‘Vittoria’ è una parola pericolosa

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Le armi della propaganda aprono il fuoco sempre prima di quelle sul campo. Preparano il terreno alle seconde. E – all’interno del fuoco propagandistico – ogni mutamento di linguaggio indica un preciso aggiustamento della strategia militare.
Per comprendere ogni singolo passaggio della guerra in atto, è necessario capire gli obiettivi che in essa hanno i due (attuali) contendenti reali, ovvero USA e Russia; per gli Stati Uniti, l’obiettivo militare (quello politico va ovviamente oltre) è una guerra prolungata, che duri quanto più possibile, senza arrivare però ad un fronteggiamento diretto di massimo livello.

La propaganda precede le armate

Affinché l’obiettivo della lunga durata sia perseguito, si è reso necessario sin dall’inizio che l’intensità del conflitto fosse opportunamente graduata, tenuta ad un livello di costante – e crescente – tensione bellica, impedendo che si realizzi qualsiasi accadimento decisivo, capace di accelerare la fine del conflitto.
Da questo punto di vista, quindi, la propaganda atlantista (ed all’interno di essa l’evoluzione linguistica e terminologica) svolgono il compito di preparare lo step successivo. Ed il linguaggio è sempre mistificatorio (1).
Per tutta una lunga fase, la parola d’ordine è stata “daremo solo armi difensive”, un evidente imbroglio lessicale. Una tale distinzione, infatti, era forse possibile sino al Medio Evo, quando si poteva distinguere tra una spada (offensiva) ed uno scudo (difensivo), ma assolutamente risibile nel contesto delle armi moderne. Non per caso, durante questa fase la NATO ha fornito all’Ucraina centinaia e centinaia di pezzi d’artiglieria, e milioni di munizioni. Quando il corso della guerra ha messo in crisi questo approccio – perché i russi hanno distrutto gran parte di quell’artiglieria, e perché stock e produzione del munizionamento non hanno retto al ritmo di fuoco sul campo – ecco che la propaganda ha cominciato a ventilare l’ipotesi di fornire anche carri armati di fabbricazione occidentale. Di quelli di fabbricazione ex-sovietica ne erano già stati forniti a loro volta a centinaia, oltre a centinaia di blindati e mezzi di vario tipo, prelevati dagli arsenali della NATO.

L’evoluzione del conflitto sul campo, però, ha imposto una accelerazione, e quindi il tempo di passaggio dalla preparazione propagandistica alla consegna dei carri si è dovuto accorciare significativamente. Talmente tanto che la fornitura stessa non riesce a raggiungere la linea del fronte nei tempi che sarebbero necessari.
Perché la guerra è, contemporaneamente, uno degli eventi più pianificati e più imprevedibili al mondo.
E se gli eventi bellici vanno più velocemente del previsto, anche tutto il carrozzone propagandistico deve aumentare la sua velocità.
Ed ecco che si opera un ulteriore passaggio lessicale. Il Cancelliere Olaf Scholz, uno che passa per essere un moderato nello schieramento atlantista, che sembra opporre qualche resistenza all’invio dei Leopard tedeschi, se ne esce con una dichiarazione esplosiva: “affinché il conflitto militare finisca, la Russia deve perdere”.
La Russia deve perdere. Cioè la NATO deve vincere.
Il salto di qualità è enorme. Non più la difesa dell’Ucraina, ma la sconfitta della Russia.
Ed è chiaro che, se l’obiettivo (maldestramente giustificato – “affinché il conflitto militare finisca”) diventa questo, anche tutto ciò che è necessario al raggiungimento di tale obiettivo diventa lecito e necessario.

Ora è chiaro che non è certo Scholz che dà la linea; al contrario, se persino lui può permettersi di nominare esplicitamente l’obiettivo, ciò significa che esso è ufficialmente tale. E quindi, la finestra di Overton si è allargata, si è spostata un po’ più in là, sino a comprendere questa eventualità – con tutto ciò che ne consegue – e non semplicemente il prolungamento della guerra.
A questo punto, si rende necessaria una precisazione. Quando parliamo degli Stati Uniti, non parliamo di un monolite. Al suo interno, vi è non solo dibattito sul come perseguire gli interessi imperiali, ma anche sul come condurre la guerra – sino a che punto. Dibattito che, a sua volta, è giustamente influenzato dall’andamento della guerra stessa.
Il fatto che ora si parli esplicitamente di sconfiggere la Russia non implica che questo sia diventato l’obiettivo, ma solo che entra a far parte di un ventaglio di opzioni. Il punto fondamentale, la red line invalicabile per Washington, è non portare il conflitto ad un livello che comporti, anche solo a livello di rischio, un confronto nucleare. Le ragioni sono ovvie, poiché chi si sta battendo per mantenere la propria supremazia globale, non metterà mai a rischio la propria sopravvivenza.

Verso l’abisso

Ma è appunto nell’allargamento della finestra di Overton che, oltre ad apparire una nuova opzione, appaiono le vie percorribili per approcciarla. La questione di fondo è che perseguire l’obiettivo del prolungamento indefinito della guerra, come mostra l’andamento della guerra stessa, si sta rivelando sempre più complicato. L’impegno della Russia per risolvere il conflitto è crescente, ed al tempo stesso ancora ben lontano dal raggiungere il massimo sforzo impiegabile. È sempre più evidente che, a questi ritmi, le forze armate russe finiranno per soverchiare l’Ucraina + 30.
A giudicare da quanto sta avvenendo, con una corsa a fornire carri armati e corazzati da combattimento, sembrerebbe che gli strateghi NATO ritengano ancora possibile contenere l’avanzata russa, e soprattutto dare l’opportunità agli ucraini di mettere in campo (tra la primavera e l’estate) un paio di controffensive in grado di rintuzzare, almeno un poco, le truppe di Mosca. Se, com’è invece prevedibile, ciò non dovesse accadere, potrebbe farsi strada un’altra possibilità.

Per salvare l’Ucraina, infatti, potrebbe scattare l’aiuto fraterno di alcuni eserciti NATO che, muovendosi motu propriu, escluderebbero la necessità di ricorrere all’art.5 del trattato. Una ipotesi, questa, peraltro già avanzata e discussa. Si tratterebbe in tal caso di una offensiva da Ovest, con ogni probabilità delle sole forze armate polacche (o comunque a partire solo da quel territorio), eventualmente rinforzate da contingenti di altri paesi (Slovacchia, baltici…). Che la Polonia scalpiti da molti mesi per un intervento è cosa nota, non solo per un atavico odio russofobico, ma anche per più concrete ambizioni territoriali proprio a scapito dell’Ucraina. Del resto, non solo Varsavia è da sempre capofila dell’estremismo atlantista, ma sta ormai chiaramente predisponendosi ad un conflitto con la Russia, aumentando il numero delle sue forze armate, equipaggiandole con mezzi moderni americani e sudcoreani, ed accumulando truppe al confine orientale.
In questa eventualità, per un verso la NATO sarebbe ancora più direttamente coinvolta, e per un altro gli USA potrebbero evitare ancora di scendere direttamente in campo.

Questa opzione, a sua volta, potrebbe sfociare sia in una opportunità per estendere la durata del conflitto, oltre le capacità dell’ormai esausto esercito ucraino, sia – nel caso di uno scricchiolamento del sistema politico-militare russo – in un tentativo di azzardare la vittoria.
Il che ci porta a guardare le cose, appunto, dall’altro lato del fronte.
Mentre Scholz rilasciava la sua avvenata dichiarazione, Putin ha tenuto un atteso discorso a San Pietroburgo. Sia lui che Lavrov hanno ovviamente fatto una serie di dichiarazioni importanti, ma per certi versi si è trattato prevalentemente di ribadire ed approfondire concetti e posizioni già espressi. La frase più significativa, invece, è assolutamente lapidaria, e sembra quasi una risposta all’enunciato del cancelliere tedesco. Dice infatti Putin “la nostra vittoria in guerra è inevitabile”.
Ad una impressione superficiale, può apparire quasi una smargiassata, del genere del mussoliniano “vincere, e vinceremo!” – ed è probabile che così sarà letta e presentata dai soliti gazzettieri al servizio degli anglo-americani.

Diversamente, anche qui siamo di fronte ad una dichiarazione estremamente potente, dalle implicazioni considerevoli, e che se non rappresenta proprio un radicale cambiamento poco ci manca.
Tanto per cominciare, anche qui la questione lessicale non è affatto secondaria; il passaggio dall’implicito all’esplicito segna sempre un punto di non ritorno.
L’affermazione putiniana, dunque, comporta una riduzione della finestra di Overton. Se nella primissima fase del conflitto la principale opzione in campo era una trattativa sullo status delle regioni russofone e sulla sicurezza reciproca in Europa, e successivamente un riconoscimento delle conquiste territoriali, d’ora in avanti l’opzione numero uno è la vittoria, cioè la sconfitta manu militari dell’Ucraina e della NATO sul campo di battaglia.
Ma ancor più rilevante è il definirla inevitabile. Che non va inteso come ineluttabile, ma in senso letterale, come ciò che non si può evitare. In buona sostanza, significa che la Russia è giunta alla determinazione che, essendo la sua stessa esistenza minacciata dalla NATO, non vi è altra via per evitarlo che vincere la guerra. Il che, a sua volta, potrebbe anche significare che si prenda il suo tempo per conseguire tale obiettivo, ma che in ogni caso si batterà con tutte le sue forze.

Se questo è il quadro, si palesa come il più cupo possibile. Nella migliore delle ipotesi, la guerra squasserà l’Europa ancora per un bel po’, ed in ogni caso finirà in clash spaventoso, paragonabile a quello del 1945.
Siamo su un piano inclinato cosparso di grasso, dovremmo cercare di evitare che si inclini ancora di più. C’è un punto di non ritorno, oltre il quale non è più possibile impedirsi di scivolare tutti insieme verso l’abisso.


1 – “Se per soft power intendiamo anche la dimensione comunicativa del potere è evidente che la stessa notiziabilità di un evento, ovvero l’idoneità a fare notizia, a trasformarsi in un media event, tenderà a dare credibilità o meno alla minaccia dimostrandosi, tale processo, la migliore esemplificazione dell’uso strategico del ‘News Management’, soprattutto quando si tratterà di decidere come presentare o vendere una guerra. (…) In questa nuova frontiera, la notizia viene creata, manipolata, piegata e ridefinita in progressione rispetto allo svolgersi degli eventi in maniera tale da far apparire quanto accade sul terreno sempre più aderente agli scopi comunicativi prefissati, cercando consenso anche solo in una parte dell’opinione pubblica ma costantemente. Ovvero si tratta di riuscire a confezionare una notizia in permanente trasformazione, rivolta a creare un vantaggio competitivo in chi la gestisce, favorendo la confusione ed il caos”, in Giuseppe Romeo, “Guerre ibride”, Diana edizioni

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