LA SOCIETÀ DELL’ECCESSO DI SIGNIFICANTE. L’ULTIMA OPERA DI BYUNG-CHUL HAN

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Giulio Montanaro recensisce l’ultimo libro del filosofo sudcoreano Byung-chul Han.

978880625109HIG

“Non possiedo nemmeno me stesso. Mi limito ad affittare la mia nominatività”.

È questo, ormai, lo stato in cui versa l’uomo ritratto dall’autore e filosofo sudcoreano Byung-Chul Han.

Un sentire che ritrae a perfezione l’uomo nell’era del Great ResetUn uomo che, seppur destinato a non possedere nulla, si presume avrà di che esser felice. Un uomo che dovrà rassegnarsi, per sua responsabilità, per sua non curanza, a passare appunto dal regime del possesso a quello della mera esperienza. Un uomo che ha comunque già irrimediabilmente perduto il suo rapporto con i concetti basici del vivere quotidiano ante digitalizzazione.

In tempi in cui ci viene detto che nessun’altra società è possibile o anche solo accettabile, se non quella “aperta”, frutto di un nobile ideale del filosofo Karl Popper, poi diabolicamente strumentalizzato, deturpato, stuprato, dal “filantropo” George Soros e dalle sue apolidi organizzazioni internazionali sventolanti la bandiera arcobaleno, l’autore sudcoreano Han indica, invece, proprio in quell’apertura la cristallizzazione dei problemi contemporanei.

“Aprire, è il verbo del nostro tempo, non chiudere… la totale apertura, permissività, permeabilità, distrugge la cultura raffinata. Stiamo perdendo sempre più gli istinti di chiusura, la capacità di dire no agli stimoli pressanti.”

Il rispetto, la distanza, il silenzio, l’introspezione, l’affidabilità, la spiritualità e l’altro sono, ormai, valori smarriti nella società “della sopravvivenza” in cui siamo calati e che Han, in alcuni suoi precedenti testi, definisce anche “della trasparenza” o “della stanchezza”.

E di cui Han offre un ulteriore illuminante spaccato, per usare le sue parole, tramite l’idea della società dell’eccesso di significante. Quella società digitalizzata che trova consacrazione nell’assenza di una dimensione sensuale, corporea e che sottrae, quindi, sempre più gli eventi vitali da una connotazione di senso e di significato. Solo l’eccesso di significante, ormai, può far apparire un’opera come magica e misteriosa.

Nello sciame di informazioni digitali in cui viviamo l’uomo non ha scampo: è destinato a diventare un infomane, perennemente travolto da una miriade di significati digitalizzati e, quindi, senza senso.

La comunicazione digitale de-realizza temi e contenuti, trasformandoli in mera informazione e cosi accompagnandoci nell’era dell’infotainment o del cognitainmentUn’era in cui la cultura è rimodellata tramite un’inversione di valori. Una cultura che è fragile ed esile come solo può esser quando la realtà è fondata sul rovescio delle cose. Siamo ormai senza alcun appiglio nella realtà fisica liquefatta dalla digitalizzazione, mutuando un concetto di baumaniana memoria.

Quella che Han denuncia è un inversione iconica di valori, un tema già ampiamente trattato anche in alcuni altri suoi precedenti libri, come “Nello Sciame” e “Psicopolitica”, entrambi editi dalla casa Nottetempo.

C’è chi inizia ad accreditare l’autore come una delle voci principali nella denuncia dei mali della contemporaneità. Chi scrive non può che concordare. Pochi son stati in grado di gettar luce sui problemi dei nostri giorni con la stessa efficacia, lucidità e poesia di Byung Chul Han.

Le Non-Cose, oggetto della sua ultima pubblicazione edita da Einaudi, cristallizzano esattamente quel “reale che sfugge al simbolico passando attraverso la rete della rappresentazione”Un reale ormai quasi orgogliosamente disinteressato della comprensione di se stesso. Dominato dalla tecnologia e dalla computazione, quotidianamente narcotizzato dall’inutile ed imperversante tempesta di comunicazione. Afflitto da una “cospirazione” orchestrata di tecnologia  e comunicazione, che spinge l’uomo verso l’omologazione. Verso quel pensiero unico dominante, che non può che sfociare in un sempre più latente conformismo lobotomizzante.

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