"Il copione teatrale dell'anti-italiano consiste nell'attribuire all'intera collettività nazionale i difetti specifici ed irripetibili della propria canagliesca personalità individuale, con in più l'ipocrisia del tirarsene fuori e del fingersi un sofisticato lord anglo-scandinavo capitato per caso in un mondo di trogloditi mediterranei".
Costanzo Preve

Tutti sanno che cos’è l’anti-italianità. È l’abitudine di riferirsi al popolo dello stivale come a una massa di ignoranti, parassiti, incapaci, incompetenti, fannulloni, nel migliore dei casi marpioni dediti a tempo pieno alla buona cucina, al bere e al rimorchio di belle donne. Ultimamente capita spesso di ascoltare, specie in ambienti sovranisti, anche il termine “autorazzista”, che, in teoria, dovrebbe essere sinonimo di anti-italiano, con una sfumatura volutamente provocatoria. In realtà, questo termine è fuorviante.

L’anti-italiano non è mai autorazzista. Al contrario, parte sempre dal presupposto implicito di non far parte della normalità italica, ma di un non meglio precisato sottoinsieme di eletti separato dal resto. Una sorta di élite di prescelti, una cerchia ristretta e selezionata di eccellenze cerebrali, una crema filtrata, una riserva d’annata formatasi per separazione dalla feccia e, pertanto, naturalmente predestinata alla guida del paese. A rigore semantico, autorazzismo dovrebbe significare, infatti, razzismo contro se stessi, il che presupporrebbe un sentirsi inferiore, una bassa autostima. Niente di più lontano dalla realtà. Chiunque abbia avuto modo di discutere con un tipico anti-italiano avrà certamente tratto l’impressione opposta: quella di un individuo che ha una smisurata opinione di se stesso e non fa nulla per nasconderla. Niente lo rende più orgoglioso che esibire spavaldamente i titoli conseguiti in una qualche università americana, i paper pubblicati all’estero, il libro che si accinge a mandare all’editore, il numero di citazioni o le posizioni che ha ricoperto in una qualche multinazionale. Oppure ti ricorderà, senza che nessuno glielo abbia chiesto, che ha investito i suoi risparmi in Bund o in qualche fondo lussemburghese, perché lui, ovviamente, non si fida del sistema bancario italiano e attende, con aria compiaciuta, che l’Italia faccia default per avere la conferma di quanto stupidi siano gli italiani e quanto scaltro e intelligente sia lui. E tutto questo lo farà preferibilmente nel bel mezzo di una discussione in cui si trova a corto di argomenti, per dirti, in sostanza, che i tuoi grafici e i tuoi dati, ancorché ufficiali e inattaccabili, non contano nulla. No, perché la verità non si dimostra con le evidenze e con gli argomenti, ma con i titoli e i riconoscimenti. Un dogma, quello del titolo, che ogni anti-italiano è costretto a difendere con le unghie e con i denti da quando esistono quelle maledette reti sociali, che hanno “dato la parola a legioni di imbecilli” (cit). Da qui il ricorso ossessivo a espressioni come analfabeti funzionali, capre, scappati di casa e tutto il resto degli epiteti ingiuriosi divenuti ormai press’a poco sinonimi di italiano medio estromesso dal Gotha dell’epistocrazia. L’anti-italiano ha per natura una presunzione illimitata di chiaroveggenza. Si sente depositario, insieme a pochi altri, della verità assoluta ed è convinto che tale superiorità si evidenzi quanto più riesce a dimostrare la sua diversità rispetto all’italiano medio. L’idea, insomma, è che quanto più un italiano è de-italianizzato, tanto più apparterrebbe a una presunta élite sovranazionale di illuminati, che condividerebbero tra loro gli stessi valori globali. Italiano sì, ma solo di nascita. Cittadino del mondo per scelta.

Si capisce bene ora perché l’anti-italiano sia sempre anche uno strenuo difensore dell’Unione Europea e della globalizzazione. Non già perché le conosca veramente o abbia mai riflettuto fino in fondo sulle conseguenze che esse hanno portato nella vita di tutti i giorni. Ma perché rappresentano il suo sogno di fuga dall’italianità. L’anti-italiano ha un bisogno irrefrenabile di annullarsi in un qualcosa di più grande del suo paese di origine, perché essenzialmente è proprio di quello che si vergogna. No, non ha nulla contro l’identità culturale o religiosa. Per quella altrui, ad esempio, è pronto a scendere in piazza e a immolarsi in nome del multiculturalismo. È la propria identità che gli crea imbarazzo. È quella che vorrebbe vedere cancellata per sempre. Analogamente i confini non gli creano nessun problema fintanto che non sono quelli italiani. Non lo senti mai alzare la voce quando altri paesi vicini chiudono i loro porti o le loro frontiere. È l’Italia che dovrebbe aprirli illimitatamente. Vorrebbe, in sostanza, che l’Italia diventasse la proiezione del suo paesaggio mentale. Un paesaggio in cui l’Italia è sempre meno popolata da italiani. Perché questo, di per sé, la renderebbe migliore.

Nessun autorazzismo, dunque. Nessun vero sentimento di inferiorità. Al contrario, l’anti-italianità va di pari passo, se mai, con il razzismo puro e semplice, senza “auto-” davanti. Con la presunzione di rappresentare un’élite differenziata che merita di decidere per tutti gli altri. Élite, a seconda dei casi, culturale, accademica, scientifica, finanziaria, a volte tutto questo insieme. Ha a che fare con la volontà di distinguersi dalla plebe, di differenziarsi dagli sfigati, dai “perdenti”, da tutti quelli non ce l’hanno fatta. Chi è senza patentino non dovrebbe votare, li senti dire ultimamente, dando per scontato che loro lo riceverebbero d’ufficio. O perché hanno i titoli o perché mettono i “Mi piace” a uno che ce li ha. Perché l’anti-italiano ha assorbito e fatto propri tutti i dogmi del liberismo globalista, anche quando finge o si illude che non sia così, ad esempio nascondendosi dietro una bandiera rossa o un altro simbolo di una sinistra in cui lui è il primo a non credere più. È più spocchioso e, non di rado, più arrogante di un aristocratico del Settecento. Mentre l’aristocratico faceva derivare il suo senso di superiorità dal sangue, l’anti-italiano è convinto, infatti, che il successo dipenda unicamente dal merito. Nel fallimento e nelle difficoltà altrui trova la conferma della sua presunta superiorità, ma anche la conferma che questo è il migliore dei sistemi possibili, perché seleziona “naturalmente” i più bravi e scarta gli inutili e i falliti. E lui si sente parte di questa epistocrazia globale. Si annovera compiaciuto in questo brodo ristretto intercontinentale, in questa selezione sovranazionale di teste, formata solo dai migliori di ogni dove. Gli piace pensarlo e farà di tutto per farti sentire una nullità. Non perché gli interessi qualcosa di te, ma perché è ossessionato dal bisogno di dimostrare a se stesso che è qualcuno e conta veramente qualcosa.

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