BAGLIORI NELL’OSCURITÀ: IL CINEMA DI LYNCH E IL NOSTRO MONDO
C’è molta oscurità nei film di David Lynch. Ma vi è anche molta, improvvisa luce. Sogno, incubo, perdita della memoria, dell’identità, rottura delle coordinate che apparentemente regolano questo mondo. Il cinema di Lynch è oggi più che mai un cinema necessario, da riscoprire, perché forse può aiutare a comprendere meglio anche quello che sta accadendo alla nostra società.
«Le persone che compaiono dall’oscurità sono bellissime visivamente; ma l’idea stessa di comparire dall’oscurità è esattamente il significato della vita». Così, David Lynch, e noi non possiamo che confermare quanto questa affermazione sia bella e vera.
Il buio occupa molto spazio nei film del regista americano, che da poco ha compiuto 77 anni. Ma vi è anche molta luce. Strade perdute (1997) è tornato per alcuni giorni nelle sale in versione restaurata. Il film si apre sui titoli di testa con un’immagine accelerata di una strada illuminata solo dai fari di un’auto che corre in mezzo alla carreggiata. Non si vedono altre luci, non si vedono altre auto. Oltre il bagliore dei fari è solo nero. La gialla linea di mezzeria taglia a metà lo schermo, trasmettendo allo spettatore una sensazione di non chiara posizione, di “deragliamento psicologico”. Una semplice inquadratura dice tutto questo e si è già catapultati nell’universo lynchano.
«Affascinante è la visione della strada perduta, che ha un forte valore ipnotico. Si ha, in quest’immagine, la sensazione di precipitare, di essere assorbiti dalle tenebre. Bisognava dare l’impressione di una notte selvaggia». Sono ancora le parole del regista.
E dopo la strada, ancora oscurità che inghiotte tutta l’inquadratura. Poi, il bagliore di una sigaretta ci fa intravedere il volto di un uomo, Fred Madison, il protagonista del film. Solo il volto. Non sappiamo ancora dove ci troviamo, fintanto che le persiane elettriche non si aprono rivelando la sua figura seduta nel suo appartamento.
E così anche nelle prime immagini di Mulholland Drive (2001) dove la musica straniante di Angelo Badalamenti accompagna la figura di una nera limousine che percorre i tornanti notturni di una strada delle colline di Los Angeles: Mulholland Drive, appunto. Il nero dell’auto, il rosso acceso e sfuocato delle luci posteriori, il chiarore dei fari e poi oltre soltanto buio. In lontananza, le luci della metropoli sembrano indifferenti rispetto al dramma che si andrà a consumare. Vero o sognato che sia.
Le cose, le persone, come anche Rita, all’interno di quella limousine, si stagliano in mezzo ad un universo che si costruisce sull’oscurità. Sono piccole, grandi epifanie che prendono vita nella notte di questo mondo, nella mente degli uomini di questo mondo.
Ma non è dei film di Lynch in senso stretto che qui vogliamo parlare, questo è solo un pretesto per guardare a noi, a questa società che sembra sempre più mancare di luce, forse perché prima ancora ha rifiutato l’ombra.
Molti dei film del regista possono essere definiti come dei noir psicologici in cui irrompe il fantastico. Già il noir, di per sé è un genere che mette in crisi le coordinate di oggettività di ciò che vediamo, insinuando il dubbio che esso non sia vero. A questo Lynch aggiunge il fantastico, che è una lacerazione degli schemi logici che abitualmente noi attribuiamo al mondo reale. Esso è incubo, sogno, memoria scomposta, che altera le direttrici spazio-temporali del percepito. Ma esso non ci trasporta in un mondo immaginifico, lontano, ma al contrario si appoggia proprio sul mondo reale. Ed è proprio nelle ambientazioni più “quotidiane” che l’irrompere del fantastico si fa più terribile. Quando, in un certo senso, ci vuole dire che quella lacerazione, quel sogno o incubo potrebbe farsi reale per ciascuno di noi, in qualsiasi momento.
Vi è spesso un’altra caratteristica che condividono molti dei personaggi di Lynch: la perdita o alterazione della memoria. Perdita dell’orientamento sulla realtà, perdita o annebbiamento dei ricordi, perdita dell’identità. Queste storie presuppongono sempre una perdita. Questa perdita simbolicamente è come il nero da cui ad un certo punto fa capolino una luce. Questa perdita è la lacerazione dell’interiorità che permette l’irruzione del fantastico, di un’altra dimensione della realtà: sottile e, nel caso di Lynch, quasi sempre inquietante. Qualcosa, insomma, si deve spezzare, perché come canta anche Leonard Cohen «C’è una fessura in ogni cosa ed è da lì che entra la luce».
Guardiamo al nostro tempo, a questa società che magari spesso critichiamo, ma alla quale restiamo, però, aggrappati con forze che non sappiamo nemmeno di avere. Il razionalismo ha rinsecchito tutto: la politica, la scienza, il lavoro, la cultura, l’educazione e ovviamente anche l’arte. Razionalismo che è offesa della ragione, è gabbia che non la fa aprire ai respiri del genuino intellectus. Razionalismo che significa immanentismo, ovvero auto-confinamento su un unico piano di realtà. Tutto è grossolano, nessuno spazio per il “sottile”. Il non detto, l’evocazione, il sogno come stato non solo delle condensazioni psichiche, ma anche come possibilità di comunicazione diretta col divino, col Mistero, sono gli ospiti mancati di una società oramai morente.
Lo abbiamo visto anche in questi ultimi anni, in cui lo scontro sociale era tra chi “vedeva” e chi “non vedeva”, tra chi aveva capacità di pensiero critico e chi sembrava completamente dissolto dentro un’ipnosi di massa, tra chi sapeva leggere i dati con obiettività e chi li negava e li manipolava. Tutto logico e vero, ma solo su un piano di realtà che è quello più elementare e grossolano. Ma vi era e vi è molto di più da scoprire, da saper intendere. Segni e significati che ci avrebbero aperto spazi di meditazione e di azione incredibili, che sono stati, per il momento, mancati.
Ognuno ha cercato di restare in piedi, fermo nella sua parte. E così è ancora. Tutti avevano paura di perdere qualcosa, o di perdersi. Eppure, il mondo ci ha voluto dare una scossa. Se soltanto avessimo lasciato correre le crepe! Quanta luce sarebbe entrata!
Chi scrive non è un particolare appassionato dei film di Lynch, ma ritiene che questi compongano un’idea di cinema necessaria, oggi più che mai. Da vedere, conservare, riproporre. Un cinema che ci ricorda come siamo tutti inchiodati al bisogno di evidenza, di una facile spiegazione che possa convincere i nostri interlocutori. Di come siamo diventati tutti adepti della comunicazione, la quale ha le sue leggi tiranniche, ma di come nel frattempo abbiamo perduto la vera e più profonda capacità di esprimerci. Di come – anche quando lo neghiamo – abbiamo ricacciato il mistero, la dimensione sottile, nel regno delle fantasie puerili, o peggio nella superstizione. Vi sono davvero molte più cose in cielo e in terra di quante ne possa cogliere la nostra limitata ragione. Ma bisogna lasciarsi aprire dalle crepe e avvolgere dall’ombra, perché finalmente e improvvisa la luce rifulga.
Questo è un tempo di grande oscurità, ma proprio per questo, anche di immeritata e abbacinante lucentezza. Sta solo a noi spalancarle le porte. E poi: buona visione.