PERCHÉ IL GREEN PASS NON TUTELA SALUTE E SICUREZZA

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Il Green Pass si fonda sull’assunto che guariti e vaccinati siano, in quanto tali, non contagiosi. Un assunto che non ha alcun fondamento scientifico, per non dire che è platealmente smentito da numerose evidenze contrarie. Per queste ragioni, il Green Pass non solo non è in grado “di garantire salute e sicurezza”, come richiesto dall’ormai famoso art. 4, comma 1, D.L. 44 del 1° aprile 2021, ma rischia addirittura di favorire focolai di contagio laddove coloro che ne fruiscono si convincano di non poter contagiare. Per contro, un accesso diffuso e facilitato ai tamponi costituirebbe l’opzione migliore ove si avesse davvero a cuore la salute pubblica, la sicurezza della cittadinanza e il ritorno a una situazione il più possibile prossima alla normalità.

Dallo scorso 6 agosto il governo italiano ha imposto le certificazioni verdi Covid-19 (il cosiddetto Green Pass) quale requisito necessario per la fruizione di spazi, attività e servizi pubblici, che dal prossimo 1° settembre verrà esteso anche a scuola, università e trasporti. Quest’ultima previsione è contenuta per il momento in un decreto legge che, in particolare per scuola e università, giustifica l’imposizione della certificazione “al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione in presenza del servizio essenziale di istruzione”.[1]

Gazzetta Ufficiale, art. 4, comma 1, D.L. 44 del 1° aprile 2021

Molti giuristi hanno evidenziato i vari motivi per cui questa certificazione è in conflitto con diversi articoli della nostra Costituzione, nonché con ordinamenti comunitari e internazionali. Le varie ragioni sono ben riassunte in una petizione indirizzata al Presidente della Repubblica che anche il sottoscritto ha firmato nei giorni scorsi.

In questa sede desidero, tuttavia, discutere i motivi per cui le certificazioni verdi Covid-19 sono inadatte a tutelare la salute pubblica, motivi che fino ad oggi hanno ricevuto un’attenzione scarsa o nulla nella discussione politica e mediatica. Va ricordato, come premessa, che le certificazioni sono concesse a chi abbia completato un ciclo vaccinale, a chi sia guarito da Covid-19 e a chi si sia sottoposto a un tampone per la ricerca di SARS-CoV-2 con esito negativo. In altri termini, la certificazione si fonda sull’assunto che vaccinati e guariti siano ipso facto non contagiosi e che un esito negativo di un tampone garantisca analoga condizione.

In primo luogo, è ormai ampiamente acclarato che chi si vaccina può ancora contagiarsi, forse meno di chi non si sia vaccinato, ma pur sempre in misura alquanto consistente. Ad esempio, i dati più recenti del programma britannico REACT-1, che dal 2020 registra i contagi nella popolazione inglese, mostrano una percentuale di contagi di 1,21% nei non vaccinati e di 0,40% nei vaccinati. Poco più di un positivo su 100 nei non vaccinati e poco meno di 1 positivo su 200 nei vaccinati, che fa in termini di efficacia relativa 66%. Questo significa che nei vaccinati c’è il 66% in meno di positivi. Volendo tradurre il dato in riduzione assoluta del rischio di contagio, il risultato è 0,81%, ossia il rischio assoluto di contagiarsi (in una scala da 0 a 100) si riduce con il vaccino dello 0,81%, passando da 1,21% a 0,40%. Che chi si è vaccinato possa poi, a sua volta, contagiare altri è solidamente documentato sia da osservazioni cliniche pubblicate su riviste scientifiche, che descrivono casi di contagio anche in assenza di sintomi di Covid-19, sia da tante notizie di cronaca, dal noto concerto olandese cui era stato ammesso solo pubblico in possesso di certificazione[2], ai focolai su navi da crociera che imbarcavano solo vaccinati[3][4], fino al caso, segnalato proprio oggi dalla stampa britannica, del festival Boardmasters in Cornovaglia, a seguito del quale si sono registrati oltre 4.700 casi di Covid-19 nonostante l’accesso fosse riservato ai possessori di Covid Pass.[5]

In secondo luogo, così come si contagiano i vaccinati, altrettanto possono contagiarsi coloro che dal Covid-19 sono invece guariti. In Austria, durante il periodo settembre-novembre 2020, ossia nella cosiddetta “seconda ondata”, si è contagiato lo 0,27% dei guariti da Covid-19 contratto nella “prima ondata”, rispetto al 2,85% della popolazione non precedentemente infettata. L’efficacia relativa dell’immunità naturale è stata dunque del 91% (1 – 0,27/2,85), del tutto sovrapponibile a quella dei vaccini attualmente in uso, mentre la riduzione assoluta del rischio è stata 2,85% – 0,27% = 2,58%, meglio di quelle riportate negli studi autorizzativi dei vaccini (Pfizer 0,84%, Moderna 1,12%, Janssen 1,18%, Astrazeneca 1,74%). Non sono al corrente di casi documentati di contagio da guariti reinfettati. È, tuttavia, plausibile che possa accadere, così come accade con i contagiati malgrado i vaccini.

A tal proposito, anziché ragionare in termini di vaccinati e non vaccinati, sarebbe molto più importante dirimere una controversia che data fin dall’inizio dell’epidemia, ovvero se una persona contagiata, ma asintomatica (che sia vaccinata, guarita o non vaccinata), possa a sua volta essere contagiosa oppure no. Molte ricerche suggeriscono di no. Tra queste ricordo, a titolo di esempio, lo studio condotto la scorsa estate a Wuhan in Cina, che identificò solamente 300 positivi, tutti asintomatici e non contagiosi. L’equivalente inglese del nostro CTS, d’altra parte, già lo scorso inverno considerava molto più utile, al fine di ridurre la diffusione del contagio, sottoporre a test le persone sintomatiche, in modo da non disperdere inutili risorse alla ricerca di positivi asintomatici, e raccomandava di definire i “casi” su base clinica e non soltanto laboratoristica. Concludere che la contagiosità dei positivi asintomatici è irrilevante avrebbe conseguenze ovvie, ma di enorme rilievo, sull’intera gestione pubblica dell’epidemia.

Infine, i tamponi. Di questo strumento diagnostico si è fatto largo uso fin dall’inizio dell’epidemia, in buona parte impropriamente. Non è mia intenzione entrare qui nel dettaglio degli aspetti tecnici e procedurali alla base della ridotta attendibilità delle diverse tipologie di tamponi nei vari ambiti in cui vengono impiegati. Mi limito a osservare come il loro uso andrebbe riservato alla diagnosi di Covid-19 in persone sintomatiche. In presenza di sintomi, infatti, un tampone positivo ha elevate probabilità di aver dato un risultato corretto. Al contrario, in assenza di sintomi, in una persona dunque clinicamente sana, un risultato positivo ha probabilità molto elevate di essere un falso, anche nel 50% e più dei casi, a seconda del tipo di tampone e della situazione. In assenza di sintomi, tuttavia, un tampone negativo ha ottime probabilità, di regola oltre il 90-95%, di aver dato un risultato corretto. Quest’ultimo aspetto rende i tamponi lo strumento più adeguato per “tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza”. Un compito del genere potrebbe essere validamente assolto anche dalla massima parte dei tamponi rapidi, ivi inclusi i tamponi salivari, la cui fruibilità potrebbe essere facilmente garantita in tutti i luoghi e in tutte le occasioni in cui si rendesse necessario. E ovviamente senza alcuna esigenza di collegarli a una complessa procedura di certificazione.

In conclusione, assumere che guariti e vaccinati siano in quanto tali non contagiosi non ha alcun fondamento scientifico. Le evidenze indicano, se mai, il contrario, documentando come il rischio di contagio non sia così diverso per i vaccinati rispetto ai non vaccinati e, in ogni caso, anche nei vaccinati non sia per nulla trascurabile. Per queste ragioni, l’impianto delle certificazioni verdi Covid-19, così come attualmente previsto, non solo non è in grado di garantire salute e sicurezza, ma rischia addirittura di favorire focolai di contagio laddove coloro che ne fruiscono dovessero convincersi, per il semplice fatto di fruirne, di essere completamente protetti dal contagio e, quindi, di non poter contagiare. Quasi superfluo aggiungere che ciò si traduce spesso, a cascata, nell’inosservanza delle regole di protezione e distanziamento. Per contro, un accesso diffuso e facilitato ai tamponi costituisce l’opzione migliore ove si abbia davvero a cuore la salute pubblica, la sicurezza della cittadinanza e il ritorno a una situazione il più possibile prossima alla normalità.

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