Come mi accade ormai abitualmente da qualche tempo, stamani mi sono letto tra le email mattutine il Morning Briefing di Gabor Steinhard, giornalista tedesco, ex caporedattore di Handelsblatt, di orientamento liberalconservatore, filoeuropeista e globalista (giusto per mantenere inalterato il mio quotidiano livello di masochismo). Oggi ci parla della protesta in Germania di musicisti, ballerini, attori, comici, artisti visivi, operatori di scena, truccatori, tecnici e produttori, tutti pesantemente colpiti dalle misure restrittive che il governo federale tedesco ha deciso di adottare per far fronte al preoccupante aumento dei contagi. Con lo stesso tono melodrammatico delle Mannoia, dei Gassman, dei Favino, dei Pelù di casa nostra, anche gli equivalenti tedeschi si prodigano in queste ore in accorati appelli in difesa della cultura e dell’arte. Come farà la nostra società a sopravvivere senza, si domandano. Alcuni di loro si spingono addirittura a osservazioni più profonde e vagamente esistenziali, ad esempio che cosa fare d’ora in poi nella vita se il lockdown dovesse durare più del previsto. Già, una bella domanda. Magari, potrebbero chiedere una consulenza al salumiere all’angolo, che probabilmente se la sta ponendo da marzo.
Insomma, anche in Germania, come da noi, improvvisamente il mondo dell’arte e dello spettacolo si sveglia e inizia a rendersi conto della propria insignificanza e della propria futilità. Chi fino a ieri si riteneva insostituibile e indispensabile, oggi scopre che il mondo può fare benissimo a meno di lui e, improvvisamente, vede il baratro sotto i propri piedi. Improvvisamente pretenderebbe dal governo e dagli altri quella stessa solidarietà che finora non si è degnato di prestare a chi ha dovuto chiudere forzatamente il bandone del negozio, del ristorante, del bar o restare a casa da aprile in Kurzarbeit (la cassa integrazione tedesca). Come sempre, ognuno scopre la realtà dell’alluvione solo quando l’acqua inizia a bagnare il proprio orticello. Analogamente, da noi si è dovuto attendere che l’ultimo DPCM decretasse la chiusura di cinema e teatri perché molti artisti e “intellettuali”, fino ad oggi impegnatissimi a fare da megafono al governo sulle reti sociali, si rendessero conto improvvisamente di cosa significa per milioni di persone non poter lavorare. Fintanto che a chiudere erano le discoteche di Briatore, le battutine si sprecavano. Chi andava in piazza o veniva colto in flagrante senza mascherina veniva etichettato come negazionista, irresponsabile e untore. Chi in estate si è concesso il lusso di una serata in discoteca, di una giornata in spiaggia o di una cena al ristorante dopo mesi di quarantena in casa è stato non di rado additato come vera e propria causa della seconda ondata. Convinti, come sempre, di far parte di un’élite epistemocratica che ha capito tutto, può tutto e non ha bisogno di altro se non di se stessa. Al massimo, di un po’ di censura per chi non si allinea e “mette a rischio la vita altrui”. Oggi non ridono più. Al contrario, rivendicano con forza per se stessi quel diritto di protesta che fino a ieri avrebbero volentieri negato ad altri. La prospettiva di ritrovarsi col sedere sul selciato, insomma, sembra averli finalmente resi consapevoli che sono come gli altri. Anzi, assai meno indispensabili di tanti altri.