ZELENSKY, I MUSICANTI E LA CRISI DELL’ARTE MODERNA

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La presenza di Zelensky a Sanremo oltrepassa i già ampi confini di una propaganda oramai grottesca. Ma questo ci impone di andare più in profondità per riflettere sull’agonia dell’arte, della musica, della televisione, della società. Una riflessione che chiama ciascuno di noi ad un impegno personale.

La presenza del presidente ucraino al prossimo Festival di Sanremo ha giustamente suscitato indignazione da parte di molti cittadini. Certo la propaganda corre sui media ufficiali ogni giorno, a qualunque ora, ma questa ennesima comparsata non richiesta è sembrata davvero di troppo. E così si sono lanciate anche petizioni perché la sua presenza venga annullata. Manifestare pubblicamente la propria contrarietà a tale ennesima occasione di propaganda è certo cosa buona, ma riteniamo che, anche questa volta, il cuore del problema si trovi più in profondità e per vederlo occorre affinare e di molto lo sguardo.

Iniziamo con un esercizio di memoria. Un sintetico ripasso di quanto abbiamo visto negli ultimi tre anni.

La quasi totalità della classe medica e sociosanitaria ha supportato una narrazione con le nefaste conseguenze del caso. I pochi a non allinearsi hanno subito la sospensione. La quasi totalità della classe insegnante – di ogni ordine e grado – ha supportato una narrazione con le nefaste conseguenze del caso. Fra i pochi a non allinearsi solo una minima parte è andata incontro a sospensione: gli altri hanno utilizzato escamotage. La quasi totalità degli artisti ha supportato una narrazione, quando addirittura non vi ha prestato la sua potente voce, con le nefaste conseguenze del caso. La totalità del mondo parlamentare – salvo delle rarissime eccezioni – non ha opposto una “resistenza feroce” alla narrazione, con le nefaste conseguenze del caso. La quasi totalità dell’ambiente giudiziario – fatte salve le pochissime presenze di avvocati volenterosi – ha supportato una narrazione con le nefaste conseguenze del caso. Ovviamente l’elenco non finisce qui, ma non è necessario completarlo in questa sede. Torniamo invece con lo sguardo al presente.

Ora noi continuiamo a curarci da quegli stessi medici; mandiamo i nostri figli in quelle scuole e università; paghiamo soldi per andare a vedere esibizioni artistiche, film, concerti ecc. e manteniamo abbonamenti a piattaforme televisive online; e così via per tutte le categorie sopra espresse e per quelle non menzionate. Il punto non sta nel riuscire ad attualizzare un cambiamento che abbia effetti sociali immediati ed evidenti, ma prima di tutto nella riflessione che è a monte. Una riflessione incredibilmente necessaria, ma che purtroppo è venuta a mancare. Di fronte ad un tale terremoto, ad uno sfacelo umano e culturale mai veduto, per lo meno il dubbio che il cuore del problema si trovasse molto più in profondità collegando misteriosamente tutte queste dinamiche, ci sarebbe dovuto venire.

In questi ultimi anni abbiamo più volte riflettuto sulla necessità del pensiero critico. E sulla sua tragica e sistematica demolizione ad iniziare dall’istituzione scolastica: dai primissimi anni sino alle aule universitarie, anzi in queste ancor di più. Ma vi è un piano di pensiero che è ancora più importante, anzi essenziale: il pensiero elevato.

Davanti a medici che non curavano, ad un governo e ai suoi “esperti” che davanti al “morbo del millennio” consigliavano tachipirina e vigile attesa, davanti all’assurdità e inefficacia di un siero che poteva portare danni infinitamente più gravi dei suoi “presunti” benefici, alcuni hanno capito l’inganno, la manipolazione. Se malati, si sono tranquillamente curati a casa, hanno fatto prevenzione, hanno sostenuto i medici che facevano il loro mestiere. E altro ancora.

Ecco, questa è la capacità di pensiero critico.

Ma davanti a questo stesso scenario, la medicina moderna – o dovremmo dire quella parte ufficialmente riconosciuta come l’unica – mostrava senza veli e pubblicamente la sua natura materialistica; di essere sprofondata in un riduzionismo senza via di uscita che è contrario all’uomo, alla vita. E così, comprendere che questo evento doveva condurre verso altri paradigmi medici – già esistenti ed operanti – che contengono in sé una visione integrale dell’uomo, anche quindi della sua dimensione sottile; possiamo quasi dire di una recuperata visione tradizionale, attraverso le più recenti acquisizioni della scienza, in particolare della fisica. Era il momento di elevarci dal “materialismo di fatto” in cui eravamo intrappolati, verso una scienza che è davvero conforme all’uomo e alla vita.

Ecco, questa è la capacità di pensiero elevato.

Trasferito nel mondo dell’arte, davanti a pseudoartisti da anni capaci solo di replicare le ultime direttive ideologiche già confezionate da altri, di essere dei falsi “anticorpi del potere” mentre invece lo rinforzano e ne sono i più seduttivi lacchè, di non essere più in grado di creare nulla di durevole e universale, ma di contorcersi nella più inutile autoreferenzialità, il pensiero aveva da sollevarsi e riconoscere come l’arte moderna attraversi una malattia terribile già da molto tempo. Diremmo quasi una malattia terminale. Quanto accaduto negli ultimi tre anni lo ha forse reso solo più esplicito. Ma se l’arte, la forma espressiva più nobile dell’uomo, l’azione che lo rende co-creatore, versa in tale ignominiosa condizione, significa che tutta la società moderna è malata. E come non comprendere allora che il terremoto pseudo-pandemico, che ha coinvolto ogni aspetto e categoria sociale doveva mostrare proprio questo? Che ogni struttura, ogni dinamica di questa società poggia sulla sabbia ed è quindi destinata presto a crollare. Perché ciò che è contro la vita, alla fine cede alla morte.

Il mondo intero è in subbuglio: dal punto di vista geopolitico, economico, culturale e antropologico. Nessun nuovo equilibrio si può raggiungere senza prima attraversare questo disorientamento, questa notte nebbiosa. Ma vi sono segnali che ci possono aiutare ad individuare la rotta. Torniamo allora al Festival della canzone. Davvero se non avessero deciso di invitare il presidente ucraino sarebbe stata una manifestazione degna di essere guardata? Davvero gli “artisti di regime, dopo quanto” hanno espresso in questi ultimi anni – e non solo negli ultimi – meritano ancora la nostra attenzione? Davvero davanti all’opera di devastazione culturale e di propaganda che le televisioni “ufficiali” stano portando avanti incessantemente da tempo, non riusciamo a liberarcene del tutto, liberando il nostro tempo e la nostra mente?

Bisogna però fare ancora un passo indietro per raggiungere la fonte da cui nascono queste domande. Il mondo si costruisce su polarizzazioni che servono solamente a dare l’illusione di cambiamento, ma che in realtà manifestano l’eterno dualismo tra Reazione e Rivoluzione. Un’alternanza che copre tutto l’arco della storia. L’uomo agisce quasi sempre “contro” qualcosa, per difendere qualcosa. Ora questa è la prima illusione da superare. L’agire contro, che nasce da un “pensare contro” significa essere completamente rivolti all’esterno e dall’esterno guidati. L’uomo che invece coltiva la propria interiorità coglie i segni che la Storia invia, li metabolizza, li fa suoi e infine agisce in risposta ad una “chiamata”. La sua azione parte dall’interno, dal profondo, verso l’esterno. Ed è una azione che possiamo definire “verticale”.

Questo mondo, qualsiasi delle sue polarità noi prendiamo in esame, è anche schiavo dell’evidenza, del risultato tangibile e che porta a concrete soluzioni. È un altro aspetto di un’umanità completamente rivolta solo all’esteriorità. Abbiamo perduto il senso del fare qualcosa solamente perché è giusto farla, perché in fondo “è l’unica cosa da fare, costi quel che costi”. Abbiamo forse perduto il rapporto con la nostra coscienza, che ci deve guidare anche e soprattutto nelle scelte difficili, dolorose talvolta.

C’è un’altra arte, un’altra musica, che non passa sulle grandi reti televisive. Ci sono, anche se pochissimi, artisti che non hanno dato voce alla narrazione. Di più. Vi sono artisti che hanno compreso come ormai l’intero mondo dell’arte – e possiamo dire che il cinema e la musica rappresentano forse le tristi punte di diamante – sia intrinsecamente corrotto; una scatola vuota che chiede contenuti vuoti. Artisti che cercano di costruire nuove strade, dove non c’è al momento altro che terra arida. Vi è, anche se pochissimi se ne sono accorti, l’inizio di un nuovo fermento, di un’arte per l’uomo e vicina all’uomo.

Di Sanremo sarebbe quasi più importante non parlarne affatto, mentre dovremmo impegnarci nel dare spazio a chi sta cercando di costruire nuove realtà. Bisogna però prima di ogni cosa, rompere le nostre abitudini, schiacciare la testa di quell’orribile mostro che è l’individualismo che ci ha cresciuto, anche se fatichiamo ad ammetterlo. Non si può risanare la musica e l’arte tutta, se prima non incominciamo a risanare le nostre vite. Questo è il vero cambiamento. Il riconoscere che la possibilità di un’arte diversa e libera dipende dalle scelte di ciascuno di noi. Un vero medico sa che, se un organo soffre, tutto il corpo è malato. Allo stesso modo dobbiamo tornare a pensare noi. Se l’arte è così malata è perché tutta questa società e anche noi siamo malati. Chi comprende questo, sa che il traguardo non è il convincere gli altri di un inganno, ma edificare una comunità di anime che pensa e costruisce nuovi spazi, nuove realtà. Non perché questa sia la “magica soluzione”, ma perché è la cosa giusta da fare. Se facciamo silenzio lo sentiamo già questo fermento che chiede di essere accolto e sostenuto. È questo il tempo.

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