COME IMPARAMMO AD AMARE L’ASTEROIDE: DON’T LOOK UP

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L’ultimo film di Adam McKay che pretende di farci ridere mentre ci spiega che siamo una società fottuta e destinata ad una sacrosanta estinzione. E ci riesce.

Tutti ne parlano e tutti lo commentano. Tutti dicono Don’t Look Up! Come prima recensione per Giubbe Rosse non posso esimermi dal commentare il film sulla bocca di tutti. In primo luogo perché è un lungometraggio frizzante e schizofrenico al punto giusto e in secondo luogo perché è uno di quei lavori che vantano uno spirito che li pervade, una rarità nel Cinema americano contemporaneo. E quello spirito è più divisorio dei pantaloni di pelle di andreascanzi.

Sto parlando naturalmente dell’ultima produzione Netflix firmata dal regista Adam McKay che sta facendo rosicare di brutto sia il popolo dei “narcolettici costituzionali” che non vogliono proprio capire che la scienza e i Mass Media sono disperatamente al servizio del capitale, sia il cosiddetto popolo “complottista” perché il film evidenzierebbe come il delirio quotidiano che viviamo (quello della società capitalistica) non sia il frutto di piani segreti per soggiogare il mondo (come pensiamo noi gonzi-complottari), ma solo ed esclusivamente della sconfinata stupidità e voracità umana.

La storia, come molti di voi sapranno, narra della scoperta di un asteroide in rotta di collisione con la terra e degli effetti che la notizia scatena sulla la politica, la società e sugli astronomi protagonisti dell’avvistamento (Di Caprio e Jennifer Lawrence).

Ma al contrario dell’evento da estinzione che abbiamo avuto il piacere di vedere in un dipinto di poetica in movimento come Melancholia di Lars Von Trier, in cui un pianeta, in rotta di collisione con la terra, rappresenta un Dio-morte, annichilente e inesorabile, l’asteroide al centro della storia di Don’t Look Up appare piuttosto come un elemento salvifico.

Più passano i minuti e più lo spettatore si ritrova a simpatizzare con l’asteroide e a sperare che faccia esplodere il prima possibile (e in uno tsunami di lava) una società fottuta e votata all’autodistruzione. L’evento killer globale dallo spazio è solo un escamotage narrativo per approfondire ciò che davvero interessa ad Adam Mckay: la satira sociale.

Questa black-comedy è la rappresentazione farsesca di un universo-mondo, quasi in stile Simpson, che scarnifica ferocemente l’ipocrisia e la vacuità della società dello spettacolo in cui viviamo.

Il film è un atto di accusa anche nei nostri confronti. Un’accusa di incompetenza nella comprensione della realtà e della perdita di ogni relazione con la spiritualità che ci contraddistinguerebbe come esseri umani e su cui Mckay pone l’accento nella scena dell’ultima cena in famiglia.

Con questa sceneggiatura prorompente e audace, il regista torna alla commedia demenziale (l’apice è nella scena di nudismo-horror finale) con la quale si era fatto conoscere grazie al sodalizio comico con Will Farrell, interrotto recentemente (vivaiddio) da pellicole brillanti e più raffinate come “La grande scommessa” o decisamente agli antipodi come la devastante biografia su Dick Cheney con Christian Bale (che sicuramente sarà un bel film, ma viene voglia di vederlo come viene voglia di andare a cena con davidparenzo).

Nonostante la fotografia standard di questo periodo decadente di Hollywood e il consueto abuso compulsivo della computer grafica, McKay è riuscito a confezionare una commedia demenziale e divertente ma che (dopo due anni di pandemenza), ahinoi, non sembra poi così demenziale.. Una discesa negli inferi del regno dell’incompetenza politica come nel capolavoro di Kubrick, Doctor Strangelove o in Mars Attack di Tim Burton, in cui il Presidente lo interpretava Jack Nicholson (e ho detto tutto).

E con diversi personaggi già iconici. Maryl Streep nel ruolo di Presidente degli Stati Uniti, incarna insieme al fidato figlio-Vicesegretario (Jonah Hill) un duo-demenza degno dei tre virologi che cantano la hit “Sì sì vax”. Per la cronaca sì: Jonah Hill fa sempre il Jonah Hill qualunque ruolo gli diano.

Ma la stupidità, non è solo nel negazionismo della Casa Bianca che pretende di negare l’emergenza con lo slogan del “Non guardare in alto”, da cui prende nome la pellicola. Il problema non è la politica o l’ottusità di quello che in molti hanno riconosciuto come il Partito Repubblicano. Questo sebbene vengano dedicate inquadrature alle foto dei Clinton nell’ufficio presidenziale e il suo “finanziatore platinum” il magnate Sir Isherwell, sia chiaramente ispirato a un dem della Silicon Valley. E sia in definitiva un incrocio tra Steve Jobs, Bill Gates e il Dottor Evil di Austin Powers, che la dice lunga su quanto sia evidente, persino a Hollywood, la bella panzana dei supermegafantamiliardari filantropi che lo fanno per noi.

La forza della stupidità alberga potente nella sala dei comandi e nella smania di affari del business, ma è anche dentro noi tutti. È dell’intero sistema malato in cui imperversa una pandemia di insensibilità e arrivismo che colpisce inesorabilmente anche i protagonisti.

Persino il prototipo del brav’uomo, l’astronomo, “l’esperto” interpretato da Di Caprio (che riesce nell’incredibile impresa di non cannibalizzare il film) si ritrova a subire una profonda trasformazione per cui, in men che non si dica, da serio professore diventa prima un complottaro del webbe e poi un bassetti coi capelli dedito alle comparsate televisive.

Ciò che colpisce di Don’t Look Up, però, sono i dialoghi. Mai banali, una slavina di battute e una scrittura fresca e frizzante.

Ma anche e soprattutto colpisce lo spirito del film di McKay. Il voler raccontare un mondo di mostri inconsapevoli troppo presi dal niente quotidiano per capire di essere sul ciglio di un burrone.

Una metafora (poco metaforica) di un mondo mortalmente superficiale. Come i suoi “giornalisti” e le sue icone e di conseguenza per imitazione, come noi.

E proprio per questo condannato a una crisi morale senza scampo, perché come diceva David Foster Wallace, è l’ironia dei media, il loro nichilismo, il loro cinismo ad averci infettato, insegnato a non credere a nulla, a non appassionarci a niente. Al rifuggire la serietà.

Ciò che colpisce di Don’t Look Up è che colpisce tutti.

E proprio per questo è già un film cult, che piaccia o no. A prescindere da quanto ognuno di noi ci voglia vedere.

Sia che ci si veda un J’accuse contro i movimenti dal basso che rifiutano la logica “scientifica” pandemica, sia che in quell’asteroide ci si veda, invece, l’accecante Verità che è sotto i nostri occhi e che ci rifiutiamo di guardare perché ci dicono di non farlo.

Come quando ci hanno detto di non stare troppo a guardare il bugiardino del consenso informato dei sieri che poi vi facevate strane idee. E vi hanno convinto.

Forse tra qualche anno ci sarà il sequel: Don’t Look the Bugiardino.

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2 thoughts on “COME IMPARAMMO AD AMARE L’ASTEROIDE: DON’T LOOK UP

  1. Un film amaro. Nessuno si salva, ognuno ha una parte di responsabilità, ma di certo c’è chi ne ha una montagna, e questi sono pochi, e ben identificabili. Così come accade oggi nella realtà.

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