Tempesta sul Medio Oriente

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Un primo tentativo di analisi del riaccendersi del conflitto in Palestina, pur nel pieno dell’azione ancora in corso, ed in particolare soffermandosi su tre aspetti: la mancata previsione dell’attacco, da parte dei servizi di sicurezza israeliani e statunitensi; la capacità palestinese di ottenere il fattore sorpresa al momento dell’attacco; il senso politico e militare dell’operazione in generale.

Come un sasso in piccionaia, l’attacco portato dalle Brigate Ezzedin al-Qassam il 7 ottobre, ha sorpreso e sconvolto tutti, gli osservatori e – ovviamente – gli stakeholders. Essendo l’operazione al Aqsa Flood ancora in corso, non è al momento possibile farne una analisi chiara ed esaustiva; ciò nonostante, alcune riflessioni possono essere già fatte. E di alcune, anzi, si avverte decisamente l’urgenza.
In particolare, sono tre gli aspetti su cui soffermarsi. La mancata previsione dell’attacco, da parte dei servizi di sicurezza israeliani e statunitensi. La capacità palestinese di ottenere il fattore sorpresa al momento dell’attacco. Il senso politico e militare dell’operazione in generale.

Prima di entrare nel merito, ed esaminare specificamente questi tre aspetti, è importante aggiungere una ulteriore premessa, di ordine più generale. Purtroppo, talvolta anche in ambienti presumibilmente identificabili come alieni dalla propaganda mainstream, si insinua un pericoloso bias complottista, che tende a vedere – nelle varie articolazioni statuali del potere occidentale – una sorta di moloch invincibile, e che pertanto, quand’anche si ritrova dinanzi ad una palese sconfitta di questo potere, ai suoi clamorosi errori, rifiuta di farsene convinto, e tende ad immaginare oscure manovre ed occulti disegni, in base ai quali la realtà apparente sarebbe in effetti l’opposto di ciò che è fattualmente. Detto altrimenti, se questo potere appare accusare una sconfitta, foss’anche solo limitata, il bias complottista porta a credere che si tratti in realtà di una qualche cover action, e che nasconda un fine ultimo occultato ma voluto.

Questo bias è un pericolosissimo ostacolo a qualsiasi comprensione dei fenomeni sociali, politici e militari, ed andrebbe decisamente rimosso. Nello specifico, peraltro, si potrebbe persino sostenere che è precisamente questo approccio immaginifico, a  risolversi in un vantaggio per il suddetto potere. È infatti evidente che, al di là di come possa concludersi – militarmente e politicamente – l’operazione palestinese, il suo più grande successo (indiscutibilmente acquisito) sta proprio nell’aver infranto il mito dell’invincibilità di Israele, dell’infallibilità dei suoi servizi di intelligence, della sua suprema capacità di garantire la sicurezza dello stato e dei suoi cittadini. Sostenere che invece saremmo di fronte ad una sofisticata manovra, finalizzata ad un più ampio disegno strategico, rovescia il dato di fatto, e non solo riabilita il mito, ma addirittura lo rilancia, ammantandolo di una sottigliezza di livello ancor più elevato.

Passiamo adesso ad esaminare il primo dei tre aspetti, ovvero la mancata previsione dell’attacco, da parte dei servizi di intelligence occidentali. Prima di ogni cosa, va però sottolineato un aspetto importante della questione, relativamente alle caratteristiche dell’attacco in sé. Innanzi tutto, questo non ha evidenziato alcun significativo salto di qualità, sotto il profilo degli armamenti messi in campo; fondamentalmente, l’operazione è stata portata a compimento utilizzando armamento leggero ed i soliti razzi autocostruiti (una tecnologia in continuo sviluppo, a cui Hamas lavora da anni), e solo limitatamente ad altro armamento individuale (fucili d’assalto e MANPADS) di fabbricazione statunitense, quasi certamente provenienti dal contrabbando d’armi generato in Ucraina – e di cui lo stesso governo israeliano aveva parlato poco tempo addietro. Non c’è stata alcuna evidenza di armamenti di altra provenienza, e segnatamente iraniana – ad esempio, i droni per cui è ormai famosa internazionalmente Teheran.

Ciò significa che non c’è stato alcun significativo trasferimento di armamenti, che avrebbe potuto essere rilevato a monte della filiera che conduceva a Gaza. Va inoltre tenuto presente che una operazione di questo genere, nelle condizioni estremamente particolari in cui si trova il territorio dove è stata pianificata e da cui è partita, deve aver richiesto una preparazione estremamente lunga ed accurata, durata quanto meno un anno [1].
Ciò ha comportato non solo l’accumulo di razzi e di munizioni, ma l’addestramento dei reparti operativi, l’allestimento di una centrale di comando specifica per l’operazione, l’acquisizione di informazioni sia sui sistemi di controllo frontalieri che sugli obiettivi, lo sviluppo di un sistema di comunicazione non intercettabile.

A fronte di tutto ciò, può apparire incredibile che nulla sia stato rilevato. E, ovviamente, allo stato attuale non sappiamo assolutamente come ciò sia avvenuto, ovvero come le formazioni militari di Hamas siano riuscite a dissimularlo per così tanto tempo.
Sappiamo però abbastanza sul sistema di sorveglianza che avrebbe dovuto scoprirlo, per formulare un ragionamento deduttivo convincente. Va innanzitutto considerato che Gaza è uno dei territori più intensamente sorvegliati al mondo, attraverso la gamma più ampia di strumenti – dalle intercettazioni alla sorveglianza satellitare e aerofotogrammetrica, alla rete di informatori locali e quant’altro. Tutto ciò produce quotidianamente una mole gigantesca di dati, che sfugge completamente alla possibilità di osservazione ed analisi umana, e pertanto – ormai da tempo – i servizi di intelligence israeliani si affidano all’AI, attraverso programmi appositamente sviluppati.

Questo sistema di analisi automatizzata ha funzionato egregiamente in passato, fornendo indicazioni utilissime in occasione di precedenti operazioni di Tsahal contro Hamas. Il che, ovviamente, ne ha rafforzato l’affidabilità. Il problema di un sistema del genere, ovviamente, è che lavora secondo una schema in fondo abbastanza semplice: sulla base dei big data accumulati nel tempo, è in grado di associare una serie di informazioni a determinati eventi, ed in base alla successione di questi può ragionevolmente prevedere quello che accadrà (o che il nemico si sta preparando a far accadere). Questo è ovviamente un meccanismo basato sull’esperienza. Se A + B produce quasi sempre C, quando il sistema identifica i fattori A e B si aspetterà che si verifichi l’evento C. Ugualmente, il sistema si allerta qualora si verifichi una qualche anomalia. Ad esempio il fattore B scompare per un tempo significativamente inconsueto, oppure improvvisamente appare un fattore D [2].

In questo modo, l’intelligence di Tel Aviv ha potuto monitorare costantemente le attività di Hamas nella striscia di Gaza, ovviamente con un sia pur ridotto margine di imprevedibilità. Ciò ha consentito in passato di individuare i laboratori di costruzione dei razzi e le rampe di lancio, anche se non del tutto. In un certo senso, quindi, i sistemi di sorveglianza basati su l’AI è come se sviluppassero un loro proprio bias (oltre naturalmente a portare nel proprio codice genetico quello di chi li sviluppati), che a sua volta si tranquillizza quando riscontra esattamente ciò che si aspetta di trovare.
Molto semplicemente, quindi, possiamo dedurre che la copertura per la fase di preparazione è stata ottenuta mantenendo operative tutte le attività note, che il sistema di sorveglianza conosce e si aspettava di rilevare, senza introdurre in queste alcuna anomalia. Mentre tutte le attività necessarie alla preparazione dell’attacco sono state abilmente mimetizzate tra quelle ordinarie, o rese invisibili. Se si tiene conto che, durante la fase operativa dell’attacco, le unità di Ezzedin al-Qassam hanno comunicato tra di loro e con la centrale di comando utilizzando un sistema (allo stato non sappiamo quale) totalmente sfuggito alle intercettazioni, la cosa appare del tutto plausibile.

Il secondo aspetto è quello su cui, al momento, non sono disponibili informazioni precise. È necessario pertanto, anche in questo caso, procedere deduttivamente.
La chiave di lettura complottista è che si sia trattato di una sorta di Pearl Harbor [3], ovvero che sapessero perfettamente dell’operazione, e che l’avrebbero addirittura facilitata poiché gli occorreva un pretesto per scatenare una sorta di soluzione finale. O, ancora più ampiamente, per innescare un ulteriore conflitto alla periferia della Russia. Con la variante ultra complottista, che vedrebbe Hamas come una creatura israelo-americana…
Se, astrattamente parlando, si potrebbe ipotizzare che il piano palestinese fosse noto all’intelligence, e che fosse intervenuta una decisione politica di lasciarlo mettere in atto – nonostante il prevedibile costo elevato in vite umane – appare assai improbabile che sia potuto accadere a livello dei sistemi di sorveglianza frontalieri.

Innanzi tutto, ciò sarebbe stato immediatamente rilevato proprio dal personale militare di servizio. Né si può pensare che questo ne fosse informato, ed avesse tranquillamente deciso di immolarsi per assecondare i piani del governo. Ma, soprattutto, è evidente che le unità di Ezzedin al-Qassam che hanno abbattuto le reti, distrutto le torri di sorveglianza ed attaccato i posti di guardia, se si fossero accorte che i sistemi di vigilanza non funzionavano, avrebbero immediatamente subdorato una trappola. Per come si sono svolti gli eventi, invece, tutto suggerisce che il sistema di sorveglianza confinario è stato disattivato nel momento in cui le unità operative sono entrate in azione (probabilmente utilizzando sistemi di jamming [4]), profittando anche delle condizioni di routine in cui si trovavano le forze israeliane di presidio – mattino presto, festa di shabbat, nessun avviso di stato di preallarme…

Anche in questo caso non sono disponibili informazioni sicure, e non è detto che si conosceranno a breve. Così come Hamas non ha interesse a far sapere come ha potuto disattivare il sistema di sorveglianza al confine della striscia, così l’IDF non ha interesse a rivelare come il suo sistema sia stato bucato. Di sicuro, però, ci saranno degli eventi che fungeranno da fattore di verifica. Se le ipotesi che si basano sull’idea del complotto sono fondate, indipendentemente da come vadano gli eventi sul breve e medio termine, sia i vertici militari che quelli dell’intelligence resteranno al proprio posto, o saranno addirittura promossi. Se, invece, verranno viceversa prima o poi rimossi, vorrà dire che non c’è stata alcuna connivenza, ma che si è trattato di una clamorosa defaillance degli uni e degli altri.

Terzo aspetto su cui merita di fare una prima riflessione, è il senso dell’operazione, sia sotto il profilo politico che militare, soprattutto alla luce delle – prevedibilissime – conseguenze.
Ed anche qui, sono necessarie alcune premesse.
Innanzi tutto su Hamas [5], il movimento politico di cui le Brigate Ezzedin al-Qassam sono il braccio militare, e che governa a Gaza da moltissimi anni.
Hamas nasce come filiazione palestinese di un movimento sunnita pan-arabo, quello dei Fratelli Musulmani, una formazione politico religiosa sostanzialmente moderata, che ambisce a realizzare governi basati su principi sociali e morali di ispirazione religiosa, ma che non immagina stati strettamente basati sulla sharia (come l’ISIS). Il movimento è particolarmente forte in Egitto, dove è ferocemente avversato dall’attuale governo militare.

Tra le formazioni della resistenza palestinese, Hamas è tra le più recenti, essendo nata nel 1987, sull’onda della prima intifada. Nella sua fase iniziale, e poi lungamente, Hamas fu vista sia dagli USA che da Israele come un fattore che potesse indebolire l’OLP, ed in tal senso fu apertamente favorita. Nel 2006, avendo vinto le elezioni legislative palestinesi, l’organizzazione arrivò allo scontro – anche militare – con la formazione di Al Fatah, che non accettava l’esito del voto. Al termine di questo confronto, Hamas ha assunto il controllo della striscia di Gaza, mentre Al Fatah quello della Cisgiordania, dividendo di fatto in due i territori sotto autorità palestinese.
Hamas è quindi divenuta di fatto l’unica organizzazione politico-militare di massa che ancora combatte contro l’occupazione israeliana, mentre l’Autorità Nazionale Palestinese, controllata da Fatah, è via via divenuta una sorta di autorità coloniale, in ottimi rapporti sia con l’UE che con gli USA, e relegata ad un ruolo rappresentanza simbolica della Palestina.

La lotta condotta da Hamas negli ultimi vent’anni – come del resto tutte le lotte messe in campo dai palestinesi, in vario modo e secondo diverse tattiche, a seguito della Nakba [6] – non ha notoriamente prodotto alcun risultato positivo. Non solo Israele, forte dell’appoggio statunitense e di tutti i paesi occidentali, continua a non applicare le risoluzioni ONU, ma la sua stretta repressiva si è vieppiù intensificata. Nel 2018 la Knesset, il parlamento israeliano, ha approvato una legge che stabilisce che Israele è uno stato ebraico (ovvero lo stato degli ebrei e per gli ebrei), ufficializzando l’apartheid di fatto che vige nei confronti della popolazione araba. E soprattutto Gaza, l’ultimo lembo di terra palestinese indomita, è stata trasformata in una gigantesca prigione a cielo aperto, dipendente praticamente in tutto da Israele, che ha il pieno controllo su tutto ciò che può o non può entrarvi. Last but not least, pur potendo ancora contare sull’appoggio delle popolazioni arabe, la causa palestinese ha di fatto perso quello dei governi arabi.

In questo contesto, è evidente come – da un lato – Hamas si sia trovata quasi costretta a cercare appoggio anche nel mondo sciita e radicale (Iran ed Hezbollah), e – dall’altro – abbia dovuto cominciare a riflettere sul fatto che la strategia di logoramento, fatta di periodiche fasi di scontro con l’Israel Defence Force, non era più né produttiva né sostenibile. Da qui la necessità, politica prima ancora che militare, di introdurre un elemento di discontinuità, capace di innescare un processo che produca un rilancio della resistenza palestinese e, più ampiamente, un rimescolamento strategico delle carte, nel quadro del Medio Oriente.
Una opzione, questa, tra l’altro resa possibile dal rimescolamento strategico globale in atto, e segnatamente dalla guerra in Ucraina (e dal suo andamento, sfavorevole all’occidente).
Esattamente come il conflitto ucraino ha dimostrato la fattibilità concreta di opporsi ai disegni statunitensi, così l’operazione al-Aqsa Flood ha già dimostrato la non invincibilità dell’esercito israeliano.

Sotto il profilo strettamente militare, invece, l’operazione aveva ed ha scopi più limitati, ma non per questo di minore rilevanza.
Ancora una volta, va innanzi tutto chiarito che tra gli obiettivi non c’è in alcun modo lo scatenarsi di un ampio conflitto mediorientale (che peraltro nessuno degli attori regionali e internazionali ha interesse che si scateni, almeno in questa fase), nel quale la resistenza palestinese rischierebbe fortemente di essere schiacciata. Così come è chiaro che non si è trattato di una missione suicida, in cui l’intero movimento si gioca il tutto per tutto.
Pur essendo evidente che una larga parte delle forze impegnate nell’azione (circa 1.500/2.000 combattenti) rischiano di cadere o di finire prigionieri, si deve infatti tenere presente che le Brigate dispongono di una forza stimabile tra 30.000 e 40.000 uomini.

Il primo obiettivo militare, pertanto, era infliggere il più elevato numero di perdite alle forze di occupazione. Giocando sull’effetto shock and awe, tutta la prima fase dell’operazione è servita a colpire l’IDF, attaccandolo in modo imprevisto e diffuso, non secondo una tattica di scontro frontale, attraverso la concentrazione di forze in pochi punti, ma al contrario, attraverso una estrema mobilità di piccoli gruppi. Ciò ha consentito non solo di provocare un alto numero di morti e feriti tra le forze nemiche, ma anche di amplificarne il disorientamento, il caos. Al punto tale che, ancora quattro giorni dopo, non è stato del tutto superato.
In questa fase offensiva, tra l’altro, i combattenti di al-Qassam hanno mostrato di aver appreso una lezione dal conflitto ucraino, utilizzando i comuni quadcopter sia per compiti di ricognizione sul campo, che in funzione di attacco (un carro armato Merkava è stato distrutto proprio sganciandovi dall’aria uno IED [7]).

Un’altra lezione appresa dalla guerra in Ucraina è la tattica – largamente applicata dai russi – di attaccare il nemico per invitarlo a contrattaccare, sfruttando quindi in un primo momento il fattore sorpresa, ed in un secondo momento il vantaggio di una posizione difensiva.
Per una serie di ragioni, infatti, adesso Tsahal è costretto ad attaccare via terra l’enclave di Gaza; e, consapevole che questo comporterà forti perdite (com’è inevitabile, in un contesto altamente urbanizzato), sta infatti temporeggiando. I forti bombardamenti cui sta sottoponendo Gaza servono non solo a colpire quanto più possibile le strutture militari di Hamas, ma anche ad organizzare al meglio la forza d’invasione. Una scelta, quella degli attacchi aerei, che paradossalmente rischia di aggiungere un ulteriore vantaggio ai difensori. Trovarsi infatti a combattere in mezzo alle rovine, che limitano ulteriormente la mobilità dei mezzi pesanti, aumenta la facilità di imboscate, libera dalla preoccupazione di salvaguardare le abitazioni, e rende più difficile l’orientamento per le forze nemiche.

Il secondo obiettivo militare era catturare il più alto numero possibile di nemici, portandoli all’interno delle roccaforti nella striscia. Questo non tanto nella prospettiva di utilizzarli come scudi umani, dissuadendo Tsahal dall’effettuare i bombardamenti [8], quanto in vista di uno scambio susseguente la fase acuta dei combattimenti. Anche da questo punto di vista, l’operazione è andata a buon fine, in quanto non solo sono stati catturati molti militari e civili, ma anche alti ufficiali. Ovviamente, trattandosi di un numero (al momento imprecisato) molto superiore ad ogni altro scambio precedente, l’obiettivo è quello di ottenere la liberazione di tutti i 7.000 prigionieri palestinesi (molti in detenzione amministrativa da anni), e con ogni probabilità soprattutto dei combattenti catturati nel corso degli scontri.

Infine, il terzo obiettivo, il più spigoloso.
È ovviamente sempre auspicabile, così come del resto prevederebbe il diritto internazionale di guerra, che nei conflitti si applicasse il massimo sforzo per salvaguardare le vite dei civili. Ed è, questo, un principio a cui – ad esempio – si sta attenendo la Russia, diversamente da quanto fatto dalla NATO nelle sue infinite guerre. È quindi indiscutibilmente deplorevole che i civili siano stati volutamente presi ad obiettivo. Purtuttavia, ciò che si intende fare qui è una analisi dei cosa e dei perché, non una disamina morale dei comportamenti.
Quindi non si tratta – in riferimento alle uccisioni ed al sequestro di civili – semplicemente di contestualizzare il fatto nel quadro di un conflitto pluridecennale e tragicamente asimmetrico, quanto di individuare le ragioni razionali di un fatto, che invece – purtroppo – la propaganda bellica cerca di presentare come manifestazione di ferocia animale.

Anche in questo caso, infatti, si tratta di una lezione appresa. Non dal conflitto ucraino, stavolta, ma proprio da quello israelo-palestinese. E ad impartire questa orribile lezione furono proprio gli israeliani: “le milizie sioniste si sono impadronite di oltre il 78% della Palestina storica, hanno distrutto circa 530 villaggi e città palestinesi e hanno ucciso circa 15.000 palestinesi in più di 70 massacri. Circa 750.000 palestinesi sono stati ripuliti etnicamente tra il 1947 e il 1949 per creare lo Stato di Israele nel 1948” [9].
Inutile ribadire che non si vuole in alcun modo giustificare l’orrore di oggi con quello – sia pure assai più grande – di ieri. Il punto è che entrambe avevano una ratio. Terribile quanto si vuole, inaccettabile se si crede, ma comunque una ratio.
Al di là della rabbia e dell’odio che può maturare in quasi ottant’anni di oppressione, così come in virtù del più atroce fanatismo ideologico e religioso, c’è infatti una motivazione razionale, un calcolo. E la ragione per cui i combattenti palestinesi hanno ucciso civili, e ne hanno catturati altri portandoli a Gaza, è precisamente quella di terrorizzare i coloni, ed indurli ad abbandonare le terre occupate abusivamente grazie all’occupazione militare.

Se e quanto questo effetto sarà raggiunto, e per quanto a lungo, non è ovviamente adesso dato saperlo. Molto dipenderà dagli sviluppi successivi. L’importante è comprendere che non siamo di fronte ad un atto gratuito, compiuto da quelli che il capo di stato maggiore israeliano definisce “animali” (e che in quanto tali ritiene meritevoli di qualsiasi controferocia), quanto piuttosto ad una risolutezza estrema, che capisce di non poter arretrare neanche di fronte a tanto.
È la terribile lezione del colonnello Kurtz:

“Io ho visto degli orrori, orrori che ha visto anche lei. Ma non ha il diritto di chiamarmi assassino. Ha il diritto di uccidermi, ha il diritto di far questo. Ma non ha il diritto di giudicarmi. È impossibile trovare le parole per descrivere ciò che è necessario a coloro che non sanno ciò che significa l’orrore. L’orrore ha un volto. E bisogna farsi amico l’orrore, orrore, terrore, morale e dolore sono i tuoi amici. Ma se non lo sono, essi sono dei nemici da temere. Sono dei veri nemici.
Ricordo, quand’ero nelle forze speciali, sembra migliaia di secoli fa, andammo in un campo, per vaccinare dei bambini. Lasciammo il campo dopo aver vaccinato i bambini contro la polio. Più tardi venne un vecchio correndo a richiamarci, piangeva, era cieco. Tornammo al campo: erano venuti i vietcong e avevano tagliato ogni braccio vaccinato. Erano là in un mucchio. Un mucchio di piccole braccia. E mi ricordo che ho pianto, pianto come una madre.

Volevo strapparmi i denti di bocca, non sapevo quel che volevo fare. E voglio ricordarlo, non voglio mai dimenticarlo, non voglio mai dimenticarlo. Poi mi sono reso conto, come fossi stato colpito… colpito da un diamante, una pallottola di diamante in piena fronte… e ho pensato: mio Dio che genio c’è in questo… che genio, che volontà per far questo… perfetto, genuino, completo, cristallino, puro. E così mi resi conto che loro erano più forti di noi, perché loro la sopportavano” [10].


1 – Ragion per cui l’ipotesi che sia stata coordinata con l’Iran ed altri gruppi armati della regioni, a partire dall’agosto scorso – come sostenuto dal Wall Street Journal – è semplicemente impossibile. Del resto, a smontare la credibilità di questa tesi (a parte le assurdità come la partecipazione del ministro degli esteri iraniano Amir-Abdollahian alle riunioni operative a Beirut), c’è il fatto che uno degli autori dell’articolo, il corrispondente dal Medio Oriente del WSJ Summer Said, secondo quanto dichiarato dal giornalista Andrew MacGregor Marshall, “ha una storia di disonestà e invenzione di storie. L’ho licenziato dalla Reuters nel 2008 per questo motivo. Sono sorpreso che il @WSJ l’abbia assunto e stia pubblicando le sue storie che sono chiaramente fasulle”.
2 – Per quanto riguarda il sistema di controllo israeliano gestito dall’AI, e più in generale per una interessante disamina sia delle impostazioni concettuali con cui vengono gestiti i servizi in Israele, sia della mutevole storia dei rapporti tra questi e quelli statunitensi, estremamente interessante è l’articolo scritto da Scott Ritter (a sua volta ex-agente di intelligence USA): “Israel’s Massive Intelligence Failure”consortiumnews.com
3 – Come è noto, c’è una corrente di pensiero, anche storiografica, che ritiene che l’attacco giapponese alla base navale delle Hawaii fosse noto ai vertici statunitensi, che però lo avrebbero lasciato avvenire poiché Roosevelt aveva bisogno di un casus belli forte per convincere la nazione ad entrare in guerra. Ovviamente non c’è alcuna prova inconfutabile di ciò, anche se ovviamente si tratta di una ricostruzione plausibile.
4 – Il jamming è l’atto di disturbare volutamente le comunicazioni radio (wireless) facendo in modo che ne diminuisca il rapporto segnale/rumore, indice di chiarezza del segnale, tipicamente trasmettendo sulla stessa frequenza e con la stessa modulazione del segnale che si vuole disturbare.
5 – Ḥamās, acronimo di Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya (in arabo حركة المقاومة الاسلامية‎?, Movimento Islamico di Resistenza, ovvero حماس, “entusiasmo, zelo, spirito combattente”).
6 – L’esodo palestinese del 1948 (in arabo الهجرة الفلسطينية‎?, al-Hijra al-Filasṭīniyya), conosciuto soprattutto nel mondo arabo, e fra i palestinesi in particolare, come nakba (in arabo النكبة‎?, al-Nakba, letteralmente “disastro”“catastrofe”, o “cataclisma”), è l’esodo della popolazione araba palestinese durante la guerra civile del 1947-48, al termine del Mandato Britannico, e durante la guerra arabo-israeliana del 1948, dopo la fondazione dello Stato di Israele.
7 – Acronimo di Improvised Explosive Device, ordigno esplosivo improvvisato.
8 – L’IDF sa perfettamente che tutti i prigionieri hanno un altissimo valore soprattutto da vivi, e che pertanto saranno tenuti al sicuro in strutture sotterranee segrete, appositamente predisposte in anticipo.
9 – Cfr. “Palestinians Speak the Language of Violence Israel Taught Them”, Chris Hedges, sheerpost.com
10 – “Apocalypse now”, Francis Ford Coppola

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3 thoughts on “Tempesta sul Medio Oriente

  1. [quote]il bias complottista porta a credere che si tratti in realtà di una qualche cover action, e che nasconda un fine ultimo occultato ma voluto[/quote]

    È vero, anche io ho pensato a una specie di manovra controllata o perlomeno in cui c’è stata un’infiltrazione da parte dei servizi di intelligence. È scattata un’associazione all’attentato dell’11 Settembre, anche in quel caso parecchie migliaia (attente analisi di Miles Mathis hanno ridotto il numero a qualche centinaio) di cittadini statunitensi e i maggiori simboli della loro civiltà come le Twin Towers trovarono morte e distruzione. Anche in quel caso a far scattare l’idea del complotto erano diverse impossibilità tecniche. In questo caso ci sono state alcune operazioni difficilmente credibili dal punto di vista tecnico, come l’uso dei parapendii motorizzati, le brecce attraverso i muri, la falsificazione di video. La giustificazione che i servizi di sorveglianza si erano rilassati non mi convince. Comunque cerco di osservare e valutare le due spiegazioni, dei complottisti e di quelli che si attengono alla versione ufficiale.

    1. Per migliaia di anni, gli umani quando non capivano le cause di qualcosa parlavano di magia… A noi non piacciono le domande senza risposta, e quindi cerchiamo sempre di trovarne una, purchessia. Nello specifico, posto che una serie di dubbi probabilmente si andranno chiarendo man mano, essendo tutte questioni tecniche, la domanda vera a cui dare risposta è ‘perchè’. Dato che, con ogni evidenza, l’attacco palestinese ha provocato un danno enorme ad Israele, sia politico che militare che d’immagine (infrangendone il mito dell’invincibilità), ed al tempo stesso ha riportato la questione Palestina al centro del dibattito politico mondiale, aggiungendo quindi al successo militare quello politico, cosa mai avrebbe potuto giustificare un prezzo così alto? Per quale ragione Tel Aviv avrebbe dovuto incassare un tale colpo, per ottenere cosa? L’ipotesi che gli servisse una ‘scusa’ per scatenare un genocidio, o per portare a termine l’espulsione totale dei palestinesi, non regge per almeno tre ottime ragioni:
      – parte del prezzo da pagare per questo presunto obiettivo sono proprio condizioni politiche che lo rendono impossibile
      – a riprova, né l’una né l’altra cosa sta accadendo, ed è sempre più evidente che non possono accadere
      – in ogni caso, sarebbe stato assai più comodo e facile organizzare una false-flag, ad esempio un grande attentato, e poi far partire la rappresaglia
      E se non era questo l’obiettivo, se il presunto complotto non fosse finalizzato ad una ‘soluzione finale’ contro i palestinesi, a cos’altro allora?

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