dell’ala globalista del partito democratico americano. Durante i mandati di Barack Obama, ad esempio, Avaaz ha caldeggiato nel 2011 l’instaurazione di una no-fly zone in Libia, ufficialmente per proteggere i civili dai bombardamenti, di fatto per coprire un’operazione segreta dell’esercito americano volta a rovesciare e assassinare il presidente Gheddafi. In Siria Avaaz ha auspicato a più riprese l’intervento militare degli USA e della NATO ed è nota per il suo aperto appoggio al famigerato gruppo dei caschi bianchi. Inoltre, ha anche accusato più volte il presidente Assad di aver usato armi chimiche contro la popolazione, accuse, come noto, rivelatesi infondate. Un’attenzione particolare è sempre stata rivolta all’Iran, dove Avaaz non fa mistero di auspicare un cambio di regime. Già nel 2009 l’organizzazione mise a disposizione server proxy in occasione delle proteste avvenute durante le elezioni presidenziali, per consentire il caricamento di video da parte dei rivoltosi e aggirare la censura governativa. In Venezuela Avaaz ha appoggiato apertamente i movimenti di protesta contro il governo soprattutto attraverso la sua organizzazione-sorella AccessNow.org ed è arrivata a ospitare una petizione per chiedere che il presidente Maduro venga processato dinanzi alla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità. Avaaz è, inoltre, da sempre un noto centro di propapanda russofobica. Il suo bersaglio privilegiato è ovviamente il presidente Putin. Nel 2012 si è schierata a favore del movimento Pussy Riot, nello stesso anno ha attaccato Putin per i presunti 20 appartamenti di sua proprietà, nel 2018 ha lanciato una campagna per boicottare i mondiali di calcio in Russia come forma di ritorsione contro i “crimini di guerra” che la Russia starebbe commettendo in Siria. In patria Avaaz è nemica dichiarata del presidente Trump, contro il quale ha lanciato fin dal 2016 numerose petizioni, chiedendo, tra le altre cose, che venga sottoposto a investigazione. In Francia Avaaz si è apertamente schierata contro il movimento dei gilets jaunes. Nel marzo 2019 il suo campaign director Christoph Schott ha dichiarato che l’ascesa del movimento sarebbe stata facilitata da “oltre 100 milioni di visualizzazioni di fake news” su Facebook. Inoltre, ha denunciato che il network russo RT avrebbe ottenuto più del doppio delle visualizzazioni di tutti i principali media francesi messi insieme, insinuando tra le righe che il movimento dei gilets jaunes sarebbe segretamente finanziato dalla Russia. Tra i paesi “attenzionati” dall’organizzazione negli ultimi anni non poteva mancare infine l’Italia. Fu proprio su segnalazione di Avaaz che a metà maggio del 2019, appena due settimane prima delle elezioni europee, Facebook chiuse 23 pagine italiane vicine alle posizioni di Lega e M5S con oltre due milioni e mezzo di follower con le accuse più disparate (fake news, razzismo, antivaccinismo, contenuti divisivi). Negli stessi giorni Avaaz ha lanciato una raccolta di fondi per l’iniziativa Sostieni il movimento contro l’odio, avente come obiettivo dichiarato quello di “fermare l’estrema destra” in Italia alle elezioni europee.

Anche se è difficile quantificare gli effetti pratici che tali iniziative producono alla fine sui processi politici, sociali e geopolitici, è innegabile che i tentativi di ingerenza di Avaaz trovano quasi sempre un’ampia e calorosa ricezione presso i CEO delle principali reti sociali e i più influenti mainstream mondiali di area liberal-progressista. Il successo di Avaaz, in sostanza, è riconducibile in larga misura alla fitta rete di relazioni privilegiate che i suoi membri di primo livello vantano con tutti gli ambienti politici, militari e istituzionali più influenti a livello globale, dal governo americano ai grandi network occidentali fino a enti scientifici come l’IPCC.

5.2 La "guerra alle fake news" come arma politica per eliminare il dissenso

Ultimamente, però, Avaaz sembra essersi concentrata, in modo particolare, su quella che essa stessa definisce come “la guerra alle fake news”, concetto nel quale fa rientrare arbitrariamente più o meno tutto ciò che considera un ostacolo alla propria agenda globalista, siano essi candidati alla presidenza, partiti politici di orientamento sovranista in Europa, movimenti di massa come i gilets jaunes o tendenze nel mondo scientifico e culturale come il cosiddetto scetticismo o negazionismo climatico. L’approccio politico e mediatico usato da Avaaz in tutti questi casi nasconde sempre un’ambiguità di fondo, che consiste nel presentarsi come un attore o un giudice imparziale grazie al proprio status di organizzazione non governativa, quando, in realtà, persegue fin troppo scopertamente finalità politiche ben precise, anche perché quasi sempre apertamente dichiarate. Quelle che Avaaz chiama “campagne contro le fake news”, a ben guardare, sono sempre a tutti gli effetti campagne politiche attraverso le quali l’organizzazione si prefigge di danneggiare avversari politici ben identificati per favorirne, direttamente o indirettamente, altri. L’obiettivo non dichiarato, invece, è quello di mettere a tacere tutte le voci considerate scomode, eliminandole sistematicamente dalle reti sociali mediante pressione sui grandi network della comunicazione.
Le campagne di Avaaz seguono sempre un pattern ben definito, che si compone essenzialmente di tre fasi. La prima fase consiste nell’individuare un modello politico, ideologico o scientifico di riferimento, che viene utilizzato come base etica ed epistemologica sulla quale far riposare le proprie rivendicazioni. Quasi sempre si tratta di un organismo politico, normativo o scientifico internazionale, che viene presentato come depositario di una verità assoluta e insindacabile, come una sorta di ultima istanza inappellabile. Ad esso si fa costante riferimento durante le campagne attraverso il ricorso sistematico all’argomentum ad auctoritatem e all’ipse dixit. La seconda fase consiste nell’individuare il target politico da colpire. Il target, che può essere rappresentato di volta in volta da un candidato, un gruppo, un movimento, un partito politico o, come nel caso esaminato, da un’intera branca del mondo scientifico, viene presentato come un “pericolo” per la democrazia e il bene della società, in quanto non rispetterebbe i canoni etici, politici, economici, ambientali o scientifici definiti nel modello di riferimento. La terza fase consiste, infine, nel raccogliere “prove” contro il target prescelto o i suoi sostenitori e nel consegnarle alla rete sociale in questione (Facebook, Twitter, YouTube, Google ecc.) affinché questa ne decreti l’eliminazione o l’emarginazione.

Sia pure in maniera meno esplicita, l’organizzazione stessa riconosce che è proprio questo il suo obiettivo fondante. All’ultima pagina del report si legge infatti: “Le fake news che proliferano sulle reti sociali rappresentano una grave minaccia per la democrazia, la salute e il benessere delle comunità e la sicurezza delle persone più vulnerabili. Avaaz non si esime dal segnalare i risultati delle proprie ricerche sulla disinformazione, in modo da poter allertare e informare le piattaforme di social networking, gli organi regolatori e l’opinione pubblica e aiutare la società a promuovere soluzioni intelligenti per difendere l’integrità delle nostre elezioni e delle nostre democrazie”.
Che si parli di politica in senso stretto o di cambiamenti climatici, insomma, il pattern usato da Avaaz è sempre lo stesso: ricondurre l’avversario da colpire entro i confini, scelti quasi sempre in modo arbitrario, della “disinformazione” e delle “fake news”, quindi cercare di eliminarlo o renderlo inoffensivo in quanto soggetto “pericoloso per la democrazia” facendo pressione sulla rete sociale in questione.

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