In polemica con la visione popperiana della storia, per cui questa avanza per prove ed errori lungo la strada di un graduale progresso, E.H. Carr concludeva il suo What is history? (1961) con la nota, e apocrifa, citazione galileiana: e pur si muove. Lo storico britannico intendeva che le rivoluzioni non sono, come le intendeva Karl Popper, il risultato, pericoloso e violento, di chi impone la sua visione delle cose ostacolando il regolare avanzare del progresso, ma il motore della storia.
Il filosofo, connazionale adottivo di Carr, poneva questa sua convinzione in continuità tanto con la dicotomia fra società aperte e società chiuse, quanto con quella che definiva miseria dello storicismo. Per Popper, infatti, alcune filosofie della storia, individuando erroneamente e pseudoscientificamente delle leggi dello sviluppo storico, tendevano a sacrificare la libertà e la vita delle persone in nome di un ideale ritenuto superiore, cioè a imporre una società chiusa e tirannica. Per utilizzare le categoria di un pensatore affine a Popper, Isaiah Berlin, l’unico passo possibile affinché si realizzi la giustizia è quello della volpe, che conosce tante piccole cose e si adatta alle situazioni, e non quello del riccio, che ne conosce una sola, ma pesante, e in base a questa giudica e realizza ogni cosa.
Eppure, la parte del riccio nella storia la recitano spesso i sostenitori della riforma graduale, di un progresso che arriva placido per gli uomini di buona volontà e corrispondente fiducia. Le rivoluzioni appaiono invece come deviazioni: innescano la violenza, sollecitano le repressioni, creano conflitti di lunga durata, sconvolgono le esistenze. Riletta in questa chiave, come già aveva fatto Burke con i corpi ancora caldi, la rivoluzione francese non è l’evento epocale che muove le coscienze e che fa indossare alla storia, per rubare a Hegel l’immagine, gli stivali delle sette leghe, ma il delirio di un ristretto gruppo di esaltati che rallenta un percorso già in atto, impone governi autoritari e uccide inutilmente milioni di persone.
In effetti è impossibile non riconoscere che nel 1789 idee di riforma fossero già presenti fra le classi dirigenti della monarchia francese. Il centenario della gloriosa rivoluzione inglese invitava a pensare a una trasformazione di quel tipo anche da questa parte della Manica: dall’assolutismo al costituzionalismo con pochi danni collaterali; anche se è un falso mito che la rivoluzione inglese del 1689 non fece neanche un morto, fu definita gloriosa perché, rispetto alla precedente, degli anni 1643-1649, che costò la vita al 7% della popolazione, i morti furono molti meno. Dal suo ruolo di controllore generale delle finanze, Jacques Necker, chiamato, destituito e richiamato varie volte, era la voce più autorevole in favore di uno Stato più moderno ed efficiente. La lettura controrivoluzionaria della storia vede invece negli eventi che da lì a pochi anni fecero cadere la testa di un re e di una regina, trasformarono la Francia in repubblica e poi in impero (anzi in repubblica e impero, dato che Napoleone si faceva definire Imperatore della repubblica francese) un ostacolo al progresso morale, economico e tecnologico della Francia, costretta poi per decenni a inseguire con affanno i cugini inglesi sulla strada dell’industrializzazione.
Chiamato a confrontarsi con Napoleone e con le macerie del mondo dopo Napoleone, Metternich ha da prima provato a disegnare un ordine nel quale l’imperatore francese e quello austriaco potessero dividersi l’Europa, per poi farsi architetto di un ordine mondiale rimasto saldo per un secolo intero. Con un acuto sistema di alleanze e accordi, poggiando su poche e precise regole internazionali e su tre fondamentali principi di giustizia, Metternich provò a guardare la storia dal ristorante al termine dell’universo. Nel 1848, però, primo caso della storia di rivoluzione che si fece istantaneamente, pur nei limiti del mondo occidentale, globale, Metternich cadde perché non cadesse il sistema. Per ancora qualche decennio tutto si mantenne, eppure la talpa della storia continuava a scavare, fino a che nel Novecento il terreno crollò sotto i piedi dei protagonisti col naso all’insù.