FESTIVAL DI BERLINO: FRA REALISMO E IDEOLOGIE

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La 73ma edizione della Berlinale si è appena conclusa, e noi vogliamo fare un rapido volo sui principali premi assegnati, i quali ben mostrano le tendenze in svolgimento e le direzioni prossime future, per poi giungere come nostro solito ad una riflessione che travalica il mondo del cinema investendo tutti noi, come singoli, come umanità.

Il mondo attraversa crisi che ne stanno – in profondità per il momento – mutando per sempre la forma. In superficie, tuttavia, sia che ci si posizioni a favore che controvento, si prosegue a vivere come si è sempre fatto. Nelle piccole, come nelle grandi cose. Il cinema ovviamente non fa eccezione, anzi. Come avanguardia delle forze progressiste ne porta avanti con ritrovato slancio, dopo gli anni “pandemici”, le istanze più importanti.  La 73ma edizione della Berlinale si è appena conclusa, e noi vogliamo fare un rapido volo sui principali premi assegnati, i quali ben mostrano le tendenze in svolgimento e le direzioni prossime future, per poi giungere come nostro solito ad una riflessione che travalica il mondo del cinema investendo tutti noi, come singoli, come umanità. Una riflessione per noi urgente, forse dolorosa, ma necessaria.

Iniziamo dalla sezione cortometraggi, perché proprio da qui emergono i cineasti di domani e le traiettorie artistiche che verranno predilette.

La menzione speciale è stata assegnata a It’s a Date, una sorta di remake di un celebre cortometraggio di Claude Lelouch del 1976: C’était un rendez vous. Nel corto del regista francese la macchina da presa era montata sopra un’automobile che sfrecciava all’alba fra le strade parigine, fra sorpassi azzardati, semafori rossi non rispettati, strade contromano, per condurre il guidatore dall’amata che lo attendeva. Qui invece siamo a Kiev, ai giorni nostri, durante il conflitto che tutti conosciamo. Anche in questo corto l’auto sfreccia all’alba, ma fra posti di blocco, costruzioni abbandonate. Per mostrare, con il gioco di una cupa ironia, gli effetti della guerra.

Kori Ceballos in Orlando, ma biographie politique © Les Films du Poisson
Kori Ceballos in Orlando, ma biographie politique © Les Films du Poisson

Sempre nella stessa sezione, l’Orso d’argento se lo è aggiudicato Marungka tjalatjunu (Dipped in Black). Nel corto si segue il ritorno a casa di un uomo, nativo australiano, per compiere dei riti di “guarigione spirituale”. Il rito, che ha un’età di circa 60.000 anni porta l’uomo a risvegliare i suoi ricordi d’infanzia, quelli dell’oppressione da parte dei bianchi nella città di Adelaide.

A vincere invece la categoria cortometraggi è stato Le chenilles delle sorelle libanesi Michelle e Noel Keserwany. Una storia di amicizia femminile di due giovani emigrate in Francia: una libanese e l’altra siriana. In sottofondo, l’emigrazione, lo sfruttamento delle donne nelle fabbriche della seta francesi nel Libano del XIX secolo. Mutazione, solidarietà femminile, colonizzazione, il peso di un passato che non è ancora svanito nell’oggi moderno.

I temi che emergono dai questo trittico di opere si commentano da soli, crediamo. Per cui continuiamo la nostra breve carrellata riservandoci una meditazione finale che riassuma tutti i film di cui andremo brevemente a parlare.

Fra i documentari, Orlando, ma biographie politique di Paul B. Preciado riceve la Menzione speciale.

Il regista è un filosofo attivista trans e realizza un documentario omaggiando Orlando, il personaggio creato da Virginia Woolf. Mostrando venticinque persone “non binarie e trans” Preciado vuole raccontare come oggi ci siano tanti Orlando che stanno cambiando la storia. Il suo è quindi anche un film politico a tutti gli effetti, che parla di metamorfosi, di identità, ovviamente descrivendo e sostenendo il diritto imprescindibile di cambiare e di scegliere chi essere.

El Eco di Tatiana Huezo © Radiola Films
El Eco di Tatiana Huezo © Radiola Films

A vincere la sezione è invece El Eco di Tatiana Huezo. Regista talentuosa fattasi conoscere in questi ultimi anni per altre sue opere, dal carattere forte ed evocativo allo stesso tempo: Tempestad – sempre di genere documentario – e Prayers for the Stolen – suo primo lungometraggio di finzione.

El Eco è l’affresco di una piccola comunità della regione montuosa dello stato di Puebla in Messico. Tre generazioni sullo schermo, ma i bambini sono i veri protagonisti. Bambini che devono crescere in fretta, devono affrontare un’infanzia fatta di lavoro nei campi, con gli animali e ad accudire gli anziani malati. In una terra in cui il passare delle stagioni muta drasticamente le condizioni, dal gelo alla siccità. Una comunità dove gli uomini sono praticamente assenti, sono lontani per lavoro o se ne sono andati per sempre: una comunità che è quindi una sorta di matriarcato. Un film sulla crescita, la ribellione, le risposte da trovare nella vita.

Giungendo alla sezione principale segnaliamo il Premio della Giuria Orso d’Argento che è andato a Mal Viver di João Canijo. «Cinque donne gestiscono un vecchio hotel, cercando di salvarlo dall’inesorabile degrado. Un conflitto di lunga data, forse irreparabile, grava su di loro: sono madri che non sono in grado di amare le loro figlie, che a loro volta non sono in grado di essere madri»Si legge nelle note di regia. Un film sulle relazioni, sui conflitti fra diverse generazioni. Dove il passato addossa il suo peso sul presente. Un film, anche questo, tutto al femminile. Un dramma familiare e borghese.

Chiudiamo con il premio più importante assegnato dalla giuria presieduta da Kristen Stewart: l’Orso d’Oro a Sur l’Adamant del francese Nicolas Philibert. Un’anomalia, in parte, perché si tratta di un documentario. Ma in fondo non è la prima volta. Il film è stato realizzato all’interno de l’Adamant, una struttura galleggiante sulla Senna che ospita persone con disturbi mentali. I pazienti hanno modo di esprimere le proprie inclinazioni attraverso varie forme laboratoriali: musica, letteratura, disegno e pittura, cucito, canto e così via. Il regista ha dichiarato: «Ho cercato di cambiare la percezione di persone che normalmente vengono stigmatizzate e discriminate, invece con loro possiamo trovare una comune umanità».

Sur l'Adamant,di Nicolas Philibert © TS Production / Longride
Sur l’Adamant,di Nicolas Philibert © TS Production / Longride

L’Adamant è come uno spazio aperto. La stessa idea architettonica nasce per favorire le relazioni fra i pazienti e l’approccio terapeutico con le attività proposte va nella stessa direzione.  E Philibert non sceglie uno sguardo distaccato, imparziale, ma al contrario empatico, quasi intimo con i pazienti che segue nei due anni delle riprese. Egli sposa le ragioni di un luogo, delle sue relazioni ed entra in gioco quando viene interpellato dai protagonisti che lui ha filmato.

Due aspetti vogliamo evidenziare, che ricorrono ormai quasi ovunque nei grandi festival e più in generale nel cinema di oggi, uno riguardo ai contenuti, l’altro riguardo la forma. Due aspetti che però non possono essere slegati, pena restare confinati ad un’analisi troppo superficiale.

Le ideologie, o usando toni più “politicamente corretti”, il messaggio, emergono con chiarezza come tratto comune. Nessuna sorpresa ovviamente, tantomeno per la Berlinale che, da sempre, si è contraddistinta per essere la rassegna più “politica” fra le tre grandi europee insieme a Venezia e Cannes. La guerra in Ucraina, o meglio la propaganda ucraino-atlantista sulla guerra; il genderismo, la fluidità dei generi e dei corpi; la colonizzazione e l’oppressione bianca; la rivincita femminile, uno sguardo che si concentra sulle donne come motore della nuova era; la diversità intesa anche come malattia mentale. Ovviamente non tutte queste categorie concettuali sono nefaste in assoluto, ma anche là dove non lo sono è piuttosto il modo con cui sono proposte – o meglio imposte! – che va tenuto in considerazione.

Masa Zaher in Le chenilles di Michelle Keserwany, Noel Keserwany © Karim Ghorayeb
Masa Zaher in Le chenilles di Michelle Keserwany, Noel Keserwany © Karim Ghorayeb

Per la forma, il realismo si conferma ormai come lo stile espressivo che connota il nostro tempo e specialmente il cinema d’autore. Macchina a mano, fotografia che conserva la naturalezza dei colori e dei contrasti, dialoghi che descrivono la quotidianità, l’universo sonoro che esalta l’ambiente e i suoi riverberi, senza alcuna incursione “espressionistica”. Realismo che si autocelebra fino ad assegnare il primo premio qui ad un documentario.

Sia il contenuto che la forma ci parlano il linguaggio dell’evidenza, dell’immanenza. In fondo il linguaggio di un’umanità materialista che non sperimenta altro da quello che vede, sente, tocca con i propri sensi esteriori. L’ideologia nel cinema non è solo la deriva di un pensiero che si fa distorsione della ragione e della realtà. È prima ancora violenza nei confronti dello spettatore. È il degradare la settima arte, a farsi semplice veicolo di messaggi. Potenti, immediati, di chiara lettura. In verità, troppi lo pensano: ed è, ahimè, tragico. Perché, per semplici spettori, o produttori che debbono scegliere i progetti da realizzare, o commissioni che selezionano le opere per un festival, o per giurie che assegnano i premi, il messaggio che erompe da un film è ciò che viene guardato per primo, è ciò che colpisce più di tutto e ciò che alla fine resta. Le eccezioni, è quasi superfluo dirlo, confermano la regola.

Lo specchio di Andrej Tarkovskij

Lo stile realistico veste alla perfezione questa idea di cinema. Perché non c’è mai un oltre da svelare; il senso delle scene è tutto racchiuso nei dialoghi e nelle azioni, e l’intreccio si dipana fluido. «Informazione, taglio, informazione, taglio, informazione, taglio e così via», sarcasticamente suggella Béla Tarr descrivendo il susseguirsi delle scene nella maggior parte dei film. Come se la Vita – la maiuscola qui è d’obbligo – fosse solamente un avanzare cronologico di semplici “informazioni”. A questo si è ridotta la settima arte, perché a questo si è ridotta questa umanità.  Eppure il cinema è nato per essere altro, molto di più. Per condensare la Vita intera in queste immagini sonore che scorrono su uno schermo. Come ebbe a dire forse il massimo esponente di quest’arte, così mal compresa: «L’immagine non è questo o quel significato espresso dal regista, bensì un mondo intero che si riflette in una goccia d’acqua, in una goccia d’acqua soltanto!» (Andrej Tarkovskij). Ma bisogna saperlo vedere questo mondo, bisogna ripulire ben bene gli occhi dell’anima per arrivare a toccarne il cuore che resta celato agli occhi della carne.

Scagliarsi contro le ideologie che anche attraverso il mezzo del cinema finiscono per farsi sempre più sostanza della nostra società, serve davvero a poco se non accettiamo di mutare radicalmente il nostro sguardo. L’uomo deve recuperare il suo essere un animale metafisico come diceva anche Schopenhauer. E solo da questa verticalità può sgorgare una restaurata orizzontalità, tornando a sperimentare il senso della responsabilità collettiva che si fa anche espiazione collettiva. Nel trasfigurare la realtà si vince il piatto realismo, nella ritrovata comunione, si vince l’individualismo. Altri contenuti chiedono un’altra forma.

È possibile quindi un’altra idea di cinema se prima ammettiamo che è possibile un’altra idea di umanità. Ma per fare questo serve che ciascuno esca dal proprio guscio e si metta in gioco, per costruire. Un mattone alla volta, iniziando da piccole opere, da piccole rassegne indipendenti – quasi clandestine, perché no! – da piccole scuole di cinema. Non in vista di una banale “vittoria mondana” contro le forze di questo mondo, ma semplicemente perché è giusto, perché a questo siamo chiamati. Ecco, un’altra caratteristica dell’uomo che si fa totalmente estraneo allo spirito di questo tempo, e che noi abbiamo totalmente perduto: il senso della chiamata, fino al donarsi totalmente. Perché chi non dona e non si dona non è veramente uomo.

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