CORONAVIRUS E FILOSOFIA. PAURA, DISGUSTO, BIOPOLITICA E VACCINI

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Da cosa derivano le restrizioni alla libertà che nell’ultimo anno e mezzo sono state imposte in quasi tutto l’Occidente? Occorre innanzitutto valutare le dimensioni del fenomeno, che sono senza precedenti. Mai, nella storia umana, per nessun motivo, era stato imposto il coprifuoco a così tante persone contemporaneamente: miliardi.

 
 
 

Il termine “quarantena” (come si sono preoccupati di ricordarci i media, come se ciò costituisse un precedente) nasce nella Ragusa dalmata del Quattrocento. Quarantene limitate nello spazio e nel tempo furono imposte in età moderna in occasione di particolari contagi, ma sempre in circuiti ben delimitati e chiusi (specialmente navi) o a categorie specifiche di persone (malati e loro congiunti). L’Europa, dopo la peste di Marsiglia del 1720, non ha più conosciuto disastri demografici da epidemia. In tutto questo le misure di contenimento hanno avuto un ruolo, anche se è difficile capire quanto decisivo.

 

Ma un coprifuoco esteso a interi continenti, ivi inclusi paesi (come l’India) dove la percentuale di contagiati era da prefisso telefonico, ed esteso fino alla deliberata distruzione dell’economia, non si era mai visto. La novità assoluta dell’evento, l’assenza di precedenti, è un aspetto della questione molto sottovalutato dai media, che anzi si sforzano di trovare antecedenti storici. Ma essa è di per sé evidente e va spiegata.

 
 
 

La risposta più evidente alla domanda “come è stato possibile?” va cercata appunto in ciò che è evidente, anche se occultato e negato in ogni modo dai media e dalla nostra falsa coscienza. Va cercata in ciò che è chiaro e distinto, non appena lo si consideri con animo sgombro dal pregiudizio e dai media che lo creano. La risposta è: paura. Nulla di tutto questo sarebbe stato possibile senza la paura. I governanti, dopo l’iniziale sottovalutazione, appena il numero dei contagiati ha cominciato a crescere esponenzialmente, hanno ceduto alla paura di essere ritenuti responsabili di un disastro sanitario, e hanno agito di conseguenza: chiudendo tutto, applicando i mezzi più rozzi e immediati, senza distinzione. Ma la paura dei governanti non avrebbe ottenuto nulla senza la paura dei governati. E’ questa che ha permesso l’adozione, inaudita, di misure che sconvolgeranno, per una durata ancora ignota, lo stile di vita “liquido” che credevamo di aver conquistato per sempre.

 
 
 

Un movente psicologico tale da distorcere la percezione della realtà, da rendere accettabile ciò che neanche in tempo di guerra era stato mai accettato, deve essere davvero potente. Questo movente è un tipo particolarmente profondo di paura, che non può più nemmeno definirsi paura. La paura è un sentimento (un movente a-razionale ma cosciente). Milioni di persone che volontariamente rinunciano alla libertà di movimento (un istinto basilare per tutti i primati) ed evitano il minimo contatto con tutto ciò che è pubblico possono essere spinti a farlo solo da un istinto ancora più basilare, e del tutto incosciente.

 

Questo istinto è la ripugnanza, uno dei più profondi e radicati nel regno animale. La ripugnanza è ciò che letteralmente paralizza il corpo impedendogli di toccare qualcosa, anche nel caso in cui non vi siano motivi razionali o affettivi per fare così. La ripugnanza si applica a oggetti considerati in sé negativi: scarafaggi, cadaveri, virus. Oggetti che la mente identifica come pura negatività, senza la mediazione dell’intelletto. Ora, chi riuscisse a manipolare la mente umana in modo da suscitare la ripugnanza per un oggetto a scelta, avrebbe il controllo totale sulla mente e sul corpo. Questo è ciò che si chiama biopolitica.

 
 
 
 
 
 

Il territorio della biopolitica è stato esplorato dai “nouveaux philosophes” francesi, specie Michel Foucault, e ha ridefinito il concetto di potere. Se nel marxismo classico il potere è sempre espressione dell’astratta ”essenza generica” dell’umanità (Gattungswesen), seppure declinata secondo le particolari condizioni storiche di un paese e di un’epoca, per i “philosophes” il potere è un’entità oscura, materiale, che s’insinua nel corpo attraverso canali invisibili, esattamente come fa il virus.

 
 
 

Il potere è tale solo se si fa biologia, cioè se si incista nel nostro corpo sotto forma di forza motivazionale profonda, proprio come il disgusto e la ripugnanza – due tra le forme di “biopolitica” più forti, in quanto radicate nella parte più profonda del nostro cervello, il sistema limbico che noi condividiamo con i rettili. In ogni epoca, potere è ciò che definisce il nemico come oggetto di disgusto. E siccome l’igiene è la gestione ritualizzata del disgusto, ne deriva che la radice più profonda del potere è l’igiene. Il potere insomma è solo in piccola parte “umano” (contrariamente all’illusione marxista, destinata al fallimento perché insegue una inesistente “essenza generica dell’uomo”). Il potere è in gran parte pre-umano o preter-umano.

 
 
 

Ciò spiega perché le pratiche igieniche hanno una parte così cospicua in tutti i testi sacri fondativi delle cosiddette “religioni”: la Torah, i Veda, il Corano (e ancor più la Sunna). Scopo principale e originario di questi testi era infatti la disciplina e la limitazione del potere: sono insomma delle vere e proprie Costituzioni originarie, dei “contratti sociali”. Ciò si traduce in pratica nel porre limiti all’igiene, limiti senza i quali la vita umana non è possibile; limiti doppi, verso l’alto e verso il basso.

 
Si muore o si impazzisce, infatti, sia per troppa igiene che per troppo poca. Troppa igiene è una patologia mentale, oggi ufficialmente riconosciuta dal manuale standard di psichiatria, il Dsm. Oltre a questo, l’eccesso di igiene è una minaccia fisica in quanto compromette il sistema immunitario. Allo stesso tempo, la scarsità di igiene (in effetti il principale problema dell’umanità per gran parte della sua storia) è la prima causa di morte e malattie ovunque. Le cosiddette religioni risolvono insomma un problema di potere: stabilire, cioè scegliere, un giusto mezzo ottimale tra un eccesso e un difetto di igiene. Chi riesce a compiere questa scelta e a renderla condivisa è colui che detiene il potere. Ora, nelle società antiche il potere apparteneva alle caste sacerdotali e si esprimeva attraverso il principale prodotto culturale di queste caste, il rito. Bisogna riconoscere che la loro soluzione era geniale, e ha funzionato perfettamente per millenni. Il rito è infatti un’unità – mai più raggiunta da nessun altro prodotto culturale – di spontaneità e tradizione, coscienza e inconscio, corpo e parola. L’esecuzione del rito dà pace e quindi guarisce. Il rito perfetto è quello che viene seguito in totale disinteresse, come un gioco, sciogliendo quindi il dilemma tra ordine e libertà, cioè il dilemma del potere, che si è invece ripresentato con la crisi delle società antiche ritualizzate: quella crisi che ha generato, per reazione, in Oriente le religioni vere e proprie, buddhismo e cristianesimo, e in Occidente la filosofia e la scienza.
 
 
 

Il rito è un’azione codificata da norme che sono più antiche di noi, non sono soggette alla nostra azione arbitraria, e sono state “codificate” da un’entità superiore e trascendente la nostra individualità e storicità. Il rito non è solo norma, né solo azione. La parola che esprime meglio l’essenza del rito è il sanscrito “dharma”. La sua caratteristica principale è che esso non è il risultato di una convenzione, di un contratto sociale, di una astrazione dell’intelletto: ma si presenta come qualcosa di già dato, anzi di “visto” da appositi veggenti.

 
 
 

Chi codifica il rito è sempre un veggente, un visionario. Chi risponde alla domanda “quale è la giusta via dell’igiene?” assume sempre un ruolo religioso. Se oggi questo ruolo è svolto dalla scienza, o da ciò che si fa passare per tale nei media di massa, questa scienza è già istituita come religione. Nessun uomo, nessun metodo, nulla che sia in potere dell’uomo di costruire, potrà mai assumersi il ruolo di codificare il rito e porre limiti all’igiene: solo una religione può farlo.

 
 
 

È evidente, quindi, che gli scienziati televisivi e quelli che agiscono alle spalle della politica, e hanno di fatto legiferato senza alcun controllo parlamentare, rappresentano un fenomeno di potere religioso, e che la situazione attuale della società occidentale è una guerra di religione. Chiunque contesti la scienza, non a caso, nella nostra epoca contesta anche il potere costituito; viene affrontato dalla stessa reazione e sottoposto a una duplice repressione, poliziesca e inquisitoriale. Chi contesta la scienza viene trattato da eretico e lo si punisce con tutti gli strumenti a disposizione della Santa Inquisizione, fino al rogo (finora) escluso.

 
 
 

Sia nelle guerre religiose del Cinquecento che in quelle di oggi, lo scontro simbolico più importante si gioca sul corpo divino. Allora era il corpo di Cristo (si tramuta o no in pane e vino?), oggi è il corpo della scienza, nella sua forma tangibile e ostensibile: il vaccino. Perché infatti su questo umile farmaco, che la generazione X ricorda solo come una innocente puntura tutt’al più fastidiosa, oggi si combatte una guerra ideologica? Perché è la scienza fatta corpo, e corpo vivificante e portatore di salvezza, esattamente come l’Eucaristia.

 
 
 

Il messaggio che i media hanno veicolato fin dall’inizio della crisi Covid è: nessuna normalità sarà possibile finchè non ci sarà un vaccino. Nessuna cura sarà efficace, nessuna restrizione sociale potrà essere allentata, finchè non arriverà, sotto forma di liquido iniettabile, il corpo della scienza che toglie le malattie del mondo. “Extra vaccinum nulla salus”. A dimostrare in modo evidente la natura religiosa dell’attesa messianica del vaccino era il fatto che esso ancora non esisteva. L’Occidente preferiva affidarsi alla speranza in qualcosa che non esisteva piuttosto che ai mezzi in quel momento a sua disposizione, che anzi venivano condannati in quanto fonte di “tentazione”, come l’idrossiclorochina: la tentazione di salvarsi senza pentimento, senza penitenza. Ci sono morbi, come l’AIDS, per i quali il vaccino non è stato mai trovato: ma ciò non scalfisce la fede – come altro chiamarla?- dei media nella sua fattibilità e necessità.

 
 
 
 

I vaccini sono stati oggetto di guerre ideologiche già dal loro primo apparire. Fichte, nel 1812, nel delineare la sua concezione di diritto, rimarcava come l’individuo ha diritti che sono delimitati dallo Stato in quanto portatore della razionalità comune del genere umano in una nazione. Tutto ciò che un individuo fa, spiega Fichte, non riguarda solo lui: ha sempre una dimensione pubblica perché è sempre riferito a una totalità. Gli esempi che Fichte fa sono due. Uno riguarda l’agricoltura: se un coltivatore rifiuta di introdurre le ultime novità tecniche egli danneggia tutta la comunità, in quanto la ostacola nel raggiungimento del suo scopo, il dominio della natura. Quindi egli, pur non toccando direttamente la libertà del suo vicino, la ha comunque conculcata anche solo conducendo in un certo modo il suo terreno. Il secondo esempio di Fichte riguarda invece i vaccini, introdotti pochi anni prima da Jenner per la cura del vaiolo e già oggetto di polemiche. Chi li rifiuta, scrive Fichte, commette lo stesso delitto di chi rifiuta le innovazioni tecniche sul suo terreno. Chi li rifiuta, pur agendo solo sul suo corpo, che in apparenza dovrebbe essere soggetto esclusivamente alla sua giurisdizione e non dovrebbe riguardare in nessun modo lo Stato, in realtà danneggia il corpo dello Stato stesso.

 
 
 

Fichte non si spinge alla conclusione totalitaria che il corpo appartenga allo Stato: conclude anzi con una domanda lasciata aperta, quella su chi sia ad avere il diritto di decidere quali siano gli scopi pubblici del corpo civile, quegli scopi che hanno la precedenza su qualunque diritto individuale. Egli non ha la risposta come non la ho io: il pensiero posteriore, da Hegel in poi, è in sostanza una serie di riposte più o meno fallaci a questa domanda. Ma l’aspetto grave, e veramente senza precedenti, mostrato dalla crisi Covid, è che l’Occidente ha rinunciato a porsi la domanda stessa, affidandosi a una religione che nega di essere tale. Una religione che nega sé stessa, una fede che si traveste da conoscenza empirica, è il delitto perfetto della falsa coscienza dell’Occidente. Quando ci si incammina sulla strada della falsa coscienza è impossibile prevedere dove si andrà a finire. Questi tre mesi ci mostrano che la destinazione è totalmente imprevedibile, e che cose spaventose possono diventare accettabili in pochi giorni.

 
 
 

Gianluigi Sassu

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