Certo è fin troppo facile, oggi, celebrare un Benedetto XVI ormai defunto. Talmente facile che possono farlo con disinvoltura – e con le capriole iperboliche tipiche dei requiescat d’ufficio – perfino quelle centrali di potere che, mentre era vivo, non gli risparmiarono campagne diffamatorie, boicottaggi, umiliazioni, infami agguati. Scorrendo le generose commemorazioni sui social si sarebbe tentati di pensare a Joseph Ratzinger come al Pontefice più rispettato di tutti i tempi, quando in realtà pochi furono disprezzati e infangati più di lui, tra i moderni successori di Pietro. Perciò, più che dilungarsi sulle sue qualità intellettuali e morali, già ben ricordate da autorevoli commentatori, di quel disprezzo bisognerebbe parlare, proprio ora che si vorrebbe archiviarlo sotto una lapide.

Molte, in realtà, sono le colpe che a Benedetto XVI non sono mai state perdonate. Una su tutte: per quanto oggi – in tempi in cui il bergoglismo si fregia della collaborazione con Rockfeller e Rotschild – sembri incredibile, vi fu un tempo in cui un Papa poteva essere capace di logiche e strategie alternative a quelle delle cancellerie che contano. Discutibili quanto si vuole, ma autonome. Negli otto anni del suo pontificato, Benedetto XVI si è mosso infatti entro orizzonti geopolitici ben poco intonati alle agende di Davos e consorzi analoghi, e questo è un fatto. Ma anche un’onta, che si è portata dietro le prevedibili conseguenze.

Dopo una crisi diplomatica con il governo israeliano, che non aveva gradito la riabilitazione del lefebvriano Richard Williamson, la sua visita in Terra Santa nel 2009 venne accolta da accese critiche (di «discorso freddo e calcolato» sull’Olocausto parlò il quotidiano liberal Haaretz), mentre da noi si rispolverava ad hoc la polemica sull’iscrizione precettata per legge dell’allora giovanissimo Ratzinger alla Hitlerjugend (senza peraltro che nessuno aprisse bocca sulla partecipazione volontaria ad organizzazioni fasciste e naziste di tanti intellettuali poi riciclatisi nel firmamento progressista). Per non dire delle polemiche – già intensissime – con il mondo islamico dopo la lectio magistralis del 2006 a Ratisbona, che all’universo musulmano aveva posto con chiarezza la questione della violenza integralista. Il passo incriminato era in quel caso la citazione del santo bizantino Michele II Paleologo: «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava». Un’affermazione brusca e «per noi inaccettabile» aveva sottolineato il pontefice, ricordando peraltro il precetto coranico «nessuna costrizione nelle cose di fede», ma tanto era bastato per suscitare un violentissimo coro di proteste fra Egitto, Emirati, Turchia, Marocco, Libia, per non dire delle comunità musulmane francese e tedesca, di Al-Fatah e anche di Al-Qaeda, che per parte sua aveva accusato Ratzinger di collateralismo alle guerre di Bush jr. e minacciato attentati a Roma. Non solo: dal New York Times a buona parte della stampa occidentale erano fioccate richieste di scuse e critiche feroci, mentre in India fantocci con il suo volto venivano dati alle fiamme e in Cisgiordania andavano a fuoco direttamente le chiese. Fino all’assassinio di suor Leonella Sgorbati in Somalia e di Amer Iskander in Iraq (i cui sequestratori avevano chiesto un articolato testo di rettifica del discorso di Ratisbona): tutte tragedie che però, in buona sostanza, l’Occidente imputò al papa, reo di avere mancato di rispetto ai musulmani. I tempi del Je suis Charlie erano ancora di là da venire.

Come non ricordare, poi, la rivendicazione del «diritto a non emigrare», che depositava nella facile retorica progressista il seme di un’insostenibile contraddizione? O ancora l’intervento sulla Cina, con quella lettera del 2007 che smontava l’idea di una chiesa patriottica nel gigante asiatico e, pur con abilità diplomatica, sanciva «i principi di indipendenza e autonomia, autogestione e amministrazione democratica della Chiesa cattolica»: «La pretesa di alcuni organismi, voluti dallo Stato ed estranei alla struttura della Chiesa, di porsi al di sopra dei vescovi stessi e di guidare la vita della comunità ecclesiale, non corrisponde alla dottrina cattolica» scriveva Benedetto XVI. Ma anche di quel documento – come avrebbe ricordato dieci anni dopo il vaticanista Gianni Valente – giornalisti ed ecclesiastici si preoccuparono subito di «attutire la portata, offrendone chiavi di lettura manipolate». Erano, del resto, i tempi in cui s’accendevano gli entusiasmi di quel Joseph Zen che oggi, mentre piange sulle spoglie di Ratzinger, lancia strali contro Bergoglio e Parolin.

Un pellegrino in cerca dell’Europa

In giro per il mondo, insomma, Benedetto XVI andava costruendo una trama peculiare, da capo di una Chiesa e di uno Stato che avevano ancora l’ambizione di giocare un ruolo nella difesa di interessi e di un’identità propri. Tutto s’intrecciava a questioni geostrategiche delicatissime, anche se l’epicentro polemico era qui da noi. I rapporti con la Cina toccavano i nervi sensibilissimi di una UE ancora in cerca d’autore. E la visita in Israele portava il Papa in quel Medioriente in cui Obama progettava una delicata rete di equilibri col mondo musulmano. Quel mondo che – con la sollecita collaborazione della stampa statunitense – a Ratzinger aveva violentemente chiuso le porte appunto nel 2006, dopo Ratisbona. Peraltro poco prima della storica visita in Turchia, facendo forse pagare a Ratzinger anche il fio per aver messo il bastone fra le ruote all’idea di un ingresso turco nella UE fin dal 2004. O per la sua ostinazione nel porre ad Ankara l’ovvia questione della libertà religiosa, e a Bruxelles un’idea di Europa non imbrigliabile entro le geometrie dettate dalle opportunità della finanza.

Ecco, l’Europa. Questo in realtà era il punto: l’aver reintrecciato inscindibilmente la questione dell’identità europea a quella di un’identità cristiana ormai alla resa dei conti con l’egemonia onnivora della techne secolare. Questo infatti – se il dibattito non fosse stato deviato su polemiche strumentali – sarebbe stato il passo cruciale del discorso di Ratisbona: «Considerato questo incontro [tra il cristianesimo e il pensiero filosofico greco], non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell’Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa».

La sferza papale era diretta insomma tutta all’interno del mondo cristiano. A quei tentativi ripetuti di «de-ellenizzazione» della cultura cristiana il cui punto d’irradiazione era appunto il cuore dell’Europa. Era la parabola del protestantesimo storico, dalla riforma di Lutero alla teologia liberale di Von Harnak e al relativismo oggi di moda: in una parola, la secolarizzazione del cristianesimo continentale che originava, secondo Ratzinger, dal rifiuto del nesso fra teologia e metafisica (o tra fede e ragione pura). O che pretendeva di reimpostare la bimillenaria tradizione cristiana per andare alla ricerca di una mitologica purezza originaria, annegata però in questione di pura morale (o moralismo) e infine di generalizzato relativismo umanitaristico. Di qui l’apertura agli anglicani tradizionalisti dopo la Conferenza di Lambeth, e soprattutto la virata del dialogo interconfessionale verso la Chiesa Ortodossa. La più vicina a Roma per ragioni dottrinali e culturali, ma la più distante dall’Occidente unipolare sognato a Washington e nelle sue succursali bruxellesi. Forse, anzi, è proprio lì, nell’intoccabile linea di faglia fra Europa (leggi Germania) e Russia, che anche il coraggioso e avveduto Benedetto ha trovato l’inciampo definitivo (benché solo in termini umani e contingenti).

L’insostenibile idea di una società che non si arrende

Insomma, questa complessa intelaiatura non era un puro gioco di potere, un quadro utile ad organizzare trame di interessi privati e innominati, bensì lo sfondo su cui recuperare un nuovo ordine culturale. Uno spazio geopolitico in cui la tradizione greco-cristiana potesse reinsediarsi, ridefinendo gli equilibri occidentali e arginandone le derive. Con gli strumenti umani della diplomazia e della strategia, certo, e con le contraddizioni che ciò comporta da sempre, anche nella storia della Chiesa. Ma dietro c’era una visione. La visione complessiva di un mondo capace di opporsi alla selvaggia egemonia della globalizzazione anglo-americana e dei suoi ideologismi. L’idea di una società non ancora arresa alla desacralizzazione integrale, alle verità di facile consumo, all’indolenza del pensiero e all’eclissi della ragione in nome della tecnica. Ben sapendo che queste degenerazioni sono il portato di precisi rapporti di forza politici ed economici.

Se glielo avessero consentito, Benedetto XVI avrebbe detto questo all’inaugurazione dell’anno accademico alla Sapienza, in quel gennaio 2008 segnato da una delle tante dimostrazioni di disprezzo di cui sopra:

«Esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande. Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma».

Sottotraccia, e con la pacatezza di cui Ratzinger era capace, correva il tema dei temi: la pretesa onnipotenza della razionalità umana, facilmente traducibile in dogmatica scientista e totalitarismo tecnologico. Il totale oblio della ragione europea, funzionale a interessi altri e potenzialmente mostruosi. Dal tema della scienza e dei suoi limiti, del resto, erano derivati gli isterismi che avevano chiuso al Papa le porte dell’antico ateneo romano. Fu forse un pretesto ripescare ad hoc le parole ch’egli aveva pronunciato, ancora da cardinale, diciassette anni prima sui limiti della scienza, o forse no: forse era quella la ferita bruciante. Certo surreale era stata allora la corsa dei professori a denunciare il presunto stravolgimento delle parole di Feyerabend – l’illustre filosofo della scienza che Ratzinger aveva citato a proposito del caso Galilei – fino a che Feyerabend stesso intervenne per confermare che le sue parole non erano in alcun modo state fraintese. E indicativa fu la violenta requisitoria di Massimo Cini contro l’invito al Papa da parte dell’Ateneo: inaccettabile che parlasse da quella cattedra chi aveva una «concezione delle scienze come ambiti parziali di una conoscenza razionale più vasta e generale alla quale esse dovrebbero essere subordinate». Indicativa, sì, perché la questione era sempre la stessa: il pericolo rappresentato da un Papa che cercava di «aprire un discorso tra fede e ragione, di ristabilire una relazione fra le tradizioni giudaico-cristiana ed ellenistica, di non volere che scienza e fede siano separate da un’impenetrabile parete stagna». Così spiegava Giorgio Israel, in quei giorni, su L’Avvenire. Davvero intollerabile se, come scrisse Costanzo Preve, al «recupero del grande umanesimo classico, a partire ovviamente da Aristotele» il pensiero laico altro non aveva da opporre che «una ricostruzione fumettistica della storia dell’umanità, della filosofia e della religione».

Troppo vecchio o troppo nuovo?

L’agire di Benedetto XVI – politico, sì, ma nel senso alto e ormai perduto di chi governa perché ha un progetto di civiltà – scopriva e intaccava gli equilibri di un ordine mondiale di cui pazientemente aveva ricostruito la genesi nelle riflessioni di una vita: dalla crisi della teologia morale negli anni Sessanta al contemporaneo trionfo di un violento libertarismo individualistico venuto d’oltreoceano, fino al più pericoloso anarchismo etico, sostenuto dai disvalori della finanza internazionale e del suo bieco utilitarismo. La «dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie» di cui il cardinale Ratzinger parla nella celeberrima Omelia del 18 aprile 2005, poco prima di salire sul soglio, è la stessa di cui percorreranno la genealogia i suoi appunti sulla Chiesa e la pedofilia, dati alle stampe dopo le dimissioni: «La società occidentale – vi scriverà – è una società nella quale Dio nella sfera pubblica è assente e per la quale non ha più nulla da dire. E per questo è una società nella quale si perde sempre più il criterio e la misura dell’umano».

Dopo le sue dimissioni circolò la voce che dietro il sorprendente gesto ci fosse nientemeno che Obama, ma furono sempre smentite. Non sorprende, però, lo scambio di email, rivelato da Wikileaks, fra John Podesta e Sandy Newman, che nel 2012 discutevano di come produrre una “rivoluzione” nella Chiesa Cattolica. Né che dagli USA sia partito uno dei colpi più duri al pontificato di Benedetto XVI, con l’inserimento del Vaticano nella lista dei Paesi potenzialmente sospettabili di riciclaggio, proprio nel 2012 (mentre proprio Benedetto XVI si occupava della delicatissima questione dello IOR). Per non dire della denuncia alla Corte Penale Internazionale presentata l’anno prima a suo carico da due importanti associazioni statunitensi a difesa delle vittime di pedofilia: tutto finito nel nulla (dato anche che proprio Benedetto XVI fu uno dei Papi più impegnati nella lotta a questo crimine), ma l’effetto fu detonante.

A prescindere però dalle possibili ricostruzioni sulle ragioni delle sue dimissioni, e senza entrare nel merito di questioni su cui forse un giorno verrà fatta chiarezza, resta un fatto. Cioè che Benedetto XVI è stato, in ogni manifestazione della sua personalità, anacronistico. Com’è tipico dei profeti: distonici col loro tempo tanto da poterne essere la coscienza critica. Proiettati in un futuro che nessuno vede perché ancorati a una tradizione che nessuno vuole. Rigoroso interprete di una fede che non va di moda, coraggioso politico in un mondo in cui la politica non esiste più, pensatore raffinato dentro una società che ha perso il gusto per il pensiero. Troppo vecchio, o (il che in questo caso può essere lo stesso) troppo nuovo. Ingravescente aetate: chissà se fu solo la presa d’atto di una limitazione fisica. Di certo, questo non essere contemporanei, mai, al proprio secolo, è virtù cristiana quant’altre mai (del resto non è il cristianesimo trionfo di valori che sono disvalori per il secolo?), perché senza di essa non si può essere ciò che un servo di Dio deve essere. Pietra d’inciampo. Pietra scartata che poi diviene pietra angolare.

Molto si potrebbe dire del percorso ratzingeriano lungo il Novecento. Anche dei suoi errori, dei suoi passi indietro. Del suo rapporto con un Concilio infine tradito da una “epistemologia della rottura” contraria alle sue intenzioni. E delle briciole che di quegli scontri coi potenti cadevano sulle ginocchia dei tanti spettatori inconsapevoli, sotto forma di propaganda orchestrata, come sempre, per dividere conservatori e progressisti, umani e non umani, fautori dei diritti e nemici dei diritti, bigotti e gente alla moda. Solite storie, di cui non vale troppo la pena occuparsi. Anche perché poi arriva la Storia. Le molte colpe che a Ratzinger non sono state perdonate, sarà la Storia a voltarle in meriti, ma ci vorrà del tempo prima che anche il suo operato arrivi al proprio tempo. Ora, mentre trionfa il catechismo in pillole del “vogliamoci bene” bergoglista, l’unica cosa che si può fare è aspettare. E, come sempre, vegliare.

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3 thoughts on “GLI IMPERDONABILI MERITI DI BENEDETTO XVI

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