FEDOR DOSTOJEVSKJ, IL GIOCATORE. UNA RECENSIONE

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Psicanalisi, gnosticismo e censura del materialismo borghese, intessuti assieme da un tagliente sarcasmo, sono i tratti fondamentali de “Il Giocatore” di Fedor Dostoevskij. L’arte di mentire a noi stessi, soffocando anche le pulsioni più umane insite nel nostro cuore, l’ossessione per il denaro, l’ambizione e la vanità, sono gli elementi alla base dell’ipocrisia e della corruzione morale cui il gioco si presta quale paradossale forma di redenzione e che, in quanto tale, non può che condurre l’uomo alla sua stessa dannazione.

di Giulio Montanaro (segui il canale Telegram di Giulio Montanaro)


Chi l’avrebbe mai detto che Dostojevskij sarebbe stato “vittima” dello Streisand Effect?

A furia di tentare di infangarne la memoria, si è risvegliato in molti l’interesse per la sua opera. Iniziamo, quindi, a recensirne alcuni libri, partendo oggi con “Il Giocatore”, un romanzo pensato tra un capitolo e l’altro del capolavoro “Delitto e Castigo”.

Stenografato, corretto e consegnato al commissariato di polizia locale in ventotto giorni, “Il Giocatore” è un romanzo pensato da Fedor Dostojevskij per evitare la penale di una clausola che gli sarebbe costata la cessione, al suo editore del tempo, di nove anni di diritti d’autore frutto di libri precedenti. È lecito pensare che la frenesia con cui si susseguono gli eventi lungo l’arco narrativo trovi anche ragione nel momento personale dell’autore, al tempo in condizioni drammatiche: sommerso dai debiti e posseduto dal vizio del gioco.

“Il Giocatore”, seppur animato da una vena sarcastica, è un’opera ove convive al contempo psicanalisi, auto-condanna dell’autore e una sferzante critica della società occidentale, europea, della seconda metà dell’Ottocento. Con sottigliezza o sprezzante chiarezza, Dostojevskij cesella i caratteri dell’élite borghese-aristocratica del tempo, facendoli emergere in un bassorilievo per nulla distante dall’immagine che hanno ancora oggi.Nella centrifuga censoria finiscono il capitalismo, la chiesa e il materialismo, ma soprattutto la borghesia occidentale (francese in particolare) e la sua incommensurabile, infinita, ipocrisia.

Perché, se è vero che la roulette “è fatta soltanto per i russi… incapaci di procurarsi dei capitali” e che “al contrario, li dissipano irragionevolmente”, in Occidente “il sistema tedesco d’ammucchiare ricchezze” è parte del “catechismo delle virtù e delle qualità dell’uomo civile”.

Una cultura derisa per la propria frivolezza e falsità, per l’innata tensione all’ostentazione, ben ritratta dal personaggio di Mademoiselle Blanche, l’avida eccentrica che si veste d’amazzone con tanto di frustino alla mano. Che prima sbeffeggia il protagonista Aleksej chiamandolo “outchitel”, (francesizzazione della parola russa insegnante nda), ma che poi sogna di entrare nella buona società subentrando nella successione della nonna dello stesso e così diventando una rispettabile “proprietaria russa”.

O del turpe De Grieux, seduttore per promessa di portare con sé lauta dote, ma che, quando comprende di ssersi improvvisamente ritrovato senza patrimonio alcuno, fugge nascostamente, lasciando pure i conti da pagare.

L’ossessione per il denaro e la corruzione morale, entrambe apprezzate anche tramite un simpatico parallelo con la figura di Rothschild, “ciò che per lui è meschino per me è una gran somma”, sono altri due temi centrali nello sviluppo degli eventi del romanzo in recensione.

Una storia ambientata nella città immaginaria di Roulettenburg e narrata da una voce esterna e in parte da quella di Aleksej, precettore russo appartenente a una singolare famiglia moscovita: governata da una nonna autoritaria e dispotica o, come la definisce il malfido De Grieux “un diavolo, una terribile vecchia bisbetica, ambiziosa e tombée en enfance!” (espressione figurata francese indicante chi in terza età prenda a comportarsi come i bambini nda), la famiglia si ritrova riunita attorno a una roulette, per assistere a come essa influirà sulle sorti del suo futuro.

Dostojevskij fa schizzare la pallina della roulette vorticosamente durante tutta la novella, senza mai arrestarla, fino all’ultimo capitolo della storia. Tiene la narrazione in equilibrio sul ciglio di una voragine fino alle ultime pagine per poi spingere nel baratro “Il Giocatore”, facendolo sprofondare inesorabilmente, spogliandolo anche delle sue legittime debolezze, non lasciando spazio nemmeno a un’ipotesi di potenziale redenzione.

È vero, l’autore ce ne offre un’anticipazione narrandoci l’effetto che la roulette ha sulla stessa baboulinka, la tirannica e cinica nonna Antonida, censore di costumi da cui alla fin fine si lascia anche lei sedurre, fino ad abbracciarne gli effimeri principi e assumersene le rischiose conseguenze. Anche se, in quei frangenti, la vena umoristica e surreale della narrazione non affonda nei meandri della psicologia umana come negli atti finali della storia.

Ciò che accomuna la nonna, il nipote protagonista o il Dostojevskij autore è il loro ridursi a denominatore comune, il loro emergere dalla narrazione come soggetti ridotti dal gioco a “vil esclave” di se stessi: vili schiavi di quelle pulsioni umane che li attirano irrimediabilmente attorno alla roulette.

Ambizione e vanità: ossessioni così grandi da farsi prepotenti e arroganti anche contro fato e logica, “perché io l’avevo ottenuto rischiando più che la vita, avevo osato rischiare, ed ecco, ero di nuovo uomo fra gli uomini!” L’esaltazione del rischio assume rilievo catartico in una storia umana scevra da ogni latente ipotesi di riscatto, coerente solo nel suo stesso non-senso.

Le vicende narrate in questa bellissima storia scritta da Fedor Dostojevskij nel 1866 affondano nel tessuto della società e nella mente del protagonista come le stilettate farebbero in quello di una camicia.Perdutamente innamorato della squilibrata Polina, tanto quanto del brivido del gioco, Aleksej arriva a perdersi totalmente nel vortice in cui è risucchiato dalla roulette, fino a preferirlo all’amore della sua tanto agognata amata.

Aleksej è personaggio nato e cresciuto in parallelo al protagonista di “Delitto e Castigo”, Raskolnikov, con cui condivide ai nostri occhi molti aspetti.È figura quasi meta-reale, le cui irrilevanze personali e umane sono travolte dal Chaos che anima la narrazione degli eventi, per lasciare emergere i tratti dell’individuo occidentale moderno. Ossessionato dal denaro, dal proprio egoismo e individualismo, capace di passare sopra ogni espressione della morale, sia essa la soddisfazione dell’emozione più grande per Aleksej, l’amore di Polina o la vita stessa, come il Raskolnilkov che ammazza ad accettate l’usuraia Alena Ivanovna e la sorella Elizaveta, preso dai suoi deliri di superiorità.
Raskolnikov deriva da raskolnik, che significa “diviso”, “scismatico”, esattamente come la mente dell’Aleksej giocatore, vittima delle proprie emozioni, siano esse frutto della passione per il gioco o dall’amore per Polina.

Dostojevskij mette in chiaro sin dalle prime pagine tale aspetto dell’uomo, del personaggio, di se stesso, quando scrive del dialogo con la sua amata: “Davvero io mi sento in diritto di porvi qualsiasi domanda appunto come sono pronto a pagarle come volete, e ora, la mia vita non la stimo nulla.”

Un filo conduttore che si dispiega sottilmente nelle trame della narrazione per affiorare veementemente nelle ultime pagine, quando Aleksej rincontra l’inglese Mister Astley, soggetto prototipo dell’aplomb d’oltremanica, che lo rimprovera mettendolo di fronte a tutta la sua meschinità: “Vi siete fatto di legno, non solo avete rinunciato alla vita, agli interessi vostri e a quelli sociali, ai vostri doveri di cittadino, ai vostri amici, non solo, avete rinunciato a ogni altro scopo, tranne quello di vincere al gioco: avete rinunciato persino ai vostri ricordi.”

La débacle umana è totale e totalizzante. Al giocatore non resta che la flebile e illusoria speranza che “Domani, domani tutto finirà”, come recitano le ultime parole della novella.

Ultime, seppur solo del testo, perché il grande Fedor Dostojevskij lo sapeva benissimo in cuor suo: domani, non sarebbe finito proprio nulla.Il caos vitale e altrettanto il turbine della roulette avrebbe ripreso come d’abitudine, perché, come scrisse quattro anni dopo nell’Idiota, “l’uomo, oltre a volere la felicità, ha un eguale, identico bisogno anche della sventura”.

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