UN PASSO INDIETRO

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La guerra in Medio Oriente per oggi non scoppia. Rallegriamocene, e proviamo a vedere perché, e se è stata solo rimandata…

Stanotte siamo arrivati ad un pelo dal fare un altro passo verso l’abisso. Poi, inaspettatamente ed all’ultimo istante, è stato fatto un passo indietro. Prima di interrogarci sulle cause e le conseguenze di ciò, dobbiamo rallegrarci d’aver evitato ancora una volta che la follia assumesse totalmente il controllo dei nostri destini.
Non che sia ancora sicuro che abbiamo evitato l’abisso, ma si è fatto un passo indietro, e forse due.

Cosa ha determinato questa inversione di rotta last minute?
Ovviamente è del tutto risibile il comunicato dell’IDF, che attribuisce la decisione di non attaccare più ieri notte, ma “tra alcuni giorni”…, alle condizioni meteo. Come se lo stato maggiore non avesse consultato le previsioni, e poi, un attimo prima di dare il via, qualcuno ha messo la mano fuori dalla finestra ed ha scoperto che pioveva forte, e quindi hanno pensato che non potevano mica far bagnare le divise nuove ai riservisti… rimandiamo tutto finché non torna il sole!
La cause di questo u-turn sono, invece, lampanti. E si collocano su tre livelli: interno ad Israele, interno alla coalizione con gli USA, ed internazionale.

Sul piano interno, è sempre più evidente che l’attacco di Hamas – di cui ancora sfugge l’effettiva portata… – ha non solo travolto le difese militari e di intelligence, ma l’intera elite politico-militare del paese. Netanyahu è finito, e l’ha capito subito. Quindi tutto il suo governo di fanatici estremisti ha reagito con rabbia cieca, ma al tempo stesso, per coprirsi le spalle, ha accettato di formare un governo di unità nazionale.
Naturalmente, tutti sapevano bene che per distruggere Hamas (come proclamato a gran voce) bisognava non solo attaccare Gaza, ma occuparla a lungo. E già solo l’attacco avrebbe avuto un prezzo assai duro da pagare, per non parlare della valanga di problemi che una occupazione duratura porterebbe con se. Ciononostante, travolti dalla rabbia e dall’esigenza di dare una risposta ai cittadini di Israele, sono andati avanti come un treno senza macchinista.
E dopo sette giorni di bombardamenti, viene presa la decisione di attaccare. Partono addirittura gli ultimi attacchi aerei che precedono l’offensiva di terra, e poi tutto si ferma.
Hanno pesato le divisioni interne al governo, ma ancor più i segnali che arrivavano dal paese. Netanyahu che deve rinunciare a tenere un discorso ai riservisti, perché lo insultano. Voci non confermate parlano di diserzioni di massa tra i soldati, del rifiuto di partecipare alla guerra, di disaccordi tra comandanti e ritiri di alti ufficiali e funzionari… insomma, la macchina da guerra israeliana, ancora sotto shock per l’attacco palestinese, è nel caos, ed in queste condizioni non è in grado di affrontare una battaglia sanguinosissima.

In questo frangente, l’alleato americano – pur accorso prontamente in soccorso – non ha mancato di far presente che, prima di lanciarsi in una avventura del genere, bisogna valutare attentamente le conseguenze. Contrariamente a quanto si pensa, gli Stati Uniti non hanno alcun interesse, in questo momento, ad aprire un altro conflitto (che li vedrebbe impegnati assai più della Russia, e che inevitabilmente ne aumenterebbe l’isolamento), tanto più nella più importante regione petrolifera del mondo. Già la prima, inevitabile reazione israeliana – con i massici attacchi aerei su Gaza – ha mandato all’aria mesi di lavorio diplomatico per far riavvicinare Arabia Saudita e Israele (ottenendo anzi l’opposto, con una maggiore saldatura tra Ryad e Teheran). Oltretutto, una guerra in MO li costringerebbe ad intervenire in prima persona, con tutto quello che significa non solo in termini di perdite e di rischi, ma con i prevedibili riflessi sulla imminente campagna elettorale…
Washington quindi ha si fatto la voce grossa – con l’invio delle portaerei e della 101^ aerotrasportata in Giordania – ma in separata sede ha discretamente consigliato cautela.

Sul piano internazionale, poi, è evidente come le mosse israeliane abbiano rapidamente messo in crisi la solidarietà occidentale scattata in seguito all’attacco di Hamas, con le preoccupazioni umanitarie espresse dall’ONU, dall’OMS e da altri leader. Per non parlare della levata di scudi da parte dei paesi arabi e musulmani, che si sono schierati al fianco dei palestinesi senza alcuna esitazione.
Ma, ovviamente, più di ogni altra cosa ha pesato la determinazione di alcuni paesi e formazioni politico-militari della regione; Iran, Siria, Hezbollah, milizie irachene e yemenite… Anche al di là del linguaggio propagandistico, speculare a quello statunitense, è evidente che è stato fatto arrivare un messaggio chiaro: se attaccate Gaza, rispondiamo. Una guerra regionale, che coinvolgerebbe almeno 5 o 6 paesi, dove sono presenti numerose basi americane (che diventerebbero immediatamente un bersaglio), e dove è presente militarmente anche la Russia…, avrebbe in prima battuta conseguenze devastanti per Israele stesso, e comporterebbe un prezzo pesantissimo anche per gli USA. È fin troppo evidente che l’Iran di oggi non è l’Iraq di vent’anni fa. E peraltro oggi non ci sarebbe nessuna coalizione disposta ad invadere Teheran… Molto più che la guerra in Ucraina, un conflitto in Medio Oriente rischierebbe di innescare una reazione a catena, dagli esiti imprevedibili.

Una pausa di alcuni giorni, quindi. Tel Aviv non può non sapere che il tempo lavora contro di lei. Più giorni passano, più aumenterà la pressione, esterna ed interna. Alla fine qualcosa dovrà farla, ovviamente; ma con ogni probabilità sarà non solo di portata molto ridotta, rispetto alle roboanti minacce di questi giorni, ma sarà addirittura segretamente ‘concordata’ per evitare una reazione pericolosamente pesante da parte dell’asse della resistenza.
Come sempre in questi casi, per vedere chiaramente gli effetti del 7 ottobre, ci vorrà un po’ di tempo. Ma già ora è evidente che l’attacco palestinese ha davvero cambiato il Medio Oriente.

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