COS’È LA “SICUREZZA GLOBALE” DI EMMANUEL MACRON

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In Francia il disegno di legge sulla sicurezza globale, fortemente voluto da Macron, approda in Parlamento e accende le piazze, riunendo nella protesta i Gilet Jaunes, le associazioni dei giornalisti, un vario cosmo di attivisti e Ong, ma anche personalità un tempo vicine al Presidente. A cominciare da Jean Pierre Mignard, già esponente di spicco de La République en Marche, che oggi parla apertamente di «minaccia per l’idea stessa di democrazia». Mondi distanti ma unanimi in particolare contro il famigerato articolo 24, quello che punisce con un anno di carcere e fino a 45.000 euro di multa la diffusione di immagini relative ad operazioni di polizia in cui sia visibile il volto degli agenti. Solo però – precisa il ministro Gerald Darmanin – qualora vi sia manifesto danno all’integrità fisica o psicologica del poliziotto. Anche se che poi, cosa significhi questa espressione, lui stesso ha avuto qualche difficoltà a spiegarlo.

Un lasciapassare per gli eventuali abusi delle forze dell’ordine – così hanno sostenuto in molti – e la cosa ha destato scalpore perfino all’ONU. In effetti il sospetto ha più d’una ragione per porsi. Ci si domanda ad esempio che senso abbia un provvedimento del genere quando in Francia già esiste – come ha ricordato in aula il magistrato Laurence Vichniesky, non certo sospettabile di estremismo – un arsenale giuridico più che sufficiente a proteggere la polizia nell’espletamento delle sue funzioni. Lo dimostrano proprio i casi che Darmanin cita per sostenere che la censura non esisterebbe né sarebbe mai esistita: in Francia opera il Copwatch – ha detto – impegnato a monitorare le attività della polizia e a denunciarne gli abusi. Dimenticando però che il sito dell’organizzazione è stato giustappunto oscurato nel 2011 dal Tribunal de Grande Instance di Parigi (e rimasto inattivo per anni) perché ritenuto un pericolo per l’onore e l’integrità della Polizia e della Gendarmeria. Analogo il caso dell’attivista (l’altro esempio citato dal ministro) accusata di aver postato una foto di agenti di polizia, e soprannominata dalla stampa “cacciatrice di poliziotti”: ha subito nel 2019 una condanna a diciassette mesi di carcere. Senza bisogno di alcuna loi de la securité globale. Insomma, se gli strumenti non mancano già ora, perché battere ancora su questo tasto?

Sì, il sospetto che l’obiettivo da colpire siano le libertà costituzionali viene. Specialmente nella fase di prolungata tensione sociale che la Francia attraversa, in cui le denunce di abusi delle forze dell’ordine fioccano anche grazie alla documentazione fotografica e video. Senza dire di casi giudiziari che più d’un fastidio hanno procurato all’Eliseo, e che – osservano in tanti – non sarebbero forse mai esistiti in regime di “sicurezza globale”: primo fra tutti, il caso Benalla. A maggior ragione se, nel contempo, si dà alla polizia la possibilità di videoregistrare, tramite droni e camere mobili, qualsiasi cosa o persona, con garanzie per la privacy dei cittadini che pure il Defenseur des Droits della Repubblica giudica insufficienti. Anche questo, infatti, è previsto dalla proposta di legge.

A rafforzare i dubbi, poi, è la foga retorica con cui i sostenitori della legge tentano di soffocare qualsivoglia obiezione. Facendo in modo che tutto naufraghi nella diatriba ideologica. Stigmatizzando le voci critiche quasi che lo scontro fosse fra chi è a favore e chi è contro la sicurezza dei cittadini. Da qui il riduzionismo con cui Darmanin liquida le proteste: rigurgiti della sinistra anti-poliziotto, nulla più. In realtà le piazze traboccano di manifestanti che è difficile bollare in blocco come estremisti, e in aula il provvedimento è contestato da France Insoumise come da socialisti e da diversi centristi di MoDem. Ma pazienza. La strategia macroniana resta quella di strizzare l’occhio all’ala destra del Parlamento (che infatti approva o lascia fare). Forse anche per ricucire meglio lo strappo avvenuto fra governo e forze di polizia all’indomani dell’uccisione di George Floyd negli USA, quando Macron, flirtando coi BLM, si chiedeva se non fosse il caso di varare riforme ad hoc sul tema delle violenze a sfondo razzista da parte dei poliziotti (e trionfalmente l’allora ministro Castaner faceva proclami di tolleranza zero). Dopo avere minimizzato a oltranza l‘uso della violenza sui manifestanti in gilet giallo. 

Ora, infatti, pare si sia tornati a regime, ovvero alla professione di fede cieca nell’operato della polizia, a sentire Darmanin: «Quando si scatenano le violenze, non è per via dei poliziotti, che sono semmai le vittime della violenza» ha detto intervistato su France Inter, e ancora, secondo quanto riportato dal quotidiano Mediapart: «Non ci sono due parole uguali tra chi sfida l’autorità e chi ha autorità. In primo luogo, c’è l’autorità della polizia. Per natura, per costruzione e per definizione, la sua parola vale più di quella di chi non è un poliziotto». Del resto, già a settembre il suo contestatissimo Schéma national du maintien de l’ordre aveva provocato un’immediata levata di scudi da parte delle associazioni della stampa che ravvisavano l’intento di limitare la possibilità di documentare eventuali scontri durante le manifestazioni. E già allora si profilava all’orizzonte quell’idea di sicurezza globale che oggi – se definitivamente approvata – aggiungerebbe un nuovo tassello alla lunga, laboriosa e minuziosa costruzione del Security State francese.

La lunga marcia di Macron verso il controllo sociale

Come infatti suggerisce la giornalista Ellen Salvi, per capire pienamente le ragioni delle proteste bisognerà fare qualche passo indietro. Almeno fino al 30 ottobre 2017, quando Macron, da poco eletto in quanto giovane promessa liberale, rende di fatto definitivo lo stato d’emergenza proclamato da Hollande nel 2015 in seguito ai numerosi attacchi terroristici, e da allora ininterrottamente prorogato. Da quella data le norme eccezionali – sia pure con alcune attenuazioni (qui una sintesi articolata) – confluiscono stabilmente nell’ordinario impianto giuridico. In particolare le perquisizioni domiciliari (precisamente: visite domiciliari), il sequestro di documenti e l’obbligo di soggiorno – sia pure disposte da un giudice e previo parere del pubblico ministero – possono avvenire di fatto anche solo sulla base di sospetti (precisamente: serie ragioni di ritenere che i soggetti coinvolti possano essere pericolosi). Ossia sulla base di una valutazione con ampi margini di discrezionalità, generalmente svolta dall’autorità amministrativa. La stessa che può disporre perimetri di sicurezza e perquisizioni obbligatorie attorno a qualunque evento o luogo pubblico, mentre le compagnie aeree possono trasmettere alle autorità i dati di qualunque passeggero ritenuto sospetto, dall’itinerario al metodo di pagamento del biglietto. Senza dire dei maggiori poteri conferiti all’intelligence in materia di intercettazioni e sorveglianza elettronica. Per inciso, parliamo di misure che già durante lo stato emergenziale avevano dato risultati giudiziari modesti rispetto all’invasività dei provvedimenti (circa 4569 perquisizioni domiciliari amministrative, con l’apertura di 690 procedimenti giudiziari di cui 21 per apologia del terrorismo e 4 per associazione con finalità di terrorismo). E che sono riuscite a far parlare di sistema «orwelliano» anche Amnesty International.

In questo clima emergenzialista arrivano, nel 2018, alcuni macigni diretti alla libertà di stampa. La direttiva europea sul segreto d’impresa viene infatti recepita nel sistema normativo francese, limitando drasticamente la possibilità, da parte dell’opinione pubblica, di accedere a informazioni anche rilevantissime sugli affari di società, gruppi industriali, multinazionali (ma anche su concessioni e atti amministrativi aventi particolare rilevanza economica). Ne fanno le spese subito i giornalisti di Le Monde, impegnati nell’inchiesta Implant Files – inchiesta di caratura mondiale sui dispositivi a rischio impiantati nei pazienti, in collaborazione con l’International Consortium of Investigative Journalists – che si vedono negato l’accesso «ai documenti di interesse pubblico da LNE/G-MED, una delle 58 società commerciali europee autorizzate a controllare i dispositivi medici (defibrillatori, pompe di insulina, protesi anca, ecc.)».

Pressoché contemporaneamente si apre il travagliato dibattito sulla legge relativa alle fake news, che passa infine alla Camera senza troppi clamori, mentre i media si concentrano sulla montante marea dei Gilet Jaunes. Eppure – a dispetto della sordina – il fatto non è da poco: uno Stato democratico occidentale si attribuisce di fatto il potere di decidere se una notizia sia vera o falsa. In sostanza si stabilisce che, nei tre mesi precedenti le elezioni, ogni candidato possa ricorrere presso un giudice per far rimuovere dal web notizie che ritiene ingiuriose o false. Il giudice ha 48 ore di tempo per decidere. E non manca neppure la stoccata agli arcinoti disinformatori russi: la legge infatti, fra l’altro, attribuisce alla Csa, l’autorità per le comunicazioni, il potere di sospendere canali televisivi «controllati da uno Stato estero o sotto la sua influenza» nel caso in cui «disseminino deliberatamente informazioni false in grado di compromettere la sincerità del voto». Anche in questo caso giungono accuse di voler instaurare un regime orwelliano, da parte di deputati di destra e di sinistra. Eppure Macron non si ritiene ancora soddisfatto: qualche mese dopo confida a Le Point di essere «preoccupato per lo stato dell’informazione e della verità». E di non accettare che le dichiarazioni di un sindaco o di un deputato possano essere messe sullo stesso piano di quelle di un uomo comune con un gilet giallo addosso.

Infatti, mentre le giubbe gialle resistono settimana dopo settimana, comincia ad attecchire l’idea di una nuova proposta di legge, per limitare il diritto di protesta. Per penalizzare cioè ogni manifestazione non preventivamente autorizzata dalle autorità ed estendere alle dimostrazioni di piazza le misure in vigore contro la violenza negli stadi, con tanto di cittadini schedati, perquisiti e privati del diritto di manifestare se ritenuti una potenziale minaccia o se in contatto con persone ritenute pericolose (ovviamente questo lo decide preventivamente l’autorità in base alle «serie ragioni» di cui sopra). La cosa si concretizza in fretta, e – nonostante le scosse che ciò provoca perfino fra i macroniani – il 12 marzo 2019 viene approvata la cosiddetta legge “anti-teppisti”, mentre gli allarmi ormai provenienti anche da ampi settori del centro moderato restano inascoltati. E a poco varranno anche i richiami di Dunja Mijatovic e Michelle Bachelet – rispettivamente Commissario del Consiglio d’Europa per i diritti umani e Alto Commissario ONU per i diritti umani – di fronte all’escalation di violenze da parte della polizia che segnerà i mesi successivi. 

A quest’altezza, infatti, l’ossessione securitaria di Macron si è già solidificata in dottrina. Grazie, ad esempio, ai deputati Jean-Michel Fauvergue – ex capo dell’unità elitaria di polizia RAID nonché co-autore dell’attuale disegno di legge – e Alice Thourot. I due, già nel 2018, avevano illustrato la via nel loro rapport de mission parlementaire. Un documento illuminante, in effetti. A parte le proposte (rafforzamento della presenza della polizia sul territorio, del suo equipaggiamento, dei canali di formazione etc.), ciò che colpisce è la scelta semantica. Fin nel titolo (Dal “continuum” della sicurezza alla sicurezza globale), che scolpisce nel lessico dell’era macroniana la formula oggi in discussione, con anni di anticipo. E non solo. Come nota Jonathan Frickert su Contrepoints, anche concettualmente il passaggio dal continuum (cioè da un sistema plurale e dinamico) al globale non è innocente: contiene l’idea della «sicurezza non come processo, ma come processo di pianificazione; non più obiettivo, ma stato». Alludendo però a un campo di inclusione, collaborazione generale, modernizzazione, semplificazione e via dicendo. Tutte retoriche ben note. Ed è per questa via, in questo quadro – oltretutto con l’emergenza sanitaria ormai imperante – che si arriva alla legge oggi in discussione. Legge che, peraltro, si accompagna al dichiarato obiettivo di rimettere sul tavolo anche un provvedimento contro i reati d’odio on-line, dopo la sonora bocciatura della legge Avia, ritenuta dal Consiglio Costituzionale non proporzionata alle doverose garanzie di tutela della libertà d’espressione. La spinta per riprovarci è data dallo scioccante omicidio terroristico del docente Samuel Paty, in seguito al quale fra le fila della maggioranza ha cominciato a circolare l’idea di una modifica della Costituzione. Tanto per ovviare alle noiose osservazioni del Consiglio Costituzionale. Il cui presidente Laurent Fabius, intervistato da Le Journal du Dimanche, ha non per caso dovuto ricordare che fra la lotta al terrorismo e un tratto di penna sulle libertà e i diritti fondamentali c’è un’invalicabile differenza. Perché, sì, più d’un sospetto viene.

 

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