L’ITALIA COME LABORATORIO POLITICO : UNA IPOTESI DI LETTURA STORIOGRAFICA.

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Dalla sua nascita come Regno d’Italia, il nostro Paese si è mostrato più volte come un laboratorio per idee e sistemi politici, poi diffusisi all’estero. Siamo ancora di fronte a un processo di questo tipo?

All’indomani della Grande Guerra, l’Italia era una nazione ancora giovanissima. Dimentichiamo spesso che nel 1861, all’atto della nascita del Regno d’Italia, una nazione fra quelle ritenute più giovani, cioè gli Stati Uniti d’America, combatteva già una guerra civile a quasi un secolo dalla sua fondazione. Le contraddizioni che segnarono il Paese all’atto della sua indipendenza lo resero per diversi decenni marginale. Internamente, l’Italia si presentava come un Paese economicamente frammentato con profonde sacche di arretratezza, che aveva semplicemente esteso leggi e istituzioni di uno Stato preesistente al nuovo soggetto politico, come ben segnalava anche la continuità nel nome del Sovrano. Internazionalmente, l’Italia mancava della potenza militare ed economica che le avrebbe permesso di muoversi autonomamente, tanto da trovarsi, a pochi anni dall’indipendenza, nella coabitazione forzata della Triplice Alleanza con potenze che le erano geopoliticamente ostili.

Fu il quindicennio giolittiano che affrontò e in parte risolse molte di queste contraddizioni. Da una parte Giolitti portò nella vita politica del Paese quelle masse che erano state escluse dal Risorgimento. Dall’altra, proiettò l’Italia nello scenario internazionale nell’unico modo in cui era possibile farlo nel primo Novecento: con una politica imperialistica. La scommessa dello statista piemontese fu quella di provare a tenere l’Italia fuori dalla Grande Guerra, sfruttando a suo vantaggio proprio le clausole dell’alleanza con gli imperi centrali, una posizione che a grandi linee ricalcava la Repubblica di Firenze ai tempi della pace di Lodi: essere l’ago della bilancia di un equilibrio precario. D’altra parte un sistema internazionale funziona proprio fino a quando è la politica diplomatica, e non la guerra, a risolvere le controversie fra gli Stati che quel sistema accettano.

Al netto delle posizioni individuali, delle manifestazioni del maggio radioso, di una certa sensibilità popolare e, sopra ogni altra cosa, del ruolo del governo Salandra e del Re, se vogliamo inquadrare la scelta italiana di entrare in guerra nel maggio del ’15 da un punto di vista storicista, possiamo intravedere le aspirazioni di una giovane nazione a entrare a far parte della storia in pianta stabile. Fu esattamente quanto accadde: altalenante nella condotta bellica, ottusa e a tratti perversa nella gestione delle truppe, incerta nella gestione politica (in quattro anni si alternarono tre governi) bistrattata o mutilata alla conferenza di pace, stravolta dai problemi del lungo dopoguerra, l’Italia entrò nel novero delle grandi Nazioni, dal quale non si è (ancora) smossa. Fu da questo momento che l’Italia divenne un laboratorio politico, nel senso che in Italia si sperimentarono forme politiche che divennero modello da affinare per altri Paesi in condizioni similari.

Il fascismo fu un nuovo modello politico, capace di fondere l’ideologia bellicista del trincerismo con il più antico bonapartismo e il modernissimo utilizzo dei media in una società di massa. Sperimentato in Italia, si affermò in moltissimi Paesi, tanto che alla vigilia del secondo conflitto mondiale le democrazie liberali si contavano sulle dita di una mano. Lo stesso concetto di totalitarismo fu coniato dagli ideologi fascisti, ma più che affermarsi in Italia, dove incontrò resistenze importanti, si perfezionò in altri Stati che dall’esempio italiano avevano preso ispirazione. Nel secondo dopoguerra due fenomeni politicamente altrettanto importanti nacquero in Italia per essere poi imitati. Da una parte la coesistenza, all’interno dei blocchi della guerra fredda, di una solida maggioranza atlantista e di una forte opposizione social-comunista. Dall’altra, la nascita del populismo europeo, che nel fronte dell’Uomo Qualunque gettò, nei tardi anni Quaranta, la base di un discorso e di una comunicazione politica i cui epigoni – spesso inconsapevoli – vanno da Poujade a Pannella. In tutti questi esempi citati di volo, in Italia si provò a definire in maniera differente il rapporto fra governanti e governati. A partire dall’Italia, questo esperimento fu applicato, con ovvi e necessari accorgimenti, in contesti più ampi.

Oggi assistiamo a una spinta maggiormente autoritaria di questo rapporto. Gli ultimi due anni hanno sicuramente accelerato il processo, ma una chiara ossessione securitaria andava delineandosi già dall’inizio del secolo. La sicurezza diventa il bene primario e stabilisce una gerarchia dei diritti, anzi può perfino subordinare il godimento di questi al rispetto di un nuovo patto sociale. Le telecamere di sicurezza che compaiono con crescente frequenza nelle strade delle nostre città nonostante criminalità e violenza siano profondamente in calo anche solo rispetto agli anni Novanta, sono la spia di questo nuovo tipo di rapporto. La pandemia ha sdoganato interpretazioni della Costituzione secondo le quali il diritto alla salute viene prima di qualsiasi altro, interpretazioni che nessuno aveva mai sentito avanzare prima. La salute rientra però, nel senso della semplice salute del corpo, nel più ampio tema della sicurezza, di cui lo Stato si deve fare garante. Affinché ciò accada, però, è necessario che lo Stato si inserisca in maniera autoritaria e maggiormente pervasiva nella vita dei singoli: rinunciare a quote di libertà e sottoporsi a maggiori quote di sorveglianza è necessario per una maggiore sicurezza generale. Per questo si accetta che lo Stato imponga gli orari in cui è possibile uscire, le attività che sono indispensabili e quelle che non lo sono, a quali condizioni ci si può sedere in un bar e in base a quali protocolli si possa godere dei propri diritti.

Il governo Draghi si presenta in questo senso come il nuovo esperimento del laboratorio politico italiano e non ne fa mistero. L’ampia maggioranza che lo supporta coglie sempre l’occasione per rimarcare la maggiore prudenza o la necessaria fermezza delle scelte italiane. Già il precedente governo Conte II incensava le sue scelte come coraggiose e fonte di ispirazione per altri, tanto che il presidente del Consiglio dichiarava (senza che mai nessuno lo confermasse) di ricevere le telefonate degli altri capi di governo che gli chiedevano consiglio. Neil Ferguson ha però affermato che la scelta italiana di applicare il lockdown è stato ciò che lo ha reso possibile anche negli altri Paesi occidentali. Una cosa è certa: i due governi di questi due anni, nel loro continuo incensarsi quanto migliori non tradiscono tanto vanità, quanto la volontà di essere modello per altri: i fatti empirici possono essere soltanto una copia delle idee.

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