UN CINEMA PER COLTIVARE L’ATTENZIONE E LA PRESENZA AL MONDO
Ci si nutre di film che raccontano di scenari distopici, che “svelano” i segreti del potere, che vorrebbero trasmettere valori, princìpi. Dobbiamo fare molti passi indietro ed essere umili. Bisogna tornare a guardare un cinema che ci educhi alla percezione, alla lentezza, al rifiuto di ogni abbellimento superfluo, alla capacità di visione, se davvero vogliamo liberarci dagli “inganni di questo tempo”. Una riflessione “veramente controcorrente”.
Forse nessuno, o quasi, si domanda cosa vede realmente mentre sta guardando un film. Solo azioni che si susseguono una all’altra legate da un intreccio e che provocano una risposta emotiva, pensieri e riflessioni? Realtà senza addomesticamenti, o visioni, sogni? E se il cinema, purtroppo rappresentato solo da “un certo cinema”, fosse la porta per la Vita? Quella che cammina sottotraccia il frenetico agitarsi delle apparenze quotidiane. Quella che chiede di essere riconosciuta, compresa, assimilata e poi incarnata. Questo cinema, al di là anche degli specifici contenuti, ha da dirci qualcosa di urgente che dovremmo afferrare con preziosa cura se davvero vogliamo liberarci dagli “inganni di questo tempo”.
Recentemente alcune opere del regista Béla Tarr sono state nuovamente proiettate in sala e in alcune rassegne in una versione restaurata in 4K. Tra le altre, ricordiamo Le armonie di Werckmeister e Satantango. Il cinema del regista ungherese con i suoi lunghissimi piani sequenza, il parco uso della musica, le storie che si dipanano senza scosse, ma lasciando fluire lo scorrere del tempo, chiede e sollecita uno sguardo attento, un’anima che si sollevi, almeno un poco, dal letargo forzato a cui è tristemente segregata in questa nostra epoca.
Perché noi siamo deformati da un’idea di cinema in cui l’intreccio è la divinità a cui sottomettere ogni altra cosa. Le scene così devono succedersi una dopo l’altra, ciascuna facendo fare “un passo in avanti alla storia”, come insegnano in tutte le scuole di cinema qui in Occidente da parecchi anni, ormai. E ogni momento o “accadimento” che non attende a questo risultato viene considerato superfluo, dannoso e viene reciso in montaggio, se non prima direttamente in ripresa o addirittura in fase di scrittura.
Eppure se pensiamo ai ricordi lontani dell’infanzia e della giovinezza o ai sogni non possiamo non riconoscere come talvolta ciò che ci resta impresso è qualcosa di “estraneo” alla storia che si svolgeva. Sono dettagli, profumi, suoni, figure. Qualcosa che si stagliava davanti a noi e ha posto un sigillo nella nostra memoria. Qualcosa di significativo, evocativo, toccante, ma che forse ai fini del mero intreccio aveva poco da dire.
Satantango, opera imponente della durata di oltre sette ore, si apre con un lunghissimo piano sequenza di circa otto minuti dove un gruppo di vacche si muovono nel grande cortile di una fattoria collettiva. Il cielo grigio della mattina, la terra fangosa e instabile, le case coi muri scrostati e i tetti malconci, trasmettono un senso di desolazione, di inutilità, di fine imminente. Non ci sono uomini, non si sentono voci. Le vacche riempiono la scena per poi allontanarsi e sparire dietro le case. Non “accade” nulla, in apparenza, ma in questo incipit fragoroso quanto silente c’è già tutto il film. C’è la potenza di una storia che per raccontarsi ha bisogno dell’occhio paziente dello spettatore, e lo fa capire da subito. È la vita.
Lo stesso regista affermò più di una volta che il cinema non può ridursi all’azione, spezzata dal montaggio che separa una scena dalla successiva. Ma tutto quello che riempie un’inquadratura, anche negli angoli, anche i suoni, i silenzi, deve entrare nel cinema. Perché è cinema, è la vita. Per poterlo fare occorre però prima di tutto scrostare quest’arte dal superfluo, dalla frenesia e dalla venerazione esclusiva e totalizzante per i contenuti, per il messaggio. Occorre prima di tutto che l’occhio abbia il giusto tempo per osservare, per entrare nel mondo che il film ricrea. Compito del regista. Ma egli nulla può se non trova un pubblico disponibile a questa possibilità di osservazione.
Il cinema di Béla Tarr, come quello ad esempio di Angelopoulos, e seppur in modi assai diversi di Bresson e di Tarkovskij – solo per fare alcuni nomi – è un cinema che ci “porta fuori” da questo mondo, in un’altra dimensione, dove si sperimenta una differente percezione e visione. Ma noi, dobbiamo ammetterlo, abbiamo quasi completamente perduto la capacità di sostare davanti alla vita, di rispettarne il ritmo, di coglierla nella sua interezza.
Noi ci riduciamo a propagandare concetti, informazioni. E magari ci sentiamo dalla parte giusta della storia solo perché ci opponiamo a quei concetti, a quelle informazioni che sono ideologie dissonanti e distruttive, come quelle che dominano il nostro tempo. Ma questo non basta affatto, anzi manca la premessa necessaria per cui tutto questo possa avere senso ed un senso più alto. Noi ci opponiamo al potere che vediamo essere disumano e pervertito, alle sue follie di pensiero, rimanendo dentro la medesima cornice: quella di “questo mondo”. E così facendo perpetuiamo l’eterno dualismo di Reazione-Rivoluzione che non conduce affatto alla Restaurazione originaria. La nostra lotta è una lotta di sostituzione di un’idea con un’altra, di un potere con un altro. Ciò che invece andrebbe cercato per primo è il cambiamento radicale dell’uomo, di quest’uomo che abita l’età contemporanea, che ha un volto deturpato ed un’anima addormentata, da qualunque parte esso combatta la lotta. Ma questo comporta fatica, dolore. Perché significa mettersi in discussione in profondità.
C’è ancora qualcuno che lo voglia fare, che si lasci toccare da ciò che lo sopravanza e che non comprende subito, fino ad entrare in crisi? Trovare un uomo capace di introspezione, di ascolto profondo, di sensibilità e acume nel vedere i dettagli e da questi trarre un giudizio, anziché guardare alle idee sbandierate ma poi tradite nella quotidianità; trovare un uomo capace di mettersi di fronte alla realtà e accogliere i segni che essa continuamente rivela per poi interpretarli e di conseguenza agire; trovare un uomo che disprezzi le apparenze, ma sia capace di guardare solo all’anima delle persone, all’essenza della cose, che rigetti il mito della quantità, che è la cifra del presente; trovare un uomo che contenga tutte queste qualità, che abbia il dono della presenza alla realtà, alla vita, che la sappia cogliere con uno sguardo sintetico e profondo, è più difficile che trovare un quadrifoglio in un prato.
Ma è solo e soltanto di questi uomini che abbiamo bisogno in quest’ora così buia e difficile. E solo loro andrebbero ascoltati e seguiti. Allora si comprenderebbe che le ideologie si sconfiggono con uomini ricostruiti integralmente, uomini che non abitano “questo mondo”, ma sono la prefigurazione incarnata di un mondo restaurato. Che oggi possiamo solo iniziare a edificare. Ci si nutre di film che raccontano di scenari distopici, che “svelano” i segreti del potere, che vorrebbero trasmettere valori, princìpi. Dobbiamo fare molti passi indietro ed essere umili. Bisogna tornare a guardare un cinema che ci educhi alla percezione, alla lentezza, al rifiuto di ogni abbellimento superfluo, alla capacità di visione. E noi ve lo proponiamo qui al di là dei contenuti veicolati dai singoli film. Ve lo proponiamo come “esercizio spirituale”, perché l’idea di un mondo nuovo è solo fantasia puerile se non costruiamo prima un uomo nuovo. E questa umanità va ricostruita completamente.
Sono d’accordo con questo articolo. Vedere un buon film è un esercizio spirituale: cosa rara con la cinematografia attuale. A me sta accadendo una esperienza simile con una pellicola datata 1992 (uscita in Italia l’anno successivo): si tratta di Scent of a woman, con Al Pacino (non me ne vogliano i cultori di Gassmann, ma non è un remake, ma una storia a sé, tanto diversa è da qualla del 1974, tratta dal Buio e il Miele di Giovanni Arpino). Non è un film sull’amore, caso del tutto anomalo nel cinema hollywoodiano, nessuno qui si innamora di nessuno. È un racconto di formazione, fra due persone (un tenente colonnello divenuto cieco a causa dello scoppio di un granata) ed uno studente che lo accompagna in quello che dovrebbe un ultimo viaggio a New York, che sono prima tutto sole, molto sole, in cui ognuno trova la forza di vivere e arricchimento morale nell’altro. È un film sull’arte della seduzione, sulla raffinatezza, sulla percezione del mondo “senza” vederlo, sulla bellezza data una risata, dal calore umano, da un profumo. Un film carico di simboli legati alla dicotomia buio – luce e da una sottile (sapendo leggere ed interpretare questi simboli) carica realmente sovversiva. Ebbene, perché ho parlato di esercizio spirituale? Perché da una delle scene più belle, quella del Tango (bella perché “sospesa”, lascia cioè spazio all’immaginazione su un eventuale proseguimento), io ed una mia amica russa stiamo scrivendo un lungo racconto, con gli stessi personaggi che amano e vivono…ed ecco che un susseguirsi di immagini diventa esercizio di scrittura, creazione, sentimento, recupero del tempo…
Ciao Massimo. Bellissimo articolo.