Nella giornata di ieri si è svolto ad Astana, in Kazakistan, il summit CICA (Conference on Interaction and Confidence Building Measures in Asia), al quale hanno partecipato, come membri del forum, gran parte dei Paesi produttori di petrolio e gas naturale.

La conferenza è stata indubbiamente un grande successo diplomatico per Putin e per le nazioni asiatiche, che si preparano all’eventualità di sostituire l’Occidente come futuro fulcro del mondo commerciale, soprattutto nell’ottica di ciò che è successo in quest’ultima, iper-movimentata settimana.

Ricapitolando (e lasciando da parte per un attimo la fulminante controffensiva in Ucraina) in questi ultimi giorni la Russia ha diversi motivi per cui gioire, il più importante dei quali è quello che ha portato, presumibilmente, al disallineamento dell’Arabia Saudita dall’Occidente, seducendo gli arabi del Golfo con l’oggetto da loro più bramato: il denaro. Con il taglio alla produzione del greggio da parte dell’OPEC+ e con la Russia (che generalmente offre lo stesso prodotto a prezzi dimezzati) sanzionata da metà mondo, i Paesi produttori, infatti, vedranno le proprie casse strabordare di quattrini.

Questa decisione ha mandato su tutte le furie la Casa Bianca, che vede così erodere la propria influenza in una zona strategica nel mondo (i sauditi sono, oltretutto, i principali partner militari degli statunitensi nella “lotta al terrorismo islamico”), e rischia di perdere un partner commerciale formidabile, con il quale aveva stabilito una relazione forte e duratura. La decisione dell’OPEC, inoltre, smarca anche l’alleato emiratino, che ha deciso di seguire i cugini sauditi nella decisione, ed è addirittura volato a Mosca per consolidare i rapporti.

Putin riesce, con questa mastodontica impresa, a spaccare sempre più il pianeta a metà, in un rischioso gioco dalle imponderabili probabilità. L’effetto domino che già da questa mattina (ma che, in realtà, si prospetta da parecchi anni) si sta scatenando possiede delle dimensioni sconfinate.

Volendo un po’ mettere ordine alle cose, partiamo dal presupposto che l’Arabia Saudita (con grande partecipazione degli Emirati Arabi) svolge una funzione anti-Iran (l’altro principale attore della regione; a testimoniare il cambio di marcia, entrambi gli Stati hanno chiesto l’adesione ai BRICS quest’anno) in tutto il Medio Oriente, e questa non è una novità. Tutto il XXI secolo, fino a questo momento, è stato caratterizzato da una sorta di conflitto per procura, tra i sostenitori di Iran (allineati a Cina e Russia) e Arabia Saudita (allineati all’Occidente), che l’ex presidente russo Medvedev ha addirittura soprannominato “la nuova Guerra Fredda”. I conflitti armati prima in Iraq e poi in Siria sono soltanto la parte più violenta di questa partita. Ma non mancano altri contrasti, ad esempio, la crisi diplomatica in Qatar, durata quattro anni.

La crisi ha portato l’emirato arabo ad uscire dall’OPEC e a sviluppare relazioni sempre più strette con i vicini persiani, con i quali gestiscono il giacimento di gas naturale più grande al mondo. E oggi, Putin ha formalizzato ciò che pare l’inizio di un rapporto fin oggi inesistente tra la Russia e il Paese arabo, nonostante lo sceicco Al-Thani parli di “relazioni storiche”.

Questo riavvicinamento, in atto già da qualche anno, tra Iran e Qatar, e il conseguente scaldarsi del rapporto tra Qatar e Russia, potrebbero portare i tre Paesi, che possiedono il 54% delle riserve di metano al mondo, a stabilire un vero e proprio cartello del gas, con Mosca che aiuterebbe gli alleati ad aumentare le capacità di produzione e i due Paesi mediorientali che offrirebbero uno sbocco commerciale alla Russia, in barba alle sanzioni occidentali. A questo si aggiunge poi la notizia, sempre proveniente dal convegno di oggi, che Putin intenderebbe consolidare il rapporto con il governo palestinese, in una mossa che rischia di infiammare il già perennemente cocente conflitto arabo-israeliano.

Israele, ricordo, ha appena finalizzato un accordo con il Libano (altro alleato russo-iraniano) incentrato sul controllo dei giacimenti di gas naturale al largo delle coste mediterranee dei due Paesi, duramente criticato dalla destra sionista, che parla di concessioni inaccettabili a Hezbollah. Un maggiore intervento russo nella regione potrebbe far venir meno l’accordo, che non tiene conto della zona economica esclusiva dello Stato palestinese (occupata da Israele tramite il blocco navale). La resistenza palestinese ha già avvertito della volontà di contestare un’ulteriore espropriazione israeliana di ciò che considera un proprio legittimo asset.

Israele espropria già il gas presente nella piattaforma sulla costa di Gaza, trasportandolo in Egitto, da dove viene poi venduto in Europa. Ma con un ridimensionamento dell’influenza statunitense nella regione, lo Stato ebraico potrebbe essere rimanere sempre più isolato.

Più a nord, al fianco della Siria filo-russa di Assad, la situazione politica in Iraq è sempre più instabile, tra interessi curdi ed eterni conflitti etnici e religiosi, che mascherano, come sempre, fortissime influenze straniere. Sempre ieri, dopo un rinvio causato da missili piovuti sul palazzo nel quale risiede il parlamento iracheno, è stato finalmente possibile appuntare premier Mohammed al-Sudani, il candidato sostenuto dall’Iran, che dovrà però cercare di conciliare, tra le altre cose, anche varie fazioni sciite in conflitto tra di loro. L’Iraq possiede una riserva di circa 150 miliardi di barili di greggio, il che lo rende il quinto Paese al mondo in questa classifica. La partita che si gioca in quella che fu la culla della civilizzazione è sempre più importante.

A fare da contorno a tutto ciò c’è infine la Turchia, sempre più affamata di grandezza, che da circa due decenni detta legge nel sud del Mediterraneo cercando di portare sotto la sua sfera di influenza più asset possibili. L’incontro tra Putin e Erdogan è andato piuttosto bene, con il leader russo che rinnova la collaborazione tra i due Stati, rilanciando la candidatura della Turchia come hub del gas. Ciò offre una possibilità inedita ad Erdogan: esercitare una sorta di dominio energetico sull’Europa, divenuta ormai sempre più insignificante in un nuovo ordine mondiale fatto di risorse materiali e tangibili e non da immaginarie superiorità morali e numeri fittizi su uno schermo in Borsa.

Il presidente turco ha ricambiato la fiducia rinnovando la sua disponibilità ad ospitare un trattato di pace tra Russia e Occidente sul conflitto in Ucraina e ha sottolineato l’importanza delle forniture alimentari e di fertilizzanti che arrivano dalla Russia.

Per decenni la nostra epoca è stata dominata dall’assolutismo occidentocentrico del pensiero neoliberale, sostenuto, tra gli altri, da improbabili filosofi che decretavano la fine della storia. Pochi e per lo più inascoltati sono stati coloro che, invece, hanno previsto ciò che oggi è ormai realtà.

Piaccia o non piaccia, è in atto un autentico cambio di paradigma. Mentre il Nuovo avanza, imperterrito e lungimirante, il Vecchio, indebolito ma non ancora sottomesso, stringe disperatamente e rabbiosamente la sua morsa su un mondo che fatica sempre più a controllare. Difenderà la sua supremazia fino in fondo e a ogni costo, a colpi di missili e di mortaio, senza escludere nemmeno la guerra termonucleare come opzione estrema.

Domani potrebbe arrivare prima del previsto.

Condividi!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *