INFO-WARFARE, LA ‘TERZA GUERRA’

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Un’analisi della info-warfare, la guerra dell’informazione, in relazione ai due principali conflitti in atto, quello russo-ucraino in Europa e quello israelo-palestinese in Medio Oriente. Come questa terza guerra si collega alle altre due guerre, e come interagisce con esse. Non solo propaganda, ma anche psy-ops.

Nell’ambito della Grande Guerra Globale in cui ci troviamo immersi – e che segnerà certamente i decenni a venire – possiamo vedere in atto almeno tre guerre: quella europea, quella mediorientale e quella dell’informazione. Le prime due cercano di ottenere risultati politici attraverso l’uso delle armi, la terza attraverso il condizionamento delle opinioni pubbliche mondiali (e quindi dei governi).
Ma non si tratta di tre guerre separate, anzi sono strettamente intrecciate le une con le altre, e sotto molteplici aspetti. Delle relazioni tra le due guerre guerreggiate abbiamo del resto già detto in un precedente articolo [1].Le mosse tattiche e le manovre strategiche della guerra informativa tengono conto di quanto avviene sui campi di battaglia, cercano di darvi un senso inquadrandolo in una particolare lettura, sia al fine di confondere (e/o mobilitare) le opinioni pubbliche, sia nell’ambito di vere e proprie psy-ops volte a disorientare il nemico o a proteggere la parte che le mette in atto.

Se si tiene in mente questa premessa, si può provare a decifrare il significato di molte recenti mosse tattiche di questa guerra dell’informazione. E già il loro intensificarsi, per quantità e per qualità, oltre che per i contenuti, suggerisce chiaramente come le guerre guerreggiate siano in una fase critica, che richiede interventi narrativi esterni ai campi di battaglia.
In particolare, esamineremo sia dichiarazioni ufficiali, come quella del Segretario alla Difesa USA Lloyd Austin, che una serie di indiscrezioni ed analisi giornalistiche, con riferimento sia al conflitto russo-ucraino che a quello israelo-palestinese. Ad esempio, è assai interessante osservare quanto detto da Austin, che ha parlato di entrambe i conflitti. Secondo il Segretario, gli Stati Uniti non permetteranno che Putin e Hamas vincano; e lo potranno fare poiché sono “il paese più potente sulla terra” [2].
Questa dichiarazione, che mette sul medesimo piano sia l’Ucraina che Israele, ma soprattutto sia Putin (la Russia) che Hamas, giunge in realtà in un momento assai critico su entrambe i fronti.

Per quanto riguarda il conflitto in Ucraina, mentre Austin dichiara la capacità statunitense di “dirigere le risorse in più teatri”, al Congresso si sta in effetti svolgendo una battaglia parlamentare perché invece le risorse per Kiev sono esaurite [3], e la maggioranza repubblicana alla Camera è assai restia a votare nuovi finanziamenti. Ma soprattutto – come testimoniato dal rovesciamento della narrazione occidentale – la guerra sta andando esattamente in direzione opposta. Il Washington Post, notoriamente ben connesso col Pentagono e coi servizi americani, ha addirittura dedicato una lunga analisi, suddivisa in due parti ed affidata all’intero staff redazionale, per esaminare le cause del fallimento della famosa controffensiva ucraina della scorsa estate [4], ma sostanzialmente per suonare il de profundis per le illusioni di vittoria ucraine. Articoli del medesimo tono si sono susseguiti su varie testate internazionali, da ultimo Der Spiegel [5].

Anche se il Segretario alla Difesa proclama la volontà americana di non far vincere i nemici dell’occidente, la realtà è ben diversa – e lui lo sa fin troppo bene. Questa realtà è che la guerra in Ucraina è perduta, ed ora la partita diventa piuttosto come uscirne salvando la faccia (ed il prestigio). Per gli Stati Uniti oggi è questa la priorità, impacchettare una narrazione abbastanza credibile per cui la sconfitta risulti spendibile come un pareggio. Ovviamente il problema non è l’opinione pubblica americana, che peraltro sa a malapena dove si trova l’Ucraina, quanto la credibilità internazionale degli USA come grande potenza – e quindi della sua capacità di difendere i paesi amici e di colpire quelli nemici. Un problema che richiede urgentemente una risposta (preferibilmente prima delle presidenziali americane…); nonostante la guerra porti vantaggi economici agli states, infatti, quanto più si prolunga tanto più diventa probabile che la vittoria russa sia clamorosamente evidente. Il che è da evitare come la peste.

Oggi il principale ostacolo affinché si possa addivenire ad una soluzione accettabile per Washington sembra essere il povero Zelensky. Osannato e portato sugli allori per quasi due anni, convinto proprio dagli anglo-americani a non trattare coi russi quando ancora era possibile (e come ormai confermato universalmente), è ormai prigioniero del personaggio che gli hanno costruito addosso – oltre che delle sue dipendenze… – e quindi, incapace com’è di cambiare ruolo in commedia alla velocità richiesta dal regista, si trova condannato ineluttabilmente alla rimozione.
Non a caso, è ancora una volta la stampa internazionale amica che si incarica di scaricarlo. Le indiscrezioni sul suo gradimento interno in calo, così come quelle sulla rivalità col comandante delle forze armate Zaluzhny [6] (al momento suo più accreditato successore), sono ormai quasi a livello di gossip. Solo che la questione è assai seria.

Anche se i pretendenti al trono non mancano – oltre Zaluzhny, di sicuro l’ex consigliere di Zelensky, Arestovych, e forse l’ex presidente Poroshenko ed il capo dei servizi Budanov – in questa fase il capo delle forze armate sembra essere in pole position. A frenare la sua ascesa c’è probabilmente una certa diffidenza da parte americana, nata proprio durante la controffensiva, quando di fatto l’esercito ucraino non seguì le indicazioni tattiche suggerite dai comandi NATO; una decisione, questa, presa proprio da Zaluzhny, e dalla quale è dipeso (secondo il Pentagono) il successivo fallimento. Oltretutto, proprio di recente, durante la visita di Austin a Kiev, il generale ha avanzato delle richieste esorbitanti (17 milioni di proiettili e 400 miliardi di dollari), che hanno generato non poca perplessità a Washington. Non solo una tale quantità di munizioni per artiglieria non sarebbe disponibile nemmeno raccogliendola da tutto il mondo (cosa che Zaluzhny non può ignorare), per tacere dei miliardi…, ma una simile richiesta sembra indicare la volontà di continuare la guerra ancora a lungo, piuttosto che di condurre il paese verso una trattativa.

E qui si inserisce l’ultimo articolo di Seymour Hersh. Secondo il noto giornalista d’inchiesta americano, infatti, sarebbe in corso una trattativa segreta tra ucraini e russi, condotta proprio da Zaluzhny per i primi, e dal comandante in capo russo Gerasimov per i secondi. Secondo quanto riportato da Hersh [7], che si rifà a quanto rivelatogli da fonti militari USA, la base della trattativa sarebbe da un lato la cessione di tutti i territori conquistati alla Russia, e dall’altro l’ingresso dell’Ucraina nella NATO, con l’impegno a non ospitare sul proprio territorio armi e/o truppe di altri paesi.
Com’è abbastanza evidente, questa notizia – così come riportata – appare assai poco credibile.
Innanzi tutto, non si vede perché gli Stati Uniti dovrebbero avere interesse a rivelare una tale trattativa, se fosse realmente in atto, quando è evidente che renderla pubblica significa sia acutizzare le tensioni tra Zaluzhny e Zelensky, sia soprattutto minarne le possibilità di successo.

Ma soprattutto, a renderla poco credibile, sono i presunti termini dell’accordo – per non parlare del fatto che un trattativa di tale livello, che implica decisioni fondamentali, di certo non potrebbe essere condotta da Gerasimov, che sarebbe tutt’al più abilitato a discutere un temporaneo cessate il fuoco.
È comunque semplicemente impensabile che la Russia accetti uno scambio in cui prende ciò che già ha, e che nessuno può realisticamente pensare di toglierle, e cede proprio sul punto fondamentale per cui è cominciata la guerra, ovvero l’adesione alla NATO da parte di Kiev.
Per quanto è possibile che i vertici politico-militari occidentali siano imprigionati nel proprio schema mentale, secondo il quale l’assenza di sostanziali cambiamenti territoriali implica una situazione di stallo (laddove invece i russi perseguono la distruzione dell’esercito ucraino, non la conquista del territorio), e quindi possano ritenere di trovarsi in una situazione di equilibrio, dalla quale entrambe le parti abbiano interesse ad uscire, credere che Mosca possa accettare un’Ucraina nella NATO è davvero fuori dalla realtà.

Ne consegue che la rivelazione soffiata a Hersh è nella migliore delle ipotesi un ballon d’essai; molto più probabilmente un’operazione di psy-ops. Lo scopo è ovviamente mandare un messaggio, innanzi tutto proprio a Zelensky: bada, è arrivato il momento di trattare, se non lo fai tu lo faremo fare a qualcun altro. Secondariamente, il messaggio è per lo stesso Zaluzhny: possiamo passarti lo scettro, ma a condizione che porti a termine una trattativa come nostro intermediario. Perché ovviamente i termini di un accordo devono avere l’ok statunitense. Ed infine, sullo sfondo, c’è il messaggio universale, all’opinione pubblica occidentale, che dice: la guerra sta per finire, costringeremo la Russia ad accettare le nostre condizioni, sia pure sacrificando qualcosa.
E naturalmente ciò a prescindere dal fatto che possano esserci realmente o meno dei colloqui riservati tra i due comandanti militari.

Sull’altro fronte di guerra guerreggiata, la Palestina, e nonostante molte apparenze, le cose non stanno molto diversamente.
C’è ovviamente una immane tragedia umanitaria in atto, superiore a quella ucraina non certo per i numeri (la guerra europea conta oltre 400.000 morti solo da parte ucraina) ma per la conclamata volontà di sterminio, e perché diretta intenzionalmente contro la popolazione civile. Ma il tentativo di genocidio della popolazione palestinese di Gaza è soprattutto una gigantesca operazione di occultamento. E ciò che deve nascondere è il doppio fallimento israeliano, quello del 7 ottobre così come quello dell’intera operazione militare di rappresaglia.
Il vero problema posto ad Israele dall’operazione al-Aqsa Flood è infatti del tutto simile a quello posto agli USA dall’evoluzione del conflitto in Ucraina. Ha, cioè, minato il potere di deterrenza dello stato ebraico.

Se guardiamo agli avvenimenti del 7 ottobre, è impossibile non rendersi conto di come questi abbiano sovvertito l’agenda internazionale, e più di ogni cosa di come abbiano colpito Tel Aviv nel suo tallone d’Achille. Per Israele, infatti, un paese con meno di dieci milioni di abitanti (peraltro non tutti di religione ebraica), che si trova circondato in profondità da centinaia di milioni di arabi e musulmani, la capacità di rintuzzare qualsiasi ostilità da parte dei suoi nemici – e di farlo efficacemente e rapidamente – è un elemento fondamentale per la sua sopravvivenza. Mettere in discussione la sua capacità di risposta militare, e la sua capacità di prevenzione d’intelligence, significa minare le fondamenta su cui lo stato ebraico ha costruito le sue relazioni coi paesi vicini.
A fronte di ciò, persino l’aver rimandato quanto meno sine die l’applicazione degli Accordi di Abramo, così come l’aver riportato prepotentemente la questione palestinese al centro del dibattito mondiale, offuscando in 24 ore il conflitto russo-ucraino, appaiono risultati di minore importanza.

Aver mostrato che Tsahal può essere preso di sorpresa e battuto, che i mitici (o meglio, mitizzati) servizi segreti israeliani non sono poi così efficienti, è il vero colpo mortale ad Israele. Ed è precisamente questa la ferita che deve essere sanata il più in fretta possibile, nell’ottica della sicurezza futura dello stato.
L’attacco della Resistenza palestinese, dunque, segna immediatamente dei grossi punti a proprio vantaggio. E qual’è il risultato della controffensiva israeliana, a due mesi di distanza? Un picco assoluto nella politica di pulizia etnica certamente, che peraltro Israele persegue senza soste dal 1948, ma nulla di più. I rapporti con i paesi amici, dagli Stati Uniti ai paesi arabi e musulmani con cui intrattiene abitualmente proficui rapporti (Giordania, Egitto, Arabia Saudita, Turchia…) si sono quantomeno raffreddati. La condanna e l’isolamento internazionale, per quanto tenuto a freno, sono larghissimi. Il costo economico della guerra è pesante, assai più del prevedibile. L’ostilità attiva del fronte arabo si è incrementata (alla Resistenza palestinese ed agli Hezbollah si sono aggiunte le milizie sciite irachene e quelle yemenite). La pluridecennale carriera politica di Netanyahu, già traballante, è chiaramente giunta al termine.

Cosa forse ancor più rilevante, la crisi innescata dagli eventi del 7 ottobre potrebbe persino, sul medio periodo, mettere in discussione l’intero progetto politico del sionismo. Con la rappresaglia portata avanti dalle forze armate israeliane, infatti, Tel Aviv si è spinta al limite estremo praticabile, nel suo disegno di pulizia etnica; è abbastanza evidente che oltre quella soglia non le sarebbe possibile andare, né ora né in futuro. E se nemmeno questo ha reso possibile perseguire il sogno messianico della Grande Israele, né tantomeno è servito a sconfiggere definitivamente la resistenza del popolo palestinese (e non solo quella armata), appare chiaro che il sogno è irrealizzabile, che la battaglia demografica contro le popolazioni autoctone arabe è perduta.
Dunque, il bilancio della tempesta scatenata nel giorno del Simchat Tora è totalmente negativo per Israele.

E lo è, con tutta evidenza, anche sul piano strettamente militare. A due mesi dall’attacco, l’IDF può reclamare l’uccisione di un migliaio di combattenti palestinesi, quasi tutti durante l’attacco stesso, e di pochi comandanti di livello medio-basso. Ciò a fronte di una capacità stimata di 40.000 uomini in armi tra i vari gruppi della Resistenza. A fronte di quasi altrettanti militari caduti e/o prigionieri, compresi alti ufficiali, e migliaia di feriti – e oltre 2000 disertori/renitenti… A fronte di una capacità difensiva ed offensiva inalterata – continuano i massicci lanci di razzi sulle città israeliane, Tel Aviv compresa. A fronte del clamoroso emergere che gran parte delle vittime civili di quel 7 ottobre furono fatte proprio dall’IDF, in ottemperanza alla terribile Direttiva Annibale [8].
Ed ora, mentre l’alto comando israeliano dichiara ai media che le operazioni di terra nel nord sono quasi finite, e che la guerra continuerà nel sud, proprio a nord infuria la battaglia, ed in un solo giorno restano sul terreno (ufficialmente) sette tra graduati ed ufficiali dell’IDF.

Per Israele, ancor più che per gli Stati Uniti, la potenza militare è tutto. È la capacità, soprattutto attraverso la deterrenza, di difendere l’esistenza stessa dello stato. Ecco perché diventa fondamentale ripristinarla. Ripristinare, cioè, la credibilità della minaccia. Qualcosa che deve necessariamente partire proprio dal momento in cui si è incrinata.
Questo è il senso dell’avvertimento di Lloyd Austin (sempre lui), quando dice che Israele si sta dirigendo verso una “sconfitta strategica”. Perché “in questo tipo di combattimento il centro di gravità è la popolazione civile. E se la si spinge tra le braccia del nemico, si sostituisce una vittoria tattica con una sconfitta strategica”. Ovviamente, gli israeliani – che combattono i palestinesi da quasi ottant’anni – non hanno certo bisogno che qualcuno gli rammenti questi concetti banali; quel che intende Austin è: se non siete capaci di ottenere un successo almeno tattico contro la Resistenza armata, tutto questo è non solo inutile, ma persino controproducente.

E qui, ancora una volta, entra in gioco la guerra dell’informazione.
La prima fase del conflitto è stata dominata dalla propaganda, quella stile Bucha (i bambini decapitati, le donne violentate…); serviva come copertura per lanciare la feroce rappresaglia, ma ovviamente non ha retto più di qualche giorno. Poi è cominciata a trapelare la verità (gli elicotteri Apache che lanciavano missili sui ragazzi del rave in fuga, i carri armati che sparavano contro le case, il bombardamento sulla caserma di Eretz…), che ha messo in luce un ulteriore livello di debolezza dell’IDF – oltre l’impreparazione, il panico, il caos. Il vaso di Pandora si è rotto, ed a questo punto non resta che cercare almeno di rabberciarne i pezzi. E poiché non è possibile cancellare i fatti, bisogna rovesciarne l’interpretazione. Comincia, per dirla con Baudrillard, “lo psicodramma visivo dell’informazione”.

Se non puoi negare la realtà – l’attacco della Resistenza palestinese ha colto l’IDF con le braghe calate, e l’ha travolto – la puoi ribaltare. La nuova narrazione dice che sì, è accaduto, ma per una imperfezione umana, anche se il sistema aveva funzionato benissimo.
Si comincia a piccoli passi, c’era stata la segnalazione di qualche attività sospetta, ma non era stata presa sul serio. Poi viene fatta filtrare la notizia che un reparto femminile, addetto a visionare le riprese di video-sorveglianza, aveva a sua volta indicato strani movimenti al di là del confine ma (un po’ di sessismo non guasta) il comando non gli aveva dato ascolto [9]. Infine, in un crescendo rossiniano, ecco la stampa americana [10] sostenere che in realtà i servizi israeliani conoscevano dettagliatamente il piano di attacco già da un anno, ma avevano escluso che potesse essere realizzato, perché troppo ambizioso. Addirittura, ci viene detto che la conoscenza del piano era così approfondita, da essere (a giochi fatti) perfettamente sovrapponibile a quello messo in atto il 7 ottobre. In ogni singolo particolare.

Poi ci si lascia prendere dall’entusiasmo, e – last but not least – viene sganciata la bomba finale: non solo lo sapevano tutti, nel governo nei servizi e nell’esercito, ma addirittura c’è chi – sapendo – ne ha approfittato per fare una bella speculazione finanziaria! Anzi, è stata proprio Hamas [11] a farla!
Secondo quanto riportato da Haaretz, infatti, misteriosi individui hanno piazzato massicce scommesse contro Israele sui mercati di Tel Aviv e Wall Street, pochi giorni prima dell’attacco, guadagnando miliardi.
Inutile dire che tutto questo polverone [12] assolve perfettamente alla funzione di ingenerare una gran confusione; è quindi opportuno provare a diradarlo, per capirne di più.
Allo stato attuale delle cose, non siamo in possesso di elementi che possano farci affermare con certezza che si tratta di informazione-verità, o di falsa informazione, o addirittura di un’altra psy-ops. Possiamo però esaminare la questione sotto il profilo logico.

Intanto, sgombriamo il campo dalle cose meno credibili, come la storia della Resistenza che organizzava esercitazioni di attacco sotto gli occhi degli israeliani, e per di più alla presenza di uno dei massimi leader di Hamas. Cerchiamo piuttosto di separare il grano dal loglio, alla luce della ragionevolezza.
È possibile che alcune delle fasi preparatorie dell’attacco, che certamente sono state molto lunghe e laboriose, siano in qualche modo ed in qualche misura trapelate.
È possibile che, alla luce del quadro generale, gli eventuali segnali anomali arrivati dalla sorveglianza su Gaza siano stati sottovalutati e/o non sufficientemente collegati tra loro.
Se questa fosse l’ipotesi più attendibile, è difficile credere che sia arrivata ai più alti vertici politici e militari, e quindi il flusso di notizie si sarebbe interrotto ad un livello medio-basso. In tal caso, ciò avrebbe portato già adesso alla rimozione dei responsabili.

Ma se, come sostiene il NYT, i vertici israeliani conoscevano dettagliatamente il piano palestinese, addirittura un anno prima, ci sono molte cose che non tornano.
Innanzitutto, significherebbe che l’attività di sorveglianza e spionaggio israeliana è talmente accurata ed approfondita – e certamente proveniente da fonti diverse – da aver penetrato profondamente la struttura militare della Resistenza. Se lo Shin Bet, il Mossad e gli altri servizi avevano una tale capacità, appare del tutto incredibile che a) non abbiano, quanto meno in via precauzionale, approntato un piano per affrontare l’eventualità, b) non siano stati messi in preallarme, dalle proprie fonti, quando il piano è entrato nella fase operativa, e c) che la Resistenza, pur avendo tutto pronto, abbia atteso addirittura un anno per mettere in atto l’operazione – nonostante il crescente rischio che qualcosa trapelasse.
Ma, più di ogni altra cosa, a lasciare francamente molto più che un dubbio è un’altra considerazione.

Come è possibile che, con una simile capacità di intelligence, tale da conoscere con enorme anticipo e precisione un piano segreto, non sia poi capace – e ciò è di tutta evidenza – di conoscere anche solo sommariamente la struttura operativa della resistenza nella Striscia di Gaza? E parliamo della rete di tunnel, della dislocazione delle brigate combattenti, dei depositi di armi e viveri, delle batteria di lancio dei missili, dei posti comando… Se c’è una cosa che l’operazione Iron Sword (l’attacco di terra alla Striscia) dimostra con assoluta certezza, è che l’IDF non ha la minima idea di tutto ciò.
I pochi tunnel scoperti, le poche armi trovate, le poche rampe di lancio raggiunte, sono il risultato del caso, o la conseguenza di scontri a fuoco con le brigate resistenti. La stessa narrazione propagandistica annaspa, identificando i comandi dapprima sotto gli ospedali di Gaza City, ora sostenendo che sono stati spostati a Khan Younis.

È fin troppo evidente che, se davvero Israele avesse avuto questa capacità di penetrare i segreti militari della Resistenza, l’operazione ora in essere all’interno della Striscia avrebbe tutt’altro sviluppo ed esito.
Banalmente – ma nemmeno tanto – pensiamo all’uccisione di combattenti palestinesi rivendicata dall’IDF (e, per inciso, si noti che non risulta nessun combattente catturato, a Gaza…); lo stato maggiore israeliano, riconoscendo come valide le cifre fornite dal Ministero della Salute palestinese, in merito alle vittime nella Striscia, afferma di aver ucciso 5.000 combattenti, e che due civili morti per ogni combattente ucciso “non è male”. Ma i morti nei bombardamenti sono oltre 16.000, dei quali oltre 7.000 sono bambini e quasi 5.000 donne; ne consegue quindi che gli uomini adulti morti sono circa 4.000. Quindi, delle due l’una: o secondo l’IDF anche donne e bambini sono combattenti palestinesi, oppure ogni singolo uomo ucciso è un militante armato della Resistenza (e ne mancano ancora 1.000…). Il tutto indicherebbe poi una precisione sovrumana, in quello che è un bombardamento indiscriminato. La verità è che i combattenti uccisi, dal 7 ottobre ad oggi, sono circa un migliaio, e quasi tutti caduti durante l’operazione di attacco. Esattamente come un migliaio sono i caduti dell’IDF.

La logica ed il buon senso, pertanto, portano alla conclusione che quella pubblicata dal NYT è una psy-ops, portata a termine tra Washington e Tel Aviv. Il cui scopo – o meglio i cui scopi – possono essere svariati, alcuni dei quali al momento anche indecifrabili. Di sicuro, uno potrebbe essere benissimo un tentativo di rabberciare i pezzi della credibilità di Israele e del suo potere deterrente. Piuttosto che un apparato militare e di intelligence che si fa trovare del tutto impreparato da un attacco, meglio un apparato efficiente che però fallisce per negligenza umana. E ovviamente è anche possibile che serva per esercitare pressioni sull’ala più oltranzista del potere politico-militare israeliano.
E senza per ciò escludere che vi siano degli elementi fattuali, su cui la psy-ops poggia. Vengono qui in mente le profezie di Nostradamus, che notoriamente appaiono corrispondere a taluni avvenimenti, ma solo a posteriori, e solo attraverso una lettura forzata delle profezie stesse.

Altro capitolo è quello delle speculazioni finanziarie sulla borsa israeliana (e Wall Street). In pratica, secondo uno studio condotto da ricercatori della New York University e della Columbia University, si sosteneva che alcuni trader avessero ottenuto informazioni sull’attacco di Hamas del 7 ottobre, prima che avvenisse, e avessero quindi realizzato operazioni short sulle borse degli Stati Uniti e d’Israele nella prospettiva che i prezzi delle azioni crollassero dopo l’attacco. In realtà, si è trattato di una grossa panzana, o meglio di un clamoroso errore degli autori della ricerca. Come successivamente chiarito dal responsabile del commercio della Borsa di Tel Aviv, Yaniv Pagot, questi avevano semplicemente ritenuto che le azioni fossero quotate in shekel e non in agorot, stimando quindi un profitto di 3,2 miliardi, quando in pratica il profitto è stato solo di 32 milioni [13]. Insomma, l’ennesimo ballon d’essai. Del resto, è abbastanza inverosimile che non se ne fossero accorti i servizi israeliani (che sicuramente monitorano il proprio mercato finanziario).
Tutto comunque confluisce nel polverone mistificatorio, sedimenta nella memoria dell’opinione pubblica, contribuendo al suo disorientamento.

Per quanto, alla luce di tutto ciò che è stato già esaminato, non dovrebbe essere necessario, prenderemo infine rapidamente in esame l’ipotesi più complottista, e cioé che i vertici israeliani sapessero dell’attacco, e lo avessero lasciato accadere per avere un pretesto sufficiente a scatenare la rappresaglia genocida che lo ha seguito, e che sarebbe il fine ultimo di tutta questa manovra di occultamento.
Premesso che tutta la storia di Israele ci dice che, sostanzialmente, non si è mai preoccupata troppo di averne uno, per fare ciò che riteneva necessario [14], basta fare un sommario bilancio dei pro e dei contro, per comprendere l’inconsistenza di questa ipotesi.

Tra i risultati negativi possiamo certamente annoverare: il congelamento dei Accordi di Abramo, l’attrito con gli Stati Uniti, l’imbarazzo dei paesi amici e dell’ONU, il crescente isolamento internazionale, la frantumazione del potere deterrente, la crescita dei sentimenti ostili in tutto il mondo, il rilancio internazionale della questione palestinese, il rafforzamento politico-militare dell’Asse della Resistenza, l’enorme costo economico, la radicalizzazione dei palestinesi a Gaza ed in Cisgiordania, e le perdite umane e militari. Per limitarsi ai più importanti.
E quali sarebbero i risultati positivi? La popolazione palestinese di Gaza (oltre 2.100.000) sarà decurtata del 10%. Punto.
E tutto questo sarebbe per di più stato ordito dal governo di Netanyahu, che ne pagherà il prezzo con la morte della sua carriera politica.

Riassumendo, quindi, abbiamo una info warfare che si muove in relazione ed a supporto delle guerre guerreggiate, non soltanto veicolando propaganda – anche la più sfacciatamente fasulla – ma anche provando a riorientare le opinioni pubbliche secondo il mutare degli eventi sui campi di battaglia (e quindi secondo il mutare delle esigenze dell’occidente collettivo), cambiando bruscamente narrazione. E che, per di più, è anche terreno di vere e proprie operazioni di guerra psicologica, messe in atto sia per riparare i danni subiti nelle guerre vere, sia per interagire con queste ed in queste.
La caratteristica fondamentale di questa terza guerra è che, diversamente dalle prime due, l’obiettivo principale di ogni mossa, tattica o strategica che sia, siamo noi.


1 – Cfr. “Due guerre”, Giubbe Rosse News
2 – “E non lasceremo che Hamas o Putin vincano. E non permetteremo ai nostri nemici di dividerci o indebolirci. Perciò, mentre aumentiamo il sostegno a Israele, rimaniamo concentrati sull’Ucraina. E restiamo pienamente in grado di proiettare potenza, di mantenere i nostri impegni e di dirigere le risorse in più teatri. Gli Stati Uniti sono il Paese più potente della Terra.”, Cfr. “‘A Time for American Leadership’: Remarks by Secretary of Defense Lloyd J. Austin III at the Reagan National Defense Forum (As Delivered)”defence.gov
3 – Jake Sullivan (Consigliere per la sicurezza nazionale): “quando finiremo i soldi stanziati cesseremo la forniture di armi a Kiev, non abbiamo cornucopie magiche”.
4 – Cfr. “Miscalculations, divisions marked offensive planning by U.S., Ukraine”Washington Post
5 – Cfr. “Die Ukraine im zweiten Kriegswinter. Kämpfen und leben”Der Spiegel
6 – Cfr. “Pantano”Giubbe Rosse News
7 – Cfr. “General to general”substack.com
8 – Si tratta di una procedura militare istituita nel 1986, a seguito di uno scambio di prigionieri (3 soldati israeliani per 1.150 prigionieri palestinesi). Questa direttiva segreta, emanata al fine di evitare il ripetersi di situazioni simili, stabilisce sostanzialmente che – qualora vengano catturati degli israeliani, e non c’è possibilità immediata di liberarli – l’esercito deve uccidere tutti, sequestrati e sequestratori.
9 – Cfr. “The Women Soldiers Who Warned of a Pending Hamas Attack – and Were Ignored”, Yaniv Kubovich, Haaretz
10 – Cfr. “The Oct. 7 Warning That Israel Ignored”New York Times
11 – Cfr. “Did Hamas Make Millions Betting Against Israeli Shares Before October 7 Massacre?”, Ido Baum, Haaretz.
12 – Tra le altre notizie che circolano, annoveriamo la sparizione delle registrazioni video del 7 ottobre, ed una presunta spia che avrebbe dato informazioni ad Hamas sulle basi militari israeliane…
13 – Cfr. “Huge errors in US study about TASE short sellers”, Hezi Sternlicht, Globes
14 – In proposito, suggerisco la lettura dell’ottimo volume di Ilan Pappé, “La prigione più grande del mondo”, Fazi Editore

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4 thoughts on “INFO-WARFARE, LA ‘TERZA GUERRA’

  1. Felice e puntuale analisi, elegante e molto ben scritta, razionalmente convincente visti i dati che abbiamo, consistenti fondamentalmente in ciò che il Sistema consente ci giungano.
    Una aggiunta a questi, dal bravo Tomaselli non fornita, è quella occulta e ben descritta in questo articolo “LE RAGIONI NASCOSTE DELLA GUERRA A GAZA. IL PIANO DI NETANYAHU PER “UN NUOVO MEDIO ORIENTE” – Parte 1 https://forum.comedonchisciotte.org/articolo-segnalato-per-pubblicazione/le-ragioni-nascoste-della-guerra-a-gaza-il-piano-di-netanyahu-per-un-nuovo-medio-oriente-parte-1/ che invito a leggere.

  2. Bel commento, come tutti quelli di Enrico Tomaselli. Molto fastidioso, invece, l’autoplay del video della diretta YouTube che parte ogni volta che si apre la pagina. I contenuti in autoplay sono semplicemente il male assoluto.

    1. Buongiorno. Il problema adesso dovrebbe essere risolto. Può riprovare e confermare gentilmente?
      Grazie
      La Redazione

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