È DIFFICILE ESSERE UN DIO. SPROFONDARE VISIVAMENTE NEL NOSTRO INFERNO

0

È difficile essere un dio non è semplicemente un film, è un’esperienza immersiva, dilaniante, totalizzante. Esso appare come la rappresentazione cinematografica dell’ombra della nostra società e di quello che potrebbe diventare. Ombra perché, mentre noi ancora ci culliamo dietro alle luccicanti conquiste della tecnica e del “pensiero” di questo tempo e alle sue frivole comodità, dietro si nasconde l’abisso di perversa disumanità verso cui stiamo precipitando.

Raccontare il film di addio del regista russo Aleksej German non solo non sarebbe possibile, ma sarebbe oltremodo sbagliato.  È difficile essere un dio è un’esperienza immersiva, totalizzante, che non può in alcun modo essere tradotta in semplici parole. Ve ne vogliamo parlare perché a distanza di dieci anni dalla sua realizzazione, questo film appare come la rappresentazione cinematografica dell’ombra della nostra società e di quello che potrebbe diventare, e forse diventerà. Ombra perché, mentre noi ancora ci culliamo dietro alle luccicanti conquiste della tecnica e del “pensiero” di questo tempo, alle sue frivole comodità, dietro si nasconde l’abisso di perversa disumanità verso cui stiamo precipitando.

Il film è tratto dal romanzo omonimo del 1964 dei fratelli Arkadij e Boris Strugatskij, autori anche del famoso Picnic sul ciglio della strada da cui è tratto Stalker di Andrej Tarkovskij.

Ci troviamo in un lontano futuro, su un altro pianeta del tutto simile alla Terra, ma che vive indietro di circa 800 anni, in una sorta di Medioevo. Il protagonista è Don Rumata, riconosciuto dalla popolazione come un nobile con presunte ascendenze divine, così almeno molti di loro credono. Egli pare l’unico che cerca di difendere i sapienti e gli artisti che vengono ferocemente perseguitati ed è venerato e temuto allo stesso tempo. Al suo risveglio suona melodie jazz col clarinetto. Abile spadaccino, però non uccide gli oppressori, forse anche per non scatenare ancora di più la violenza che già dilaga.

La vita su quel pianeta è scivolata infatti nella barbarie più insensata. Tutto ebbe inizio con la distruzione dell’Università nella capitale Arkanar e con una caccia feroce a tutti i sapienti, gli intellettuali, gli studiosi e gli artigiani di talento. Questi allora fuggirono nella vicina città di Irukan. Quelli che non vi riuscirono furono arrestati e giustiziati pubblicamente «dalle squadriglie di Don Reba, il Ministro della Sicurezza della Corona. I membri delle unità, autisti e faccendieri, vestivano di grigio; truppe grigie, ministro grigio».

Tutto si svolge in un ambiente umido, sporco e fangoso, spesso avvolto dalla nebbia. I personaggi sono intenti alle pratiche più abiette, si cospargono il volto e il corpo di escrementi, sputano, si sturano il naso e urinano in pubblico. Gli schiavi camminano incatenati e i cadaveri restano appesi nelle piazze per giorni. Tutto è così tragicamente osceno da sembrare a tratti perfino ridicolo, e lo è, in un certo senso. Un’umanità che ha perduto non solamente l’uso dell’intelletto, ma perfino della ragione, e talvolta anche della parola. Si odono grugniti, versi, urla. Dei sensi, sembra predominare l’olfatto, il più “animale” fra tutti e cinque, con una spiccata ricerca degli odori fetidi. La violenza è la norma. Sembra perduto, evaporato come le esalazioni maleodoranti che invadono l’aria, ogni tratto umano, ogni presenza di significato.

La macchina da presa ci getta letteralmente in questa “bolgia infernale” fotografata in un bianco e nero denso. Le inquadrature grondano di dettagli, così come gli ambienti sono sempre saturi di persone, oggetti, animali, fumi, pioggia, fetori. Non si può dire che vi sia una vera e propria trama, quanto un’ossatura che porta la vicenda al suo compimento. Ma le tre ore di film sono la concretizzazione di quell’inferno che non ha affatto bisogno di un chiaro intreccio, perché ciò che va esperito, prima di tutto visceralmente e poi intellettualmente, è il male che ormai è padrone unico di quel mondo. E il male è la privazione di senso, l’obnubilamento totale, l’appiattimento verso gli istinti più bassi, la cancellazione di qualsiasi spinta ideale.

È difficile essere un dio è un fiume che ti travolge a cui non si deve opporre resistenza. Dobbiamo sentirne dolore. Dobbiamo sperimentare l’angoscia. Dobbiamo avvertirci schiacciati nell’impotenza di essere argine a tanto abbruttimento. Dobbiamo lasciar entrare la bassezza di quei personaggi nelle nostre carni, nelle nostre ossa. È una tale sovrabbondanza di male e iniquità da essere catartico.

E non può non riguardarci, perché, come accennavamo all’inizio, questo inferno è l’ombra della nostra civiltà morente, ombra che essa vorrebbe nascondere con le sue “mille luci sfavillanti”. Ad Arkanar i sapienti e gli artisti venivano perseguitati «perché usavano pietre o pittura per creare una seconda natura. Per decorare la vita di persone che non conoscono bellezza. O perché creavano lenti, permettendo ai mezzo-ciechi di vedere, e ai vedenti di avvicinare il cielo».

E non è forse questo che sta già avvenendo nel nostro ridente pianeta che vive 800 anni in avanti rispetto a quello mostrato nel film? Non sono forse vituperate, ridicolizzate, sino ad essere del tutto esonerate la Sapienza e la Bellezza? Ciò che in È difficile essere un dio ha il tono apertamente sudicio e materico, nel nostro mondo si veste di finta eleganza derivante dal progresso tecnico e scientifico, e risulta quasi “etereo”. Ma il vuoto di senso è il medesimo. E medesima è la totale assenza di slanci di puro ideale, di amore oblativo, di Sapienza che squarcia la cornice soffocante del misero sapere moderno. Non esistono oasi o “recinti” felici. Esistono poche “anime randagie” che cercano di sfuggire alla palude del pensiero e dello spirito. Perché qui non ci si può accontentare del semplice pensiero critico, o dell’arte che trasmette valori positivi. Qui una sola cosa è necessaria: recuperare la Sapienza Tradizionale e con essa ricostituire integralmente un immaginario estetico. Ogni altra azione è solo palliativo che ci lascia nella palude illudendoci però di essere in salvo, fra “coloro che hanno capito”.

E non si può restare per sempre inerti, senza sporcarsi le mani lì dove il male sguazza trionfante. Così farà ad un certo punto Don Rumata che, vittima di una cospirazione architettata da Don Reba, si abbatterà con la forza della sua spada su di un popolo che ormai di umano aveva ben poco, seminando morte ovunque. Perché non è restando nelle stanze linde e imbiancate che si può arrestare il degrado e allontanarsi dal precipizio. Occorre scendere lì dove il fango ti investe sino ai fianchi e dove il lezzo è insopportabile. Si perde così la “qualità” di un dio, ma forse si guadagna la Giustizia.

Senza svelare il finale del film, chiudiamo però con queste parole di Don Rumata che interrogano proprio noi, sempre pronti agli accomodamenti, alle facili giustificazioni, alle scelte che ci fanno credere di essere migliori di una massa sempre più abbruttita, ma che in realtà ci mostrano quanto siamo mediocri e aggrappati con tutto noi stessi a “questo mondo”, contestandone solo i sintomi superficiali – che imputiamo sempre a forze “altre” – ma mai scendendo in profondità alle cause prime che ci vedono corresponsabili. «Dove trionfano i grigi, alla fine arrivano sempre i neri, sempre. Non c’è altro modo».

Condividi!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *