NEGAZIONISTI PER CASO

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Le nuove misure restrittive che i governi europei si accingono ad adottare per far fronte all’emergenza Covid stanno suscitando vivaci proteste anche in Germania. Così come in Italia, il mondo dell’arte e dello spettacolo si accorge improvvisamente che la pandemia miete vittime non solo tra chi contrae il virus, ma anche e soprattutto tra chi viene obbligato per legge alla chiusura dell’attività e viene privato, in tal modo, della propria fonte di reddito e di sostentamento. Un risveglio tardivo che conferma non solo l’ormai ben noto distacco della classe intellettuale rispetto al resto della popolazione, ma anche il monadismo di una società sempre più verticale quanto più si illude di poter risolvere i conflitti per via orizzontale.

AlarmstufeRot - Manifestazione di artisti e operatori dello spettacolo a Berlino contro le misure del governo

Come mi accade ormai abitualmente da qualche tempo, stamani mi sono letto tra le email mattutine il Morning Briefing di Gabor Steinhard, giornalista tedesco, ex caporedattore di Handelsblatt, di orientamento liberalconservatore, filoeuropeista e globalista (giusto per mantenere inalterato il mio quotidiano livello di masochismo). Oggi ci parla della protesta in Germania di musicisti, ballerini, attori, comici, artisti visivi, operatori di scena, truccatori, tecnici e produttori, tutti pesantemente colpiti dalle misure restrittive che il governo federale tedesco ha deciso di adottare per far fronte al preoccupante aumento dei contagi. Con lo stesso tono melodrammatico delle Mannoia, dei Gassman, dei Favino, dei Pelù di casa nostra, anche gli equivalenti tedeschi si prodigano in queste ore in accorati appelli in difesa della cultura e dell’arte. Come farà la nostra società a sopravvivere senza, si domandano. Alcuni di loro si spingono addirittura a osservazioni più profonde e vagamente esistenziali, ad esempio che cosa fare d’ora in poi nella vita se il lockdown dovesse durare più del previsto. Già, una bella domanda. Magari, potrebbero chiedere una consulenza al salumiere all’angolo, che probabilmente se la sta ponendo da marzo.

Insomma, anche in Germania, come da noi, improvvisamente il mondo dell’arte e dello spettacolo si sveglia e inizia a rendersi conto della propria insignificanza e della propria futilità. Chi fino a ieri si riteneva insostituibile e indispensabile, oggi scopre che il mondo può fare benissimo a meno di lui e, improvvisamente, vede il baratro sotto i propri piedi. Improvvisamente pretenderebbe dal governo e dagli altri quella stessa solidarietà che finora non si è degnato di prestare a chi ha dovuto chiudere forzatamente il bandone del negozio, del ristorante, del bar o restare a casa da aprile in Kurzarbeit (la cassa integrazione tedesca). Come sempre, ognuno scopre la realtà dell’alluvione solo quando l’acqua inizia a bagnare il proprio orticello. Analogamente, da noi si è dovuto attendere che l’ultimo DPCM decretasse la chiusura di cinema e teatri perché molti artisti e “intellettuali”, fino ad oggi impegnatissimi a fare da megafono al governo sulle reti sociali, si rendessero conto improvvisamente di cosa significa per milioni di persone non poter lavorare. Fintanto che a chiudere erano le discoteche di Briatore, le battutine si sprecavano. Chi andava in piazza o veniva colto in flagrante senza mascherina veniva etichettato come negazionista, irresponsabile e untore. Chi in estate si è concesso il lusso di una serata in discoteca, di una giornata in spiaggia o di una cena al ristorante dopo mesi di quarantena in casa è stato non di rado additato come vera e propria causa della seconda ondata. Convinti, come sempre, di far parte di un’élite epistemocratica che ha capito tutto, può tutto e non ha bisogno di altro se non di se stessa. Al massimo, di un po’ di censura per chi non si allinea e “mette a rischio la vita altrui”. Oggi non ridono più. Al contrario, rivendicano con forza per se stessi quel diritto di protesta che fino a ieri avrebbero volentieri negato ad altri. La prospettiva di ritrovarsi col sedere sul selciato, insomma, sembra averli finalmente resi consapevoli che sono come gli altri. Anzi, assai meno indispensabili di tanti altri.

Tutto il mondo è paese, certo, ma nella società globalizzata nella quale viviamo questo dovrebbe essere ormai un dato acquisito. Che accada anche in Germania non è una grande consolazione. Se mai, è la riprova che la nostra società, che ostinatamente molti continuano a definire democrazia, è diventata ormai un coacervo informe di monadi, che convivono faticosamente tra loro senza alcuna reale intenzione di integrarsi. Ogni monade pensa per sé, guarda unicamente a se stessa, osserva e giudica i fenomeni del mondo solo in relazione a se stessa. Anche l’etica ha cessato da tempo di essere universale ed è stata sostituita da codici di valori mobili, variabili, applicabili a giorni alterni a seconda della convenienza, più precisamente dell’impatto che un certo fenomeno o evento potrà avere sul proprio gruppo o sulla propria categoria. Un sondaggio pubblicato ieri in Italia, ad esempio, rileva che, mentre lavoratori autonomi e imprenditori sono fermamente contrari a un secondo lockdown, la proposta trova, invece, ampi consensi tra i dipendenti pubblici. Il double standard è diventato ormai il modus cogitandi e il modus operandi di ogni gruppo. Si passa dall’indifferenza all’indignazione nel giro di ore. Ciò che suscita ilarità o scherno fintanto che colpisce qualcun altro, diventa improvvisamente intollerabile quando colpisce noi in prima persona. Anzi, si pretenderebbe a quel punto che diventasse una priorità sociale e nazionale. Questo monadismo è poi amplificato dalle reti sociali, le quali tendono notoriamente a creare un effetto guadagno amplificando il raggio di azione percepito di tutti i gruppi chiusi e coesi tra loro, ad esempio attraverso la pratica del retweet e della condivisione. Il risultato è che si finisce facilmente per credere che il limite del mondo coincida con il limite della propria bolla. Eppure, basterebbe guardare fuori dalla finestra per accorgersi che non è così.

In una società in cui c’è sempre più voglia di censura del pensiero non allineato e sempre meno predisposizione ad ascoltare ed accettare l’altro, ad onta delle dichiarazioni di facciata che vorrebbero dimostrare il contrario, il Covid sembra essere diventato paradossalmente l’unico elemento propriamente “democratico”. Tutti, presto o tardi, lo sperimentano. Ma c’è molto di più. L’abisso che si profila oggi davanti a milioni di individui, terrorizzati dall’idea di perdere le poche certezze su cui facevano affidamento e ragionevolmente in ansia per il proprio futuro, mette a nudo le contraddizioni della società liberale occidentale e l’irrefrenabile processo di prosciugamento delle risorse dalla base verso la cima della piramide (si noti in proposito la crescita dei fatturati di molte società digitali come Amazon e Facebook da marzo a oggi). In quanto “livella”, al pari della morte e della guerra, anche la pandemia avrebbe in sé tutte le potenzialità, almeno in astratto, per stimolare un ripensamento dei rapporti di forza all’interno della società e creare le basi per una discussione e una ridefinizione di valori e obiettivi comuni. Ma in una società che si è ormai abituata da decenni a nascondere i conflitti economico-sociali verticali dietro battaglie orizzontali (maschio vs femmina, bianchi vs neri, autoctoni vs immigrati, eterosessuali vs LGBT, no-vax vs vaccinisti ecc.), questa speranza appare oggi alquanto vana. Ognuno preferisce nascondere la testa sotto la sabbia e negare la realtà, fintanto che un giorno non si scopre anch’egli negazionista per caso.

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