DECRETO RAVE: TANTO RUMORE PER NULLA

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Riunirsi, radunarsi e manifestare continua a rimanere un diritto fondamentale, coperto da garanzia costituzionale. Ma quando queste attività si svolgono in luogo pubblico possono, da sempre, essere soggette a limitazioni, contrasto, sgombero. Sulla base di norme risalenti, che in pochi si sono sognati di discutere o censurare quando nella fase acuta delle restrizioni COVID si è proceduto ad operazioni, anche violente, di dispersione di manifestanti. L’opinione dell’avvocato cassazionista Luigi Luccarini sul contestatissimo decreto rave party del nuovo governo Meloni.

Luigi Luccarini è avvocato cassazionista titolare di studio legale in Perugia


Premetto che non mi ha mai convinto la tecnica legislativa di prevedere nuove figure di reato sull’onda emotiva dell’allarme destato da comportamenti che si vuole sanzionare in modo specifico, perché si ritiene che le tutele apprestate dalle norme vigenti non siano all’uopo sufficienti.

In realtà, il codice penale vigente, seppure datato, rimane un’opera di straordinaria fattura che, una volta studiata a dovere, consentirebbe di ritenere compresa al suo interno qualsiasi condotta meritevole di proibizione, al punto che molti di quei comportamenti si potrebbero punire semplicemente introducendo nuove aggravanti  o diverse condizioni di procedibilità.

Ma tant’è, ormai da anni è invalsa l’abitudine di agire nell’altro modo, che, oltre a sembrarmi essenzialmente propagandistico, crea problemi all’interprete, in quanto poi va ad incidere su un complesso normativo già inflazionato da un numero impressionante di leggi complementari. Per non parlare delle difficoltà del cittadino nel doversi poi districare in un magma di disposizioni penali, alcune delle quali a lui ignote, che imparerà a conoscere solo quando gli capiterà di averle violate, spesso senza rendersene conto.

Certo, non sarà questo il caso del chiacchieratissimo nuovo art. 434 bis del codice penale. Il quale, se da un lato poteva essere tranquillamente introdotto come aggravante di un delitto già esistente (l’art. 633 del codice penale), dall’altro non merita certo di essere utilizzato come indice di una presunta volontà di attentare alle libertà costituzionali. Specialmente se si considera che siamo appena usciti dal periodo delle restrizioni COVID, in cui molte riunioni in luogo pubblico sono terminate con attività di sgombero e dispersione dei manifestanti nell’indifferenza, se non addirittura il plauso, delle stesse coscienze democratiche che ora invece si agitano in modo quasi convulso.

Siamo alle solite, insomma: il diritto piegato alla propaganda, sia da parte di chi scrive la norma, sia da parte di chi la contesta. E che peraltro in quest’ultimo caso si espone a brutte figure, perché dimostra di conoscere ben poco la materia.

E ne spiego il perché.

L’articolo 17 della Costituzione garantisce la libertà delle persone di riunirsi in qualsiasi luogo, pubblico, aperto al pubblico, privato, ma anche i limiti a questo diritto – che è pure tra quelli fondamentali del cittadino.

Stabilendo che se “per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso”, per quelle “in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”.

Ecco quindi il primo dato da considerare: non tutte le riunioni sono lecite.

Alcune possono essere vietate, precisamente quelle in luogo pubblico.

Lo dice, a chiare lettere, la Costituzione e indica anche le ragioni del possibile divieto: sicurezza o incolumità pubblica.

Al contrario, può sempre svolgersi un “raduno” in luogo privato o “aperto al pubblico” che è quello, secondo il costante insegnamento della Cassazione, al quale si accede adempiendo a speciali condizioni poste da chi sul medesimo luogo eserciti un diritto od un potere. Ed in questi casi non si potrà realizzare alcuna limitazione alla libertà delle persone di riunirsi, radunarsi, ballare e persino “sballarsi”[1]. Neppure dopo l’introduzione dell’art. 434 bis.

Perché questa norma presuppone l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui e, pertanto, il delitto si realizzerà solo quando accesso e permanenza nel luogo deputato per la riunione avverrà in mancanza del consenso del proprietario di quel luogo.

In questo senso siamo in presenza, come già accennato, di una estensione della previsione dell’art.  633, la cui legittimità non è mai stata in discussione, e che stabilisce la punibilità di chiunque invada arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto, prevedendo una pena della reclusione da 2 a 4 anni quando il fatto viene commesso da 5 o più persone.

Ora la sanzione è diventata da  3 a 6 anni nel caso in cui le persone siano più di 50.

Inutile dire che il fatto che il fatto che l’art. 633 sia risultato spesso inapplicato, quasi dimenticato, o che si sia preferito chiudere gli occhi di fronte a tante ipotesi di sua violazione, dall’occupazione abusiva di case a quella di edifici scolastici, non significa aver reso legittime le relative condotte.

Si dirà a questo punto che il vero problema è rappresentato dal fatto che l’art. 434bis si riferisce anche ai luoghi pubblici, finendo così per criminalizzare riunioni, raduni o manifestazioni ad arbitrio del Questore di turno e che per questo la norma addirittura “puzza”.

Ora, finché sono cantanti, attori e giornalisti a fare certe affermazioni, ci si può passare sopra. Un po’ meno, invece, quando provengono da chi fa parte del corpo legislativo dello Stato e che dovrebbe per questo evitare esternazioni troppo “di pancia”.

Come questa:

O, peggio ancora, questa:

Perché non c’è nulla di peggio che ignorare, o far finta di non sapere, che proprio l’art 17 della Costituzione prevede che riunioni, raduni e manifestazioni in luogo pubblico debbano essere preceduti da un “preavviso” alle autorità, le quali, come si è visto, possono poi vietarli per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.

E che l’art. 18 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, il T.U.L.P.S., tuttora in vigore, prevede che nonostante l’avvenuto preavviso il Questore … per ragioni di ordine pubblico, di moralità o di sanità pubblica, può impedire che la riunione abbia luogo e può, per le stesse ragioni, prescrivere modalità di tempo e di luogo alla riunione. Punendo con l’arresto fino ad 1 anno i contravventori al divieto o alle prescrizioni eventualmente disposte da quell’Autorità.

Insomma, riunirsi, radunarsi e manifestare continua a rimanere un diritto fondamentale, coperto da garanzia costituzionale; ma quando queste attività si svolgono in luogo pubblico possono, da sempre, essere soggette a limitazioni, contrasto, sgombero. Sulla base di norme risalenti, che in pochi si sono sognati di discutere o censurare quando nella fase acuta delle restrizioni COVID si è proceduto ad operazioni, anche violente, di dispersione di manifestanti.

Se poi il problema, come pare di capire, riguarda la possibilità che questa norma in qualche modo incida sulle occupazioni di istituti scolastici o universitari, vale la pena rammentare che tali attività, pur qualificate “sindacali” degli studenti da una certa giurisprudenza, non hanno ancora incontrato il favore della Corte di Cassazione, che non ha mancato di configurarle come interruzione di pubblico servizio e addirittura nei termini di una violenza privata se arrivano, di fatto, ad impedire «ai non manifestanti di svolgere le consuete attività di studio per un tempo apprezzabile, con conseguente ingiustificata compressione dei loro diritti» ( Cassazione, sez. V penale, sentenza n. 7084 del 23 febbraio 2016). 

In conclusione. Non si sentiva la necessità di una norma specifica per punire una condotta già prevista da un’altra disposizione, seppure in forma meno aggravata. Ma neppure si può accettare che chi la contesta svolga i suoi ragionamenti come se fossimo di fronte ad un mostro giuridico, alimentando confusione ed ignoranza della legge nei cittadini.

Specialmente da chi, ancora di recente, ha ribadito attestati di stima ed apprezzamento per un ex Ministro che si dichiarò “nervoso al pensiero di qualsiasi aggregazione di più di due persone”.

L’art. 434 bis, quanto meno, ne pretende 50.


[1] Sempre che lo svolgimento della riunione, come nel caso del rave party o di altre feste “private”, non comporti la commissione di altre ipotesi di reato come quelle previste dalla normativa in tema di immissioni rumorose, l’abbandono di rifiuti, la cessione di sostanze stupefacenti. O, come nel caso di occupazione di scuole ed università, non realizzino fatti di violenza privata o interruzione di pubblico servizio.

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2 thoughts on “DECRETO RAVE: TANTO RUMORE PER NULLA

  1. tutto bene, apparentemente.
    Punto è che la Cost. vuole “comprovati motivi ” a fronte di diniego sgombero etc mentre da qualche anno a questa parte basta l’isindacabile insondabile indimostrato (“non comprovato”) generico ‘parere’ di qualcuno, nell’infinita arbitrarietà di “ragioni di ordine pubblico, di moralità o di sanità pubblica” – e già bastava così che appunto dal 2020 almeno si è aggiunto il prezzemolino del concetto di “preventivo”, specie associato alla “sanità pubblica”.
    Ha ragione P.Sceusa infine: bei principi ma aggirabili a piacere grazie ai ‘se’ ‘ma’ etc che ne depotenziano di fatto le intese e pretese garanzie.

    1. Anche Lei dimentica che il R.D. 18 giugno 1931, n. 773, il T.U.L.P.S., è ancora in vigore e che è su quella base normativa, in particolare gli artt. 20-21-22, che si fonda il potere di “sgombero”, etc.
      I fatti di Trieste dimostrano che la “discrezionalità” dell’Autorità di P.S. in materia è sempre stata altissima. Farla discendere dal “nuovo” art. 434 bis c.p. è polemica politica e giornalistica, ma giuridicamente è una bufala.

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