IL CINEMA DEL TERZO MILLENNIO: SGUARDI
Massimo Selis 15 Novembre 2022 1Ci possiamo allora domandare: cosa resta del cinema di questi primi vent’anni del nuovo millennio? Dove ha posato lo sguardo e dove ci ha “voluto” condurre?
Visioni, immagini dappertutto. Tutto oggi passa dalla visione, molti ripetono. Ma la visione è sempre rappresentazione, è creazione di un orizzonte immaginifico che contiene e propone un significato. E il cinema, che è visione che si cadenza nel tempo, anche nella sua forma documentaristica è sempre una rappresentazione della realtà. È questo che lo rende, perlomeno in potenza, Arte.
Il mondo moderno corre sempre a maggiore velocità, e anche la settima arte porta con sé cambiamenti di linguaggio e di contenuti. Ci possiamo allora domandare: cosa resta del cinema di questi primi vent’anni del nuovo millennio? Dove ha posato lo sguardo e dove ci ha “voluto” condurre?
Non si tratta qui di voler fare un elenco di film o registi, né tantomeno banali classifiche – che lasciamo volentieri a chi ama la competizione – perché con l’arte hanno ben poco a che fare. Vorremmo fare un discorso di memoria, di eredità, di quello che resta e di quello che va lasciato cadere, di direzioni prese e di altre che forse andrebbero “osate”. Perché il cinema si intreccia con la vita, con la società in cui viviamo e con quella che, forse, vorremmo provare a costruire. Gli occhi del cinema sono anche i nostri. È bene divenirne sempre più consapevoli.
Il digitale è la grande rivoluzione che ha coinvolto anche il cinema in questi ultimi vent’anni. Una rivoluzione che ha influito su molti aspetti della sua produzione e distribuzione. Il digitale ha spalancato orizzonti nel creare effetti speciali sempre più complessi e realistici, “educando” così lo spettatore ad un immaginario fantasmagorico dove ogni idea si crede realizzabile. Se da una parte, infatti, le possibilità creative sono aumentate a dismisura, dall’altro l’occhio dello spettatore si va impigrendo sempre più, inversamente a quanto il suo ego diviene sempre più esigente. L’immagine non evoca, non lascia che miseri spiragli ad un oltre, dice tutto, proprio perché è iper-reale anche quando riproduce mondi fantastici.
Il digitale è però anche superamento della pellicola – vi sono è vero ancora opere realizzate in questo modo, ma sono un’esigua minoranza – e quindi abbattimento dei costi tanto in produzione che in post-produzione. Ciò ha contribuito ad un aumento dell’offerta. Si è parlato in questi ultimi anni di infodemia, ovvero dell’eccesso di informazioni a cui siamo quotidianamente sottoposti. Un eccesso che ci fa spesso ingurgitare notizie e concetti, ma ci allontana inevitabilmente dalla capacità di meditare e assimilare con il tempo necessario quanto ci viene proposto. E se parlassimo anche di visiodemia? Forse molti non se ne avvedono o non credono che anche le immagini in movimento debbano avere un tempo di assimilazione. Il cinema ha in verità un potere molto più “sottile” di quanto si pensi.
La Quantità, che è poi una delle cifre diaboliche dell’era moderna – noi, tutto giudichiamo, perché prima tutto misuriamo – è approdata fin nelle nostre case schiacciandoci su un comodo divano a navigare tra le offerte delle numerose piattaforme di streaming, la cui principale caratteristica e novità sono i prodotti seriali. Il valore “tecnico-qualitativo” di tali opere è cresciuto negli anni, raggiungendo quello di molti film pensati per le sale. Ma anche qui si annida un duplice inganno: la standardizzazione dell’immaginario con una fotografia “confezionata” a dovere per colpire gli occhi del pubblico; la “meccanica” della scrittura e dell’intreccio obbligata a seguire alcune regole ben precise riguardo ad eventi scatenanti, crisi, climax ecc. Lo spettatore è quasi sempre ignaro di tutto ciò, ma l’effetto di tali meccanismi è che per molti diverrà sempre più difficile apprezzare un’opera che avrà un intreccio non lineare, tempi di apparente “non azione”, minima presenza di musiche, e con una fotografia che non lascia spazio al bell’effetto. Tutto quello che il vero cinema d’autore dovrebbe perseguire.
Ma il digitale ha avuto un influsso, anche se parrebbe molto più indiretto, sul ritorno nella cinematografia mondiale, anche quella statunitense, ad un nuovo realismo. Realismo di storie, realismo visivo. Quotidianità dei dialoghi, delle vicende narrate. Ma anche l’uso massiccio della macchina da presa a mano – favorito proprio dal peso più modesto delle moderne camere digitali – che “respira” insieme ai personaggi, si muove con e in mezzo a loro, condividendo il loro terreno e il loro piano di sguardo. Uno stile, mutuato da un certo documentarismo, che immette lo spettatore nella vita dei protagonisti. Così si veicola – o meglio dovremmo dire si illude – che la vita sia tutta lì, che sia questa e null’altro, che ancora una volta, non vi sia un oltre a cui tendere. In fondo questo realismo è rassicurante perché ci accomuna ai personaggi, rende più semplice e concreta l’immedesimazione. Nei dialoghi si sente tutta la “psichica carnalità” di quelle vite che amano, odiano, lottano, crollano, gioiscono. Ma l’anima? Lei ha tutto un altro linguaggio, un altro ritmo, un altro colore. Ah, già, ma all’anima non ci crede più nessuno. O quasi.
Sì, perché fin qui si è voluto tratteggiare a grandi linee come il cinema abbia corso lungo questi ultimi vent’anni, nelle sue direttrici più affollate e conosciute. Ogni singolo aspetto qui solo accennato meriterebbe di venire approfondito, e altri ancora di essere aggiunti, ma lo si farà in prossimi contributi.
Ciò che però davvero merita la nostra attenzione, in questo inizio di terzo millennio, che merita di essere custodito, non staziona sotto i grandi riflettori, ma percorre e indica differenti traiettorie.
Vi è la grande battaglia per ridonare spessore e dignità al Tempo, contro il “falso tempo” di questa società, di autori quali Béla Tarr e Lav Diaz. Coi loro bianco e nero così diversi, come diverse sono le ambientazioni e l’immaginario, ci forzano ad entrare in sintonia col giusto ritmo della vita, della storia. Inquadrature fisse per Diaz, o lunghi carrelli per Tarr ci chiedono di sollevare la soglia della nostra attenzione, di assaporare quei dettagli che nel cinema più comune – anche di molto cosiddetto d’autore in verità – non vengono tenuti in nessun conto. La Vita è molto più spesso ciò che si dispiega tra un’azione e l’altra, è qualcosa che pare non avere un senso chiaro ed immediato. Il loro cinema è alla fine uno sguardo più umano e più profondo di qualsiasi realismo.
Apparentemente all’opposto abbiamo il lirismo – talvolta esasperato e con risultati molto discutibili – di un Terrence Malick che proprio a ridosso del nuovo millennio inaugura una nuova “primavera artistica”. Al centro di questo ventennio svetta The tree of life (2011) la sua opera più bella e armonica Un canto lirico alla vita, alla grazia, al miracolo che sa vincere il dolore. Non vi è linearità nel montaggio, ma balzi in avanti e indietro, che cercano assonanze poetiche, di spirito. Il cinema di Malick è riflessione e poesia, è un indagare le risposte alle domande soffocate da questa umanità. È uno sforzo titanico per non restare confinati in una quotidianità del pensiero e dello sguardo.
La severità formale, che si mescola all’oniricità e alla sperimentazione la ritroviamo nel cineasta russo Aleksandr Sokurov. Un fine indagatore dell’animo umano, delle sue vette e dei suoi abissi. L’amore, il potere, la memoria, il tempo, l’elegia, il male sono i temi che percorrono la lunga carriera di questo regista, la cui vetta è forse Faust (2011). Un gigantesco affresco visionario sulla condizione umana, sul male, sulla ricerca spasmodica delle risposte alle domande ultime. Faust è lo specchio di un’umanità affamata ma errabonda e alla fine sfiancata. Le immagini del film, dai toni verdastri, sono deformate precipitando lo spettatore in un’esperienza totalizzante, carnale e onirica allo stesso tempo. Sì, abbiamo bisogno anche di abissi per poter risalire alle vette.
E poi c’è l’oriente. Storie dal carattere bizzarro, di un’umanità fatta di piccole ossessioni e manie, di eccessi ma anche di grande tenerezza. Registi, solo per citarne alcuni, come Chang-dong Lee, Bong Joon-ho, Hou Hsiao-Hsien, Gan Bi, Kim Ki-duk, Apichatpong Weerasethakul. L’occhio d’oriente cammina sempre sul sottile confine dell’assurdo, ad un passo dall’inverosimile. Uomini e vicende “ai margini” mai classificabili dentro facili schemi. Un occhio che osserva un oriente in bilico tra una memoria di un passato fatto di tradizione e spiritualità e un presente dove il progresso frenetico porta con sé anche violenza, povertà, ma soprattutto solitudine. Si veda ad esempio il folgorante Burning (2018).
E sempre restando in oriente vogliamo posare l’attenzione anche sul cinema d’animazione giapponese, divenuto negli anni familiare ad un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo. Non solamente i capolavori di Hayao Miyazaki e dello studio Ghibli, ma anche autori come ad esempio Mamoru Hosoda tra cui segnaliamo Wolf Children (2012) e Makoto Shinkai divenuto famoso per Your name (2016). Un genere cinematografico che riesce a proporsi tanto ai giovanissimi che agli adulti. Nelle opere maggiori risalta quella delicatezza e finezza tipica della tradizione di quel popolo. L’attenzione per i dettagli, un certo “minimalismo zen”, il rifiuto di qualsiasi esagerazione emotiva e concessione spettacolare. E il profondo rispetto per l’infanzia che non è percepita semplicemente come l’anticamera della vita adulta. Il sapersi chinare anche sul pubblico più giovane offrendogli “cose grandi”. Da qui la squisita cura per le immagini e per le musiche. Il tutto in una veste così “classica” eppure assolutamente moderna. C’è tanta poesia e visionarietà, sottigliezza e sapienza da prendere e portare qui nelle nostre vite.
Per comprendere però che uso fare di questi “bagagli per il futuro” è necessario gettare luce su quali siano le trappole che la presente umanità si è preparata da sola.
La grande ossessione dell’uomo moderno è il tempo. Egli lotta incessantemente per conquistare, assoggettare il tempo. Per piegarlo alle esigenze del suo ego. Comprimerlo, spezzettarlo o estenderlo oltre i limiti fino a giocare con l’immortalità. Pare sempre che il tempo non basti mai, che ci venga addosso o che ci sfugga, come fosse un animale delle selve che ha ingaggiato una lotta contro di noi. Questo “dominio” del tempo cela la grande paura che questa umanità vuole esorcizzare ma per cui pare aver smarrito gli strumenti adatti: la morte. Non è apparso evidente proprio in questi ultimi tre anni?
Questa manipolazione del tempo restituisce l’incapacità di “essere nel tempo”, di percepire il momento presente come assolutamente pregno della dimensione eterna. Restituisce l’incapacità di accogliere il passato e farne vera memoria, come un’eredità che ci portiamo appresso per affrontare la vita che ci si prospetta, e non come anticaglia da lasciar cadere lungo la strada (vedi il ridicolo starnazzare della “cancel culture”). Restituisce l’incapacità di pensare al futuro non come un mito a cui volgere ogni nostro sforzo e desiderio, ma come il luogo del possibile che noi dobbiamo costruire con coscienza. Questa manipolazione del tempo restituisce l’immagine di un uomo che è interiormente svuotato e per darsi sostanza e volume deve inseguire falsi miti e chimere, ovvero ideologie. Ma ciò che si proietta sul tempo incide anche sulla percezione dello spazio.
Possedere, dominare l’orizzonte visivo. Se il tempo cerca di sfuggirci, si porta con sé anche le immagini del presente, e una volta fuggito non resta nulla. L’immagine è solo un qui ed ora che deve essere afferrato immediatamente prima che si dilegui. C’è solo immanenza, c’è solo “falso razionalismo” infiocchettato con la giusta emozione. Ogni narrazione così rischia di scivolare in propaganda. Lo scientismo, uno degli aguzzini del nostro tempo, è figlio del medesimo sguardo, della stessa ossessione di dominio di una realtà, che non vuole ammettere che lo sopravanza di gran lunga. È la perversione di chi si rinchiude da solo in una gabbia troppo stretta e non crede più a chi gli racconta che esiste un mondo al di fuori. È questa un’umanità che ha ristretto i suoi confini di pensiero, di immaginazione, di lotta. Sfigurata dalla paura della morte, che tenta in vano di esorcizzare con l’ossessione per il potere, in ogni sua forma.
Cosa ci dice allora questo cinema che cammina “fuori strada”?
Che occorre riacquisire il giusto rapporto col tempo: passato, presente e futuro. Imparare nuovamente a sostare nell’attimo, a non inseguire la velocità, ma accogliere la vita secondo i ritmi che di volta in volta lei ci propone. Le cose vanno assimilate perché diano nutrimento. Non quindi la quantità e la velocità, ma la profondità qualitativa.
Che la realtà, e l’immagine della realtà, sono qualcosa che oltrepassano l’immediatezza dei sensi. Vi è un indicibile, perché vi è anche un inudibile e un invisibile. La vera e compiuta immagine della realtà è la Poesia. Sguardo che trasfigura, che allude, che evoca. E il cinema può e deve fare proprio questo.
Che la quotidianità non è sinonimo di banalità. Restano nell’anima di ogni uomo le domande ultime sulla vita e sul mondo che oggi più che mai, in questo tempo di grandi sconvolgimenti, hanno urgenza di venire riproposte attraverso l’arte. Quale che sia l’ambientazione e i personaggi, occorre cercare il linguaggio dell’anima per parlare all’anima degli spettatori. Occorre, dantescamente, non temere di attraversare l’inferno perché è da lì che si accede al paradiso. Scavare negli abissi per trovarvi il cielo.
Che gli uomini, questi uomini, hanno bisogno di un altro immaginario. Con un più grande respiro. Crudo, visionario, onirico, minimalista. Le possibilità sono molteplici, perché ognuna, con il suo linguaggio può aprire a sguardi “totalmente altri” sul mondo, sulla vita.
Per poter pensare ad una società differente, per lavorare ad una società differente, è necessario prima di tutto un nuovo immaginario. Rompere le sbarre della gabbia e avventurarsi in altri spazi. Il cinema può e deve essere il grande invito alla liberazione. Perché il cinema è prefigurazione, è Visione. Queste due decadi appena trascorse non ci hanno regalato forse molti capolavori, ma hanno lasciato comunque luci nella notte che possono esserci guida nella traversata. Vi sarebbero anche altri autori che qui non abbiamo citato per ragioni di spazio, ma tutti in qualche misura segnano questa rotta. C’è di più in questa realtà che i nostri occhi si stanno disabituando a vedere. Non chiudiamo definitivamente le palpebre, perché grandi cose siamo chiamati a fare, ma prima ancora, grandi cose siamo chiamati ad immaginare.
Sono rimasto davvero colpito da questo articolo; credo che lo “volessi”, qualcuno che si accorgesse di tutto questo, che può essere un enorme problema per menti facilmente plasmabili od oramai troppo passive per reagire; un problema reale è invece la quantità di prodotti, dei prodotti proposti come modelli, che nascondono vere e proprie chicche infernali, volte ad uno sconvolgimento del sottile, esasperando così il potenziale del cinema (del da voi già citato sottile, appunto).
Mi riferisco a prodotti come “Ron – Un amico fuori programma”, e ve lo cito nonostante l’averne visionato solamente 10 minuti, forse meno.
Ritengo che questo prodotto, non dovesse nemmeno vedere gli scaffali digitali.
Ciò detto, mi sento indubbiamente meglio, nonché parte di questo articolo, spiritualmente.
Sto lottando anche io, certo del mio risultato.
Sono Mr. Nalivadi.
A scrivere però è The Giostraio, che vi invita a comprenderlo e ad attenderlo il Mr., mentre lotta contro il tempo, ovviamente.
Vi ringraziamo per questo articolo.