LE PELLE DELL’ORSO
Gli imperi, così come ogni altra forma di organizzazione umana, sorgono, vivono e poi decadono. Nella fase di formazione, un impero manifesta una forma di aggressività espansiva, nella fase di declino una forma di aggressività difensiva. Quando un impero comincia a manifestare quest’ultima forma di aggressività, è segno inequivocabile che è iniziato il suo declino. La sola questione aperta è quanto durerà tale fase, e quanto sarà rovinosa.
Giro di boa
Come sempre, la realtà prima o poi si afferma. Comincia a filtrare attraverso le maglie delle narrazioni mistificatorie, si aggruma qui e là, quindi emerge in tutta la sua evidenza. È ciò che sta accadendo, riguardo al conflitto in Ucraina. Giorno dopo giorno, si delineano i pezzi del puzzle, si ricompone il disegno complessivo. In fin dei conti, è davvero stupefacente che ancora nessuno osi dire l’intera verità.
Per quanto l’impero statunitense abbia programmato lo scontro con la Russia da almeno tre lustri, per quanto lo abbia lungamente preparato, alla prova dei fatti la sua strategia si sta dimostrando fallace.
Gli obiettivi di Washington erano almeno tre: impegnare Mosca in una lunga guerra di logoramento, tranciare definitivamente ogni connessione tra Russia ed Europa, ed isolare internazionalmente il paese nemico. Questi tre obiettivi, però, erano e sono subordinati ad una condizione ineludibile, ovvero la capacità di condurre lungamente la guerra senza uscirne sconfitti. E ciò implica il riuscire a logorare la capacità di combattimento della Federazione Russa, ed in misura abbastanza significativa, prima di trovarsi a propria volta logorati dal conflitto. L’evidenza dei fatti dice che questa condizione non si è verificata, né si verificherà, e pertanto il disegno strategico degli USA si fondava su un calcolo sbagliato.
Innanzitutto, i centri di potere che guidano l’impero USA (pur consapevoli del declino imperiale, che è poi la ragione della postura bellicista assunta) non hanno avuto la corretta percezione dei cambiamenti intervenuti nel mondo o, quanto meno, della loro vastità e profondità. Da Washington si continua a parlare di “comunità internazionale” e di “ordine internazionale basato su regole”, senza accorgersi che stanno parlando del solo occidente collettivo, e che il resto del mondo non si riconosce più in questo ordine – anche perché ha ben chiaro che l’occidente, quando gli fa comodo, se ne frega delle sue stesse regole. Il risultato dell’aggressività statunitense, quindi, è stato l’opposto di quello desiderato: invece di spingere i paesi terzi ad allontanarsi dalla Russia, li stanno spingendo a diffidare sempre più degli USA, ed a collaborare tra di loro per proteggersi. Non si tratta solo dei BRICS+ o della Shanghai Cooperation Organization (SCO), ormai subissate di richieste di adesione; c’è un vero e proprio smottamento globale degli equilibri e dei posizionamenti internazionali.
Nonostante le differenze e taluni interessi persino divergenti, Russia e Cina rinsaldano i propri rapporti. Paesi di grandissima importanza strategica, come India ed Arabia Saudita, si allontanano sempre più dal sistema unipolare a stelle e strisce, riposizionandosi in favore del nascente multipolarismo. Un rogue state come l’Iran stringe un’alleanza strategica con Mosca, che dalla collaborazione in Siria assume oggi una dimensione globale. Nell’Africa sub-sahariana numerosi paesi cacciano i francesi e chiamano i russi. Persino all’interno della NATO c’è chi non accetta i diktat di Washington e va per conto suo, con la Turchia (secondo esercito dell’Alleanza) che si ritaglia un ruolo di mediatore, e l’Ungheria che si rifiuta di collaborare.
La liaison tra Europa e Russia si è effettivamente interrotta, forse persino più subitaneamente del previsto, ma è effettivamente ancora lungi dall’essere definitiva. E perché ciò accada è necessario che l’interruzione si prolunghi ancora a lungo, quindi non solo che permangano le condizioni che l’hanno determinata, ma che non emergano rilevanti fattori contrari. Nonostante la massiccia campagna di comunicazione messa in atto dalla propaganda di guerra, e la conseguente militarizzazione dell’informazione, infatti, è notorio che la gran parte delle opinioni pubbliche europee è quanto meno tiepida rispetto a questa politica di chiusura, così come che le stesse leadership dei paesi europei siano attraversate da non poche perplessità. Per tacere poi del fatto che, seppure con grande discrezione, i rapporti est-ovest continuano, per la semplice ragione che interromperli effettivamente, e di colpo, significherebbe il collasso del sistema socio-economico europeo.
Il prezzo (voluto) di questo congelamento dei rapporti con Mosca è innanzitutto una crisi del sistema europeo. Che non è semplicemente la crisi del sistema produttivo, e quindi del livello di benessere, ma ha un impatto assai più profondo. Da un lato sta stressando fortemente le relazioni intra-europee, acuendo la crisi dell’UE, e dall’altro prepara il terreno ad una crescente delegittimazione dei governi, tanto più probabile quanto maggiore ne è stato l’allineamento ai desiderata statunitensi.
Se sul breve termine un’Europa divisa e debole – economicamente e politicamente – può essere utile alla strategia USA, sul medio-lungo periodo rischia di rovesciarsi in un problema. Innanzi tutto perché la divisione può favorire le spinte centrifughe, e poi perché la debolezza ridurrà considerevolmente la capacità europea di condividere i costi della strategia imperiale, sostenendone lo sforzo bellico. Cosa che a Washington già stanno ipotizzando…
Ed è proprio su questo terreno che il disegno sta venendo meno.
La realtà di fatto è che, in capo a dieci mesi di guerra, la Russia occupa stabilmente oltre il 20% del territorio ex-ucraino, ne ha messo in ginocchio l’infrastruttura energetica, ed ha inflitto perdite enormi (1) alle forze armate del paese. Tutto ciò, praticamente da sola, forse con un piccolo aiuto da parte iraniana, e – pare – una piccola fornitura di munizionamento leggero nord-coreana. Di contro, ci sono almeno trenta paesi, NATO e non solo, che dal 26 febbraio 2022 assicurano un flusso costante di soldi, informazioni di intelligence, armamenti e munizioni, e che adesso sono in affanno.
Ed è qui il punto di svolta, la cartina di tornasole che svela l’inconsistenza della strategia yankee. Perché la guerra, si sa, è una faccenda che ha sì vita propria, può sempre comportare eventi imprevedibili capaci di ribaltare le aspettative, ma tutt’altra faccenda è sbagliare clamorosamente i calcoli su cui si è deciso di scatenarla. Ed è ciò che, incredibilmente, hanno fatto gli strateghi statunitensi; come altro definire – se non follia – l’idea di innescare una guerra di lunga durata, senza essere in grado di sostenerla neanche per un anno?
Risulta francamente difficile comprendere su quali valutazioni si basassero, al Pentagono, alla CIA, alla NSA, alla Casa Bianca; una incredibile sopravvalutazione delle capacità dell’Ucraina? Difficile; gli uomini della NATO hanno lavorato con loro per otto anni, a suo tempo dovettero impapocchiare gli accordi di Minsk per dar modo a Kyev di riprendere fiato, e nei mesi precedenti l’avvio dell’Operazione Speciale Militare si sono svolte ben tre grandi esercitazioni militari NATO in Ucraina. Impossibile dunque che non sapessero le reali possibilità di quelle forze armate. Una ancor più straordinaria sottovalutazione delle capacità della Federazione Russa? Se così fosse, saremmo ben oltre la follia, ché suscitare un conflitto potenzialmente capace di portare alla terza guerra mondiale, a partire da un errore di tale portata, è inconcepibile. Né d’altro canto è possibile pensare che non conoscessero neanche sé stessi – gli arsenali della NATO e le capacità produttive dell’industria bellica occidentale.
Insomma, com’è possibile che si siano venduti la pelle dell’orso, senza neanche avere le cartucce per ferirlo?
La NATO è un bullo con le gambe d’argilla?
La questione fondamentale è che, dopo la caduta dell’URSS, gli eserciti degli Stati Uniti e della NATO hanno avuto una trasformazione strategica fondamentale. Mentre sino a quel momento erano sostanzialmente concepiti in funzione di una grande battaglia di massa sul terreno europeo (nell’ipotetica eventualità di una invasione sovietica), da quel momento in poi tutto viene riorientato su obiettivi di altra natura, e quindi su una strutturazione radicalmente diversa.
Memori della durissima sconfitta subita in Vietnam (e del costo politico altissimo che quella guerra ha pagato sul fronte interno), la strategia americana post-URSS viene riarticolata in funzione del consolidamento del dominio imperiale unipolare.
Viene ampliata al massimo grado la capacità di proiezione globale delle forze armate USA, non solo attraverso sei flotte navali, ciascuna dedicata al controllo di un settore marittimo, che coprono l’intero globo, ma anche attraverso la più grande espansione di basi militari sul pianeta (oltre 800 basi dichiarate (2), nelle quali sono dispiegati circa 200.000 uomini; un vero e proprio imperial overstretch). La NATO cessa di essere il patto atlantico finalizzato alla difesa in Europa, e diventa strumento della politica imperiale senza più confini. E sopra ogni cosa, tutto l’intero sistema militare integrato dell’occidente viene reimpostato in funzione di guerre asimmetriche.
D’ora in avanti, si immagina, saranno combattute guerre contro nazioni infinitamente più deboli, militarmente ed industrialmente, saranno combattute prevalentemente sfruttando la capacità di assestare un first strike devastante, a cui solo se necessario seguirà un limitato intervento sul campo, e saranno combattute sfruttando al massimo la soverchiante capacità tecnologica bellica.
È questo il modello con cui vengono combattute le guerre d’aggressione contro l’Afghanistan (2001), contro l’Iraq (2003), contro la Libia (2011). Questo tipo di conflitto richiede un numero più limitato di combattenti, ma di alta preparazione, anche per via della crescente sofisticazione dei sistemi d’arma utilizzati. Prevede una breve fase iniziale ad elevata concentrazione di fuoco, cui segue una più o meno lunga fase a bassa intensità. È, insomma, un tipo di guerra che sfrutta al massimo l’asimmetria tra le parti, Una guerra a basso consumo.
A questo modello, ovviamente, si adegua l’intero sistema: non solo quindi le strategie e le tattiche di combattimento, la composizione e l’articolazione delle unità, i sistemi d’arma e la logistica, ma la stessa industria militare. La quale, essendo negli USA totalmente privata, ovviamente preferisce un modello produttivo che prevede quantitativi limitati ma ad altissimo valore aggiunto.
Per questo il meccanismo va in tilt, in Ucraina. Perché nella sua interezza non è attrezzato per combattere una guerra come questa.
Per quanto assurdo possa apparire, la verità è che la NATO si è impelagata in una guerra che non è in grado di condurre.
La guerra che gli ucraini stanno conducendo per conto di Washington, è una guerra d’attrito, che comporta un costo elevatissimo nel consumo di uomini e mezzi. Tanto per cominciare, è una guerra in cui gioca un ruolo fondamentale l’artiglieria. Diversamente da quanto accadde durante l’Operazione Barbarossa, quando le truppe tedesche invasero l’Unione Sovietica, penetrando velocemente sul territorio dell’attuale Ucraina con unità mobili e corazzate, questa è assai più simile alla guerra di trincea del 1914/18, con in più una linea del fronte che si incardina spesso sui centri urbani, costringendo le parti a sanguinosi combattimenti casa per casa. In questo scenario, quindi, il fuoco d’artiglieria è fondamentale. E raggiunge livelli semplicemente inauditi, per gli standard occidentali.
Secondo il Wall Street Journal (3), le forze armate di Kyev sparano fino a 6.000 proiettili da 155 mm al giorno, a fronte di una produzione annua totale statunitense di quasi 170.000. Il risultato di questo livello di fuoco è che, in capo a dieci mesi di guerra, gli arsenali dei paesi NATO si sono praticamente svuotati, e l’industria non è in grado di sopperire velocemente al fabbisogno. Ammesso che si determinassero subito le condizioni (4) per incrementare la produzione, potrebbero volerci da uno a due anni per andare a regime.
Secondo funzionari tedeschi sentiti dal WSJ, la Germania oggi avrebbe abbastanza proiettili per un massimo di due settimane di combattimenti, in caso di guerra, di molto inferiori ai requisiti NATO, secondo i quali i membri dell’Alleanza dovrebbero avere munizioni sufficienti per almeno 30 giorni di operazioni – una quantità comunque ridicola, se rapportata al consumo in Ucraina. Nell’opinione di un industriale ceco del settore, anche se la guerra si fermasse oggi, l’Europa impiegherebbe fino a 15 anni per ricostituire le sue riserve all’attuale ritmo di produzione.
Paradossalmente, quindi, la NATO si è cacciata in un vicolo cieco. Anche a prescindere dalla volontà politica di sostenere l’Ucraina, nonostante le crescenti difficoltà economiche, soprattutto europee, si trova oggi di fronte ad una difficoltà materiale, insormontabile sul breve-medio periodo. Ed in coincidenza con un momento di estrema criticità per gli ucraini. Paradossalmente, a questo punto nemmeno un intervento diretto della NATO nel conflitto potrebbe spostare più di tanto gli equilibri sul terreno, ma alzerebbe i rischi di una sconfitta sul campo a livelli inaccettabili.
Non resta quindi altra alternativa che trovare il modo per tenere in vita l’Ucraina il più a lungo possibile – sino all’ultimo ucraino, e se non bastasse sino all’ultimo polacco o rumeno…
A meno di optare per la guerra nucleare, che nella migliore delle ipotesi sarebbe l’inverarsi della MAD (Mutual Assured Destruction), questa è una guerra persa, per l’impero americano. Dopo la fuga da Kabul, al termine di vent’anni di guerra perfettamente inutile, che già ne ha minato profondamente la credibilità e l’affidabilità, se non trova una via d’uscita almeno spacciabile per onorevole, sarà un colpo durissimo.
Resta il fatto che, come conseguenza di questa guerra, Washington avrà bisogno di qualche anno prima di potersi lanciare in una nuova avventura bellica; una pausa di cui approfitteranno quanti, per una ragione o per un’altra, se ne sentono minacciati. Ma, forse, potrebbe essere addirittura il prodromo dell’implosione della NATO stessa.
1 – Di recente, è venuto fuori un documento interno del Ministero della Difesa di Kyev, secondo il quale i dispersi (ovvero i caduti di cui non sono stati recuperati i corpi, cosa che gli ucraini fanno spesso) sono oltre 35.000. Questo rende assai credibile la cifra di 200.000 caduti, così come riservatamente stimato tempo addietro.
Si tenga presente che, tra l’altro, sta aumentando la mortalità tra i feriti, sia per la difficoltà di prestare il primo soccorso (a causa della crescente impreparazione dei coscritti), sia per mancanza di energia elettrica e sangue negli ospedali. A conti fatti, e tenuto conto del normale rapporto tra caduti e feriti, che è di 1 a 4, stiamo probabilmente parlando di qualcosa come un milione di uomini uccisi o feriti in combattimento.
2 – Cfr. Limes, La collana di perle delle basi militari americane [www.limesonline.com/]
3 – Cfr. https://www.wsj.com/articles/europe-is-rushing-arms-to-ukraine-but-running-out-of-ammo-11671707775
4 – Aumentare la produzione ai livelli richiesti necessità di grandi investimenti, che l’industria privata non è disposta a fare senza garanzie di forniture a lunga scadenza. Inoltre, anche in Europa, dove pure l’industria bellica è spesso pubblico/privata, vi sono numerosi colli di bottiglia (restrizioni legislative, carenza di lavoratori specializzati, strozzature nelle catene di approvvigionamento e persino normative ambientali).
Belíssima analisi.
Ascesa e declino delle grandi potenze. Di Paul Kennedy. Una potenza in ascesa si sviluppa economicamente, quando comincia a declinare, o quando emergono altre potenze che la ridimensionano o possono farlo, allora reagisce aggressivamente (militarmente quando reputato utile o necessario) bruciando una quantità enorme di risorse per mantenere la supremazia, sottraendole alla vita civile