L’OCCHIO DELLA MEMORIA DI APICHATPONG WEERASETHAKUL

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Jessica, la protagonista del film, è figura di noi occidentali moderni, di malati che vanno in cerca di spiegazioni facili, di “soluzioni”. Al contrario, è solo la verità profonda che guarisce e noi pare che lo abbiamo scordato. Memoria, di Apichatpong Weerasethakul, è un’opera che può aiutare a trovare una strada.

Ci sono pellicole che non vanno semplicemente viste, ma vissute integralmente. Il cinema del regista Apichatpong Weerasethakul sembra provenire da molto lontano, nel tempo come nello spazio, rispetto al nostro modo di essere e di concepire la vita e quindi il cinema. Ma proprio per questo esso merita la nostra più sincera attenzione. Perché, senza scivolare in ingenui apologie o in tentativi di voler replicare certi stilismi della sua arte qui nel nostro continente, questo cineasta parla anche, o forse soprattutto, a noi “occidentali” sprofondati da troppo tempo in una crisi radicale.

Apichatpong Weerasethakul

E radicale è il cinema di Weerasethakul. Forse è proprio questa la medicina di cui abbiamo bisogno, ma che invece respingiamo sempre: tornare alle radici, a quel mondo occultato alla vista dal pavimento di terra che permette ad un albero di svettare verso il cielo.

Di Memoria, l’ultimo film del regista thailandese, vincitore l’anno scorso a Cannes del Premio della Giuria, e ora disponibile in Italia sulla piattaforma MUBI, si potrebbero scrivere molte pagine, e molte sono state già scritte in verità, per cui noi ci soffermeremo solamente su pochi ma centrali elementi, sperando di far vibrare alcune corde nelle profondità dei lettori.

Il film è una sfida alla nostra percezione, al nostro abbuffarci di sensazioni, esperienze, al nostro voler dimenticare e cancellare un passato, personale e collettivo, che invecchia sempre più velocemente. Con il suo cinema, e con questa sua opera Weerasethakul ci ricorda ancora che la vita è qui davanti agli occhi. E non bisogna affatto chiuderli. «Stai, non aver fretta di voltare lo sguardo, come io non ho fretta di cambiare scena o inquadratura, perché in ogni istante si ripete l’incanto del Tutto. Non lo vedi? Osserva meglio.», sembra dirci il regista.

Una donna, Jessica, si sveglia nel mezzo della notte per un rumore sordo che non si sa da dove provenga. Questo misterioso rumore le toglierà il sonno e da quella notte continuerà a perseguitarla conducendola in un viaggio fatto di strani incontri alla ricerca di una spiegazione e una guarigione a questa cupa fantasia della mente – o è realtà? – o forse, più semplicemente, alla ricerca della propria anima.

Jessica è una botanica britannica che sta studiando l’effetto dei funghi sulle orchidee. Si reca a Bogotà per assistere la sorella malata, ricoverata in ospedale. Sonno-veglia, malattia-guarigione, memoria-frenesia. Sono questi i cardini su cui è costruito il film.

Jessica si ammala, perde il sonno e va girovagando in cerca di qualcuno che la aiuti a capire, ma anche che silenzi questo rumore, che le eradichi il suo malessere. Cerca di farsi prescrivere degli ansiolitici da una dottoressa la quale però la mette in guardia dicendo: «Perderebbe qualsiasi empatia. La bellezza del mondo non la commuoverà più. O la tristezza di questo mondo».

E poi, nel folto della giungla, incontra Hernàn, un pescatore che vive solitario non allontanandosi mai da quei luoghi e che racconta: «Ricordo tutto. Quindi provo a limitare ciò che vedo». Lui non guarda la televisione, non va al cinema, perché le storie sono ovunque: «Le rocce, gli alberi, il cemento, assorbono tutto». Basta mettersi in ascolto.

«Ho capito che non desidero andare da nessuna parte. Le esperienze sono dannose. Mi scatenano una raffica violenta nella memoria. Per questo lavoro la terra. Pulisco il pesce».

Togliere, ripulire dal non necessario, e ascoltare e “vedere”. Un incontro, quello di Jessica con Hernàn che si fa dialogo fra anime, condivisione di sogni e memorie.

Ecco, Jessica è figura di noi occidentali moderni, di malati che vanno in cerca di spiegazioni facili, di “soluzioni”. Al contrario, è solo la verità profonda che guarisce e noi pare che lo abbiamo scordato. Una verità che non si lascia afferrare dalla sola ragione, che richiede di essere “svegli” anche nel sonno. Che supera i confini individuali per abbracciare più tempi e più spazi. E non serve sposare l’animismo presente sotto traccia in tutto il cinema di Weerasethakul, per comprendere questo.

Noi viviamo l’esperienza del “troppo”, illudendoci che sia soltanto il “molto”. Veniamo travolti dai fenomeni anche quando siamo convinti di essere noi a maneggiarli. Travolti dalle notizie che hanno un’emivita spesso di poche ore. Poi subito ad inseguire la successiva. Travolti dalle immagini e dai suoni che violentano i nostri occhi, le nostre orecchie e la nostra coscienza ad ogni passo. Travolti dalla smania di dover riempire bagagli su bagagli di esperienze, titoli di studio, viaggi, cose fatte e cose da fare. E così via. Memoria ci mostra senza compromessi come occorra tornare all’essenziale, depurandoci da tutto ciò che è inutile. E lo fa con le parole, con i silenzi, ma soprattutto con il suo essere, a tutto tondo, Cinema.

Se ci lasciamo immergere nel “realismo fantastico” di quest’opera comprenderemo che la realtà è un tutto non sezionabile. E, se la abbiamo perduta, recupereremo la capacità di commuoverci sia per la immensa bellezza che per la opaca tristezza di questo mondo. È una visione necessaria.

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